1.1 Editoriale 

Quaderni acp - volume 6 - numero: 6.2 Aprile 1999

 

 

Leggere ad alta voce e raccontar storie: ben più di un passatempo

 

 Rita Valentino Merletti

 

E-mail: ritav.merletti@olpcom.it

Rita Valentino Merletti è nata a Torino, dove si è laureata

in Lingue e Letterature Straniere. Ha proseguito gli studi

universitari negli Stati Uniti, specializzandosi in Letteratura

per l’infanzia presso il Simmons College e la Boston University.

Nell’ambito della School of Education di quest’ultima

università ha svolto, per alcuni anni, attività di didattica

e di ricerca. Per la collana "Infanzie" della Mondadori

ha pubblicato il saggio "Leggere ad alta voce".

 

È di questi giorni la notizia del rinnovato interesse di Hillary Clinton a intensificare gli sforzi per promuovere una più efficace azione di alfabetizzazione dei bambini americani, convincendo genitori e insegnanti a ritornare ad una abitudine antica che, specie nei paesi anglofoni, ha una lunga e consolidata tradizione: leggere ad alta voce e raccontare storie: tutti i giorni e fin da quando i bambini sono piccolissimi. Per sostenere il suo progetto, Hillary Clinton ha chiesto e ottenuto la collaborazione dei pediatri, la cui voce autorevole ha ottime probabilità di essere ascoltata. L’iniziativa non è particolarmente nuova dal momento che, già nel 1985, la Commissione Federale per la Lettura nel suo autorevole rapporto annuale aveva individuato nella lettura ad alta voce da parte di genitori e insegnanti lo strumento più efficace e accessibile per far nascere nei bambini, il più precocemente possibile, il piacere dell’ascolto, il gusto per la narrazione e, di conseguenza, il desiderio di imparare a leggere e la motivazione per continuare a farlo anche al di fuori della scuola. Con un impegno senza precedenti, si era dunque dato corso a una serie di iniziative miranti a convincere soprattutto i genitori dell’insostituibilità di questa pratica quotidiana con i bambini. Agli inizi degli anni novanta l’argomento è tornato alla ribalta e ha suscitato una certa curiosità perché a riproporlo è stato un pediatra del prestigioso Children’s Hospital di Boston che ha "prescritto" alla mamma di un piccolo paziente la lettura quotidiana di una storia. Altri pediatri, specie quelli attivi nelle zone più degradate e periferiche della città, hanno seguito il suo esempio ed è quindi diventato piuttosto usuale considerare la lettura o il racconto di storie un argomento legato al benessere del bambino. Non di rado, però, l’invito a leggere o a raccontare è rivolto a genitori che con i libri e le storie hanno pochissima dimestichezza e, quindi, per evitare che venga disatteso, è necessario rafforzare la rete di sostegno che fornisce modelli di riferimento, disponibilità e reale accessibilità di libri, corsi di alfabetizzazione letteraria per gli adulti e quant’altro possa contribuire a rendere praticabili le indicazioni dei pediatri. Nel caso bostoniano si è trattato essenzialmente di consolidare e arricchire di proposte, programmi di lavoro già esistenti. Biblioteche scolastiche e di pubblica lettura, insegnanti, narratori e lettori di professione hanno messo a disposizione tempo e competenze e hanno intensificato sforzi per dimostrare anche ai genitori più refrattari quanto fosse bello, stimolante e accessibile il mondo delle storie. I libri per bambini hanno imposto la loro presenza in tutti i luoghi dove si potessero prevedere soste, anche brevi, di adulti accompagnati da bambini: stazioni della metropolitana, supermercati, uffici postali, luoghi di ritrovo di ogni tipo, ristoranti e, naturalmente, le sale di attesa di qualsiasi ambulatorio. La strategia di diffondere libri belli, accattivanti, colorati, semplici da leggere, sufficientemente brevi per essere letti in singole sedute, bilingui (ove questo fosse ritenuto opportuno e facilitante) fa leva su tecniche di marketing ben collaudate: la riproposta costante dello stesso messaggio e l’effetto positivo derivato dai meccanismi di riconoscibilità che abbassano il livello di diffidenza e del senso di inadeguatezza. Trovare ad esempio, nell’ambulatorio del pediatra, lo stesso albo illustrato che in biblioteca o a scuola, o in libreria è stato letto o raccontato da un professionista, facilita la riproposta da parte di un genitore anche non troppo esperto e regala al bambino la possibilità di sentir rileggere una storia. Si sa bene, infatti, quanto sia intenso nel bambino il piacere del riconoscere, della ripetizione e del riascolto. L’iniziativa del pediatra del Children’s Hospital (e di chissà quanti altri pediatri che hanno riflettuto sull’argomento) non è certo frutto di una bizzarria, anche se i media, nel riportarla, hanno mostrato un certo grado di condiscendenza. Nella sua apparente semplicità coagula su di sé una serie di valenze che, oltre ad essere legate a una immediata preoccupazione per lo stato dell’alfabetizzazione e della lettura in genere, hanno a che fare con modelli di comunicazione più positivi e affettivi che influiscono in modo rilevante sullo sviluppo emotivo del bambino. Leggere ad alta voce o raccontare storie sono infatti qualcosa di più di semplici passatempi sostituibili o intercambiabili con altri. Né l’abitudine a farlo si può facilmente imporre.

Le competenze che richiede non sono di facile acquisizione perché devono fare riferimento a una tradizione personale (che se non c’è è molto difficile da creare), presuppongono una disponibilità reale e sincera per questo tipo di comunicazione e per il tipo di relazione che essa mira ad instaurare: complicità, empatia, autenticità del sentire e molto altro ancora. Non si raccontano storie se non vivendole dal di dentro, se non mostrando di partecipare completamente al clima emotivo che esse intendono creare. Il racconto o la lettura di una storia implicano il mettersi in gioco, ed è proprio il grado di disponibilità a farlo a rendere l’esperienza più o meno soddisfacente e a conferirle o no una valenza terapeutica.

In inglese guarire si dice to heal. Il termine, di radice anglosassone, significa "rendere integro, intero", e in questo senso deve essere inteso. Significa dunque mettere insieme frammenti disparati dando loro interezza, coerenza, e continuità. Di per sé stesse le storie non guariscono dai mali profondi dell’anima e del corpo: di certo però possono curare. Curano l’insensatezza della malattia, sia essa fisica o psichica. Curano la frammentarietà, la disgregazione, la provvisorietà che la malattia - ma anche le insalubri abitudini della vita contemporanea - portano con sè. Curano o, per meglio dire, si prendono cura, di quanto è ancora sano e ne alimentano la crescita. Come fili che si tendono tra parti diverse del sé offrono sostegno nel difficile percorso verso il recupero di un’integrità perduta o mai posseduta. Le storie hanno un inizio, una parte centrale e una fine. Sono intere e integre: crescere e maturare vuol dire anche saper mettere insieme i frammenti della propria esperienza con quella di chi ci ha preceduto e ce l’ha narrata, ce l’ha lasciata a testimonianza dei suoi stessi tentativi. "Siamo fortunati - sostiene lo psichiatra Robert Coles - a ricevere queste storie come eredità da chi ci ha preceduto: una riserva morale di situazioni a cui possiamo costantemente attingere, da usare come prezioso strumento di introspezione, da condividere, per anni a venire, di generazione in generazione. Uno strumento di introspezione e un modo di indurre a interpretare la propria vita in termini di storia, di proiettarla in un contesto più ampio riuscendo ad attribuire significato a esperienze che potrebbero altrimenti apparire prive di senso".

E se è così per l’adulto, a maggior ragione lo sarà per il bambino nella cui vita le cose "prive di senso" sono ancor più numerose e, talvolta, ancor più dolorose. Nelle storie si trova un elemento di ordine e rassicurazione.

Eppure capita spesso, ad adulti e bambini, di rimanere paralizzati di fronte alla richiesta di raccontare una storia. Si fruga nella memoria, si chiamano a raccolta le capacità creative, si pensa all’ultimo film o all’ultima telenovela, ma si finisce per scartare tutto affermando di non sapere nessuna storia. Non è così: di storie ne sappiamo tutti. Non sono i contenuti a mancarci, ciò che ci manca è la capacità di narrare, manca il silenzio interiore per ritrovarla, per venire a patti con la nostra esperienza e la nostra capacità espressiva.

Il momento della lettura può aiutare adulti e bambini a ritrovare questo silenzio e a ritrovare la capacità di narrare la storia che ci riguarda più da vicino, quella che per noi è più importante e vitale. Può aiutare a ritrovare il dialogo con la parte più profonda del sé, a non perdere la capacità di pensare in termini narrativi. I bambini, fintanto che il clamore che hanno intorno non sovrasta la loro voce interna, non fanno altro che pensare in termini di narrativa: lo fanno inventando giochi e proiettandosi in situazioni lontane dalla realtà di tutti i giorni. Le migliori storie che siano mai state scritte per loro sono esattamente quelle che ricatturano queste fantasie e, in più, danno loro un ordine e una conclusione soddisfacente, rassicurante: quella che essi stessi, spesso, non sono in grado di darsi.

Sono queste le basi di partenza da cui si muovono, negli Stati Uniti ma non solo, molte azioni di prevenzione o cura del disagio infantile e adolescenziale che implicano una migliore capacità di comunicazione tra adulto e bambino. L’incontro sul terreno dell’immaginario, la relazione intensamente affettiva che si viene a creare nel momento in cui l’adulto acconsente di entrare in uno spazio di creatività, rimane, nell’esperienza del bambino, un momento di incancellabile pregnanza. Lo sa bene chi, da bambino, ha ricevuto dai genitori o da altri adulti significativi della sua vita il dono delle storie, attraverso la lettura ad alta voce o il racconto. Non solo, infatti, è diventato lettore appassionato, ma non ha mai esaurito il desiderio di trasmettere il dono ricevuto ai propri e altrui bambini. Ma lo sa bene anche chi per professione e passione racconta storie e lo fa in condizioni estreme, all’interno di istituzioni dove ogni altro tipo di comunicazione sembra essere inefficace: carceri giovanili, istituti di rieducazione o recupero di tossicodipendenti.

Le testimonianze sono molte e molte riferiscono di come l’esperienza della narrazione abbia risvegliato negli ascoltatori un acuto senso di deprivazione. Racconta un narratore, che svolge la sua opera all’interno di istituti di rieducazione per minorenni, di essere immancabilmente avvicinato, al termine dei suoi racconti, da uno o più giovani che, con timidezza e imbarazzo, se non con vera e propria commozione, gli confidano che nessuno mai, in passato, aveva raccontato loro una storia.

Avvertono, questi giovani, di aver ricevuto qualcosa di importante. Non sanno capirne esattamente il perché. Sanno però che è qualcosa che li riguarda personalmente e personalmente gli è stato consegnato. Forse non avrà sufficiente potere per modificare il corso della loro esistenza né, forse, a fargliene trovare il senso. Potrà però, questo sì, fargli intuire che un senso ci può essere. Perché le storie, questo potere, ce l’hanno davvero, e non mancano mai di rivelarlo se sono raccontate con sincerità.