TITOLI E NOBILTA’
Legislazione nobiliare negli Stati Preunitari e nel
Regno d’Italia con particolare riferimento allo Stato della Chiesa e alle
Marche.
Nella nostra Patria dal 1°
gennaio 1948 vige la Costituzione repubblicana che nelle sue disposizioni
transitorie e finali prevede l’abolizione dei titoli nobiliari così recitando
testualmente (XIV norma): “ I titoli nobiliari non sono riconosciuti. I predicati
di quelli esistenti prima del 28.10.1922 valgono come parte del nome... “.
I titoli nobiliari quindi, non soppressi, ma privati
del loro valore giuridico e non essendo quindi più soggetti di diritto pubblico,
rimangono in vita quale reminiscenza storica e con quel valore sociale loro
derivato dal perdurante costume.
Alla luce di quanto sopra l’interpretazione
corretta del primo comma della norma è che non è vietato far uso di un titolo
nobiliare, ma che l’uso stesso è indifferente di fronte allo Stato repubblicano
il quale, non riconoscendo i titoli, non accorda la sua protezione all’uso
di essi.
Può concludersi che la fattispecie rientra dunque in
quei diritti che i costituzionalisti comprendono tra le libertà di fatto:
quelle cioè che la legge non vieta e non tutela.
La XIV disposizione della nostra
Costituzione non rappresenta un Novum Juris, poichè trova riscontro, come
principio, in altre considerazioni repubblicane moderne, ad esempio quella
di Weimar: “ I titoli nobiliari valgono solamente come parte del nome e non
dovranno esserne conferiti di nuovi” (la nostra Costituzione ha cognomizzato
solo i predicati, quella di Weimar anche i titoli); quella cecoslovacca: “
I Titoli non devono essere accordati che per designare l’impiego o la professione”;
quella irlandese del 1937 che inibisce la concessione di nuovi titoli nobiliari,
ma ammette all’uso quelli anteriori al 1921; quella francese, in ultimo, che
non tratta l’argomento ma nella quale la legge ammette l’accertamento e il
riconoscimento ad personam, non estendendosi quindi ai discendenti del richiedente.
La nostra Costituzione quindi
(forse perchè ispirata per gran parte dall’influenza ideologica improntata
a principi fortemente popolari e marxisti propugnati dall’Onorevole Togliatti
o per la volontà di esprimere una concreta, rancorosa rivalsa nei confronti
di una classe che, prevalentemente per merito e doti esemplari, era risultata
per più millenni dominante), rappresenta, al paragone con le altre scelte
democratiche adottate ed in precedenza citate, la soluzione finale più penalizzante
per la Nobiltà e nel contempo più goffa nel vano tentativo di cancellare storia
e tradizioni.
In estrema sintesi i valori che caratterizzavano il
ceto Nobile e ne permeavano la sua essenza, vennero sostituiti con un generico
principio di lavoro, anche se vile.
Il popolo, divenuto, nell’ espressione quantitativa
di volontà, determinante, si sostituisce, con il sovvertimento dell’organizzazione
piramidale precedente, che esprimeva al suo vertice un sovrano, primo dei
Nobili, nell’elemento sociale artificiosamente portante e vicariante nel reggimento
della struttura sociale ed amministrativa, sino a quel momento risultata esemplare.
Di conseguenza, e al fine di imitare le precedenti
sovrane investiture, appagando così la vanità sociale albergante e mai sopita
dell’animo umano, si è premiato il semplice lavoro, divenuto l’unica fonte
di onore sociale e di potere, con la creazione di onorificenze derivanti da
questo, con l’istituzione del Libro d’Oro dei caduti nell’esercizio della
propria attività, con il dare origine a Ordini e Cavalierati per merito nell’esercizio
di arti e mestieri, anche se vili o meccanici, in evidente contrapposizione
ai principi che in precedenza avevano rappresentato motivo di esclusione dalla
nobilitazione. "Da qui gli effetti paradossali dei principi repubblicani
capaci di iscrivere nel proprio Libro d’Oro magari un analfabeta addetto alla
ripulitura di pozzi neri, morto per annegamento nel liquame.
Dopo queste premesse e personali
considerazioni, è d’uopo passare all’argomento ispiratore di questa modesta
monografia volta a ribadire, non tanto frivoli fasti, quanto l’orgoglio di
una tradizione millenaria ed indelebile che si contrappone all’innaturale
egalitarismo volutamente privo di tempo ed antecedenze, l’inoppugnabile supremazia
di un’organizzazione sociale perfetta ed equilibrata perchè a questa sconosciuto
l’odio di classe, la doverosa fierezza di un ceto che, più carico di doveri
che di diritti, con ogni singola storia familiare, rappresenta, nel bene e
nel male, l’inalienabile e comune patrimonio della nostra Nazione.
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La
Nobiltà deriva, storicamente, ad un individuo dal concretizzarsi, ininterrotto
per secoli, di condizioni rigidamente statuite, stato per stato preunitario,
comuni a tutti gli ascendenti, componenti la linea di sangue familiare.
Tutto
ciò viene perfettamente chiarito dal Conte Guelfo Guelfi Camajani nel suo
Bollettino Araldico del I settembre 1915, in un articolo intitolato: "Se
il Sovrano debba riconoscere la Nobiltà piuttosto che conferirla", dal
quale si stralcia il brano seguente:
"Noi crediamo che la Nobiltà si
compendi in un onore distinto e signorile, tanto per parentele contratte,
quanto per aderenze, come per cariche onorifiche, il tutto confortato da un
censo relativo. Se una famiglia ha così vissuto noi crediamo che in essa sia
germogliata la Nobiltà che poi si raduni e si maturi dopo qualche generazione."
Tali
condizioni, per verifica temporale, danno distinzione in Nobiltà antica o
antichissima (determinante il dies a quo, al fine di dirimere quanto più o
meno generosa) Cfr. dotta introduzione del Marchese Aldo Pezzana Capranica
del Grillo ai "Processi nobiliari del S.MO.M." edito a Roma a cura
del Collegio Araldico - 1972.
Per
verifica di maggiore o minore purezza, genuinità e livello, in Nobiltà di
primo o secondo ordine, cioè non patrizia. Cfr. Parere del Procuratore del
Re presso la Camera dei Conti di Torino, I marzo 1882.
Per verifica di origine in Nobiltà di privilegio, di sangue e di ufficio. Cfr.
Parere del Presidente del Senato e del Presidente della Camera dei Conti di
Torino, coadiuvati dalla Avvocatura Generale del Senato Piemontese del 1738.
Nel
Regno delle Due Sicilie (come peraltro nel Regno Sardo , ove proprio non è
riconosciuta l'esistenza di Nobiltà civica sia sotto i Re d'Aragona, Re di
Spagna e poi di Sardegna , o nel Piemonte solo relativamente agli "Statuta
Sabaudiae " del 1430 ) invece la Nobiltà era prevalentemente legata al
possesso di un feudo o connessa con l' ufficio ricoperto (da ricordare che la feudalità , con tutte
le sue attribuzioni , fu abolita dalla legge 2.08.1806 di Giuseppe Bonaparte
e definitivamente abrogata dal restaurato
governo borbonico del Re Ferdinando IV, con legge 2.12.1816).
I
requisiti dell' ufficio ingeneranti Nobiltà furono precisamente demarcati
dal Regio dispaccio 25.01.1756 di Carlo VII° di Borbone :
"... che abbia l'origine da qualche ascendente il quale, per
la gloriosa carriera delle armi, della
toga, della Chiesa, o della Corte avesse ottenuto qualche distinto e superiore
impiego o dignità ... "
Possesso
di feudi nobili e glorioso ufficio davano luogo a Nobiltà generosa e come tale inserita nella prima delle tre classi
in cui fu divisa , nel Regno di Napoli, la Nobiltà (nella seconda si aveva
la Nobiltà di "privilegio" legata alla "munificienza de' Principi",
prevalentemente per promozioni nel pubblico impiego come stato maggiore dell'
esercito, carriera ecclesiastica e servizio a corte; nella terza, detta "legale",
era compresa la Nobiltà di sangue cioè quella spettante a coloro che potevano
dimostrare, da più generazioni, di aver tenuto un tenore di vita onorato con
" decoro e comodità "
e comunque alieno dall'esercizio di cariche o impieghi bassi o popolari).Vedi in tal senso il Regio Dispaccio di Carlo VII di Borbone
datato, 25 / 1 / 1756 .
Per
amore storico si ricorda che sempre più nel tempo si tenderà nel Regno di Napoli a far derivare la Nobiltà dalla volontà
sovrana più che dall'esercizio di cariche civiche o dalla nuova acquisizione di un feudo, anche se nobile.
Tutto
verrà ricondotto ad esclusiva prerogativa del Sovrano che, se solo in prima
persona si fosse degnato di concedere feudi (o suffeudi alle dirette dipendenze
della corona) e di elargire consenso per subinfeudazioni effettuate da grandi
feudatari, dal provvedimento poteva ingenerarsi Nobiltà.
La
tendenza a trasferire ogni principio di Nobiltà nelle mani del Sovrano risolutamente
iniziò con il Regio Dispaccio del 27.10.1793 di Ferdinando IV°:
"... il diritto deve essere esercitato unicamente dalla Sovrana
autorità del Principe, unica fonte di ogni Nobiltà ed onere ...".
Culminò
con la legge che aboliva i Sedili di Napoli ed il Tribunale di San Lorenzo
per dar luogo ad un Supremo Tribunale conservatore della Nobiltà del Regno e alla promulgazione dei quattro famosi registri nobiliari: 1) Libro d' Oro; 2) Registro delle Piazze dichiarate chiuse; 3) Registro delle Famiglie feudatarie da
oltre duecento anni; 4) Registro delle Famiglie dei Cavalieri di Malta ammesse per giustizia. (Legge. 25.04.1800).
Tornando all' argomento conduttore originario, dobbiamo
dire che concetti analoghi al fine di costituzione o riconoscimento di una
Nobiltà, venivano espressi nel Regno Lombardo (Costituzione di Ceto nobile,
delibera del Consiglio Generale di Milano, 13.05.1718; Regio Editto sulle
Nobiltà, così detto Editto Teresiano del
20.11.1769), che al capo primo, II° capoverso sancisce le
norme per il riconoscimento di Nobiltà generose collegate a storia
e status degli ascendenti paterni; al III° capoverso il riconoscimento di
Nobiltà per antico possesso di titoli concessi da precedenti Autorità Sovrane;
al IV° capoverso Nobiltà collegata al Feudo con giurisdizione; al V Nobiltà per grazia sovrana; al VI° Nobiltà d'ufficio.
Quanto
sopre viene ribadito e meglio collegato alla storia e al tempo per qualifiche
non inferiori ai 200 anni di esercizio, nell'editto 29.04.1771 portante "Ulteriori provvidenze sul Regolamento delle
Nobiltà".
Parimenti
nel Granducato di Toscana (legge 31.7.1750 del Granduca Francesco II° sul
" Regolamento delle Nobiltà e cittadinanze ") e a Venezia, in cui l'origine della Nobiltà é prevalente
d'ufficio (cfr. atti relativi a "Serrata del Gran
Consiglio" del 1297 e decreto per l' ascrizione nascite di figli di famiglie iscritte alla "Balla d'Oro" del 1506).
Altrettanto
per la Repubblica di Genova con le divisioni in 28 Alberghi (famiglie) e relativo
registro detto "Liber Nobilitatis" del 1528.
Da ricordare che il 26/10/1583 furono codificate le
norme relative ad arti il cui esercizio rappresentava deroga ai fini di Nobiltà.
Non
diversamente per Modena e Reggio in cui l'origine della Nobiltà é prevalentemente
legata a cariche civiche (confronta Chirografo del Duca Ercole III° d'Este
del 22.03.1788; Editto 2.01.1816 del
Duca Francesco IV° d'Austria-Este).
In
stretta analogia la Repubblica di Lucca (Principato sotto Napoleone e sotto
i Borboni di Parma fino a quando, nel 1847, fu unita al Granducato di Toscana,
di cui seguì le sorti ) e del consorte Principato di Piombino (antico feudo
degli Appiani, dei Ludovisi, dei Boncompagni ed infine appannaggio di Elisa
Buonaparte) .
Nello
Stato della Chiesa per il riconoscimento di uno status nobiliare (ovvero di
una vita condotta more nobilium, che, con l'ascrizione nei ceti nobiliari
tradizionalmente considerati costitutivi di Nobiltà, avrebbero, poi, dato
luogo a titolo primordiale di Nobiltà generosa) le condizioni che dovevano
essere verificate erano: domicilio in città, decorosa abitazione e trattamento
; pingui sostanze (in genere rendita netta annua non inferiore ai duemila
scudi) possidenze nei limiti della
città, o anche altrove, sufficienti per continuare un decoroso trattamento,
lungi dall'esercizio di qualunque professione non liberale; aver contratto decorosi matrimoni; risultare immuni da delitti
che avessero comportato pena infamante (anche se in contumacia o se di un
avo).
Nobiltà pertanto prevalentemente “Civica o Decurionale“
anche se, pur di eccezzionale riscontro, è possibile rinvenire, nello Stato
della Chiesa, nobiltà legata al feudo “Baroni Possidenti anche se rinunciatari
ai diritti feudali“. Il resto delle
titolature naturalmente era conseguenza di un breve di sovrana concessione. Per quanto a noi consta sino al 20.11.1915 i
privilegi nobiliari di concessione e conferma a famiglie italiane,
conferiti dal Sovrano Pontefice dopo il 1870 erano
44, dei quali 2 titoli di Duca, 2 ( uno personale) di Principe, 6 di
Marchese, 28 di Conte, 2 di Barone e 4 stemmi gentilizi. Tali concessioni,
a seguito di Regi Decreti e Regie Lettere Patenti di autorizzazione all’uso
nel Regno, nel aprile del 1929 erano arrivate ad 82.
In tal senso è di estremo interesse consultare i vari
brevi, chirografi e i "motu proprio" elargiti nel tempo dalle Loro
Sovrane Santità come, ad esempio, quello di Papa Clemente X del 15/3/1671,
che permetteva ai nobili di esercitare il commercio senza pregiudizi per la
Nobiltà, o il chirografo di Innocenzo XI del 18/2/1679, che vietava i predicati
territoriali sopra luoghi non abitati.
Di non secondaria
importanza, proprio perchè inerenti la nobiltà nello Stato Pontificio, le
seguenti emanazioni papali o dei senati locali: il 28/11/1727 il senato di
Bologna approva il Catalogo Ufficiale delle famiglie nobili della città; il
4/1/1746 nella Costituzione Pontificia Urbem Romam Benedetto XIV stabilisce
ordini propri per la Nobiltà Civica, elenca le 60 famiglie coscritte e le
180 patrizie; il 12/1/1746 lo stesso Papa con chirografo reintegra le famiglie
omesse in precedenza; il 31/7/1777 si ha la pubblicazione da parte del Prolegato
Apostolico dell’elenco delle famiglie patrizie di Bologna; il 6/7/ 1816 Pio
VII con un motu proprio richiede relazioni ed elenchi relativi alla nobiltà
nello Stato della Chiesa ai Cardinali
Legati e ai Prelati Delegati; il 26/9/1820 sempre Pio VII con un breve riapre
il Libro d’Oro della nobiltà di Bologna, abolito insieme alle insegne e titoli
nobiliari dalla Repubblica Cisalpina; il 14/5/1823 emana la circolare riservata N. 14055 inviata
ai Cardinali Legati e facente seguito al motu
proprio 6/7/1816; il 21/12/1827, facendo seguito al motu proprio del
5/10/1824, Leone XII con altro motu proprio ordina che
tutte le città dello stato che avessero goduto di nobiltà generosa la conservassero
oltre ad emanare disposizioni comunitative circa la composizione del governo
cittadino ed i rapporti con la nobiltà; il 2/5/1853 Pio IX con chirigrafo
sancisce nuove disposizioni per gli aggiornamenti dell’Albo d’Oro dei nobili
romani e per la concessione della nobiltà personale.
A seguito del motu proprio di Pio VII del 6/7/1816
e alla circolare riservata N. 14055 del 14/5/1823 furono compilati gli Elenchi Ufficiali relativi alla nobiltà nello
Stato della Chiesa, comprendenti una
dettagliatissima enumerazione (quasi
sempre con riferimento alla antichità della nobiltà e all’eventuale, se reperibile,
anno di aggregazione), delle famiglie ascritte al Ceto Nobile, della loro
titolatura e se estinte o ancora fiorenti. Un vero e proprio puntualissimo censimento
della nobiltà comprendente almeno 5 secoli.
L’aggregazione al Consiglio Generale de Nobili di una
famiglia, doveva sottostare ad un vero e proprio processo nobiliare con verifica
delle prove prodotte e votazione finale. Le modalità del processo, grosso
modo, erano più o meno le stesse in
tutte le città dello stato.
Per curiosità storica si riporta quanto stabilito per
l’ammissione nella città di Senigallia:
“Per l’ammissione
al Consiglio o sia al Senato senigalliese, vi è la legge statuaria del Paese,
che il candidato debba essere abitante o possidente in questa Città, deve
dare supplica allo stesso Senato, il quale aduna nel Pubblico Palazzo, al
suono di campana e quindi lettosi la supplica di quello che richiede l’aggregazione
in detto Consiglio Generale de’ Nobili che non possono essere meno di 17 Senatori
si pone alla ballottazione o sia a partito per voti segnati, e qualora due
terzi di detti voti siano favorevoli si intende subito ammesso al godimento,
di tutti li onori e Cariche Pubbliche,
ed in specie del Gonfalonierato, ed acquistata così una volta la Nobiltà,
non si perde se non mutandosi di domicilio,
mentre in questo caso siccome non potrebbe esercitare quella tal Famiglia
le cariche commutative, e specialmente il Magistrato, cosi doppo una o due
Generazioni non sarebbero ammesse per buone e valide quelle prove, che fossero
mancanti di simile condizione“.
Dall’aggregazione derivava la nobiltà generosa trasmissibile:
“Si conchiude
adunque che la Nobiltà Generosa si acquista con l’aggregazione al Senato Aristocratico
e con l’esercizio del Gonfalonierato“.
Da rimarcare che a seconda delle varie
Delegazioni Apostoliche e a seconda delle varie città venivano apportati ai
requisiti richiesti per l' ammissione al ceto nobile ulteriori restrizioni, limitazioni o deroghe come qui
d'appresso: non essere illetterati,
età non inferiore ai 25 anni; non aver mai sofferto per manifesta pazzia propria o dei familiari; reddito non inferiore ai 5.000
scudi , deroghe per matrimoni diseguali; estensione anche agli avi delle limitazioni
preclusive.
Tutte queste caratteristiche distintive della Nobiltà,
naturalmente dovevano essere mantenute dai singoli componenti nel tempo perchè
la qualifica del rango ricoperto non fosse “cassata“.
A tal proposito, le Autorità preposte all’uopo, periodicamente
inviavano informazioni riservate sui componenti di ogni singola famiglia nobile
perchè fossero, a livello centrale, regolarmente vagliate .
D’ interesse storico, ed oggi non più coperta da segreto,
la relazione sulle famiglie di Ascoli inviata il 18.6.1823 alla Segreteria
Apostolica. In questa nome per nome, che non riporterò trattandosi di Famiglie
tutt’ora fiorenti, erano annotate le seguenti osservazioni come d’appresso:
“Famiglia di Nobiltà antica, di ristrettissimi
capitali”; “Famiglia di Nobiltà antica, domiciliata in Teramo, Regno di Napoli“;
“Famiglia antica e povera ha contratto matrimonio con persona di bassa estrazione”;
“si distingue per i suoi talenti, si mantiene con lustro e decoro, riscuote
la pubblica opinione“; “Famiglia non antica, dissestata economicamente, maritata
con .... toscano“; “Famiglia antica e povera, esercita per vivere l’impiego
di ispettore di polizia a Porto d’Ascoli“; “Famiglia antica , assai povero,
per il che è obbligato ad esercitare l’officio di Novizio di questa Dogana
di riscossione“.
Come
curiosità storica sono da ricordare le prerogative comuni in tutte le città
dello Stato ai 4 Priori esercitanti la Somma
Magistratura cittadina nelle "insegne
e decorazioni magnifiche: Mazza, Baldacchino, Ombrello, Trombe, Campana, numerosa
corte e vesti Senatorie a guisa del Senato di Roma". Pag. 230, La
Nobiltà nello Stato Pontificio del Conte Carlo Alberto Bertini Frassoni, Roma,
scuola tipografica Pio X.
Altra
curiosità é la non uniforme suddivisione in ceti nelle varie città dello stesso
Stato, es..: 4 ceti ad Orte, 3 ceti
a Trevi; cfr. pag. 99 e pag. 350 della Nobiltà nello Stato Pontificio ecc..
In Genere quattro ceti, così composti :
“Sono adunque
quattro distintissimi Ceti di Cittadini il primo è quello dei Patrizi, che
stanno in bussolo separato e distinto, e che veramente presiedono al governo
e cura della Città. Il secondo è quello dei Primi Priori, nel quale è solamente
quella Cittadinanza che vive more nobilium senza esercitare arti meccaniche
ed in questo rango regolarmente non si ammettono li Notari. Il terzo grado
detto de li Secondi Priori, non comprende altro che mercanti facoltosi. l’ultimo
è quello di coloro che esercitano arti meccaniche e vili”.
E’ d’uopo sapere che non tutti gli agglomerati urbani
potevano vantare “la Nobile e Distinta
Magistratura e la separazione dei Ceti“ cioè non a tutti era riconosciuto
il diritto di fregiarsi dell’appellativo di “Città “. Solo nelle città pertanto, era possibile
che germogliasse nobiltà .
Tali città nello Stato Pontificio erano divise in quattro
classi, a seconda della qualità nobiliare vantata e realmente posseduta; nella
I erano annoverate le città che “nei tempi antichi medi e presenti,
hanno provato in ogni tempo nobiltà generosa“;
nella II città che “sebbene non siano
decadute dal loro antico splendore ed abbiano conservato la nobiltà generosa delle loro famiglie,
da lungo tempo non hanno più fornito prova di tale tenore nobiliare “;
nella III “quelle che hanno una nobile e
distinta Magistratura, che sono riconosciute per nobili e come tali trattate
dal Sommo Pontefice, ma che non hanno mai dato prove di nobiltà pur meritando di avere limiti e di esserne
ammessi a somministrarne “; nella IV “città
che sebbene vantino distinta e nobile origine, sebbene siano state in alcuni
tempi illustri e famose, decadute adesso dal loro splendore non hanno più
la nobile e distinta Magistratura“.
Nelle Marche, per curiosità storica, nella I erano
annoverate: Ancona, Ascoli, Camerino, Cingoli, Fermo, Iesi, Pesaro, Recanati,
Fabriano, Fano, Fossombrone, Macerata, Osimo,
Sanseverino, Senigallia, Tolentino, Urbino.. Nella II: Cagli ; nella III :
Matelica, Montalto, Ripatransone, Montefeltro,
Urbania; nella IV: Loreto e Norcia.
Anche
per l’elevazione al rango di Città si acquisivano prove , informazioni riservate
a mezzo della capillare rete gerarchica ecclesiale, si richiedevano puntuali
relazioni sulla storia dell’aggregato urbano; sul numero delle chiese, monasteri,
confraternite e sul loro livello; il numero di anime della parrocchia; quanti
personaggi illustri e quanti, che seguendo la cariera ecclesiale, erano approdati
ad alti incarichi (Lustro del Clero); quante famiglie nobili vantassero ivi residenza
e quali inparentamenti si erano verificati con persone di paesi vicini (Lustro
de’ Nobili); quanti ceti vi si riconoscevano e se mantenuti separati nel
tempo; quante persone superavano il reddito catastale di 7.000 scudi, quale
fosse il reddito catastale globale, quanto della chiesa e quanto di cittadini
risiedenti altrove (le relazioni erano accompagnate da documentazione a firma
del Cancelliere del Catasto che riportavano persona per persona il reddito
catastale in scudi e bagliocchi).
Patetica in tal senso le suppliche inviate alla Segreteria
di Stato dal paese di Castelfidardo per chiedere l’elevazione al rango di
Città il 4.5.1828, a firma del Priore Antonio Massucci, e quella del 18.12.1828,
a firma del Prevosto Antonio Sinigaglia, vanificate dalle relazioni riservate
inviate alla Santa Sede dalla Delegazione Apostolica di Ancona il 10 ed il
21.5.1829 a firma di A. Marulli, D.A..
* * *
Prevalenza
di Nobiltà d'ufficio in alcuni casi, di Nobiltà civiche o decurionali in altri,
di Nobiltà legata al possedimento agrario in altri ancora.
Ma sempre l'elemento comune e filo conduttore irrinunciabile
appare il tempo, inteso come l'ininterrotto verificarsi per secoli di quelle
date condizioni che si concretizzavano, in sintesi, nella storia di ogni famiglia.
"Nobili... purchè mantengano presentemente,
col dovuto splendore, la Nobiltà trasmessa loro, dai loro antenati."
Tomo I°capitolo VII° della citata legge del Granduca Francesco II° di
Toscana.
Chi
ha storia alle sue spalle, verificata per condizione e continuità , è nobile
di diritto.
La
Nobiltà dunque è un distillato di tempo, storia e continuità, non certo quindi
frutto di benevola concessione da parte dell' Autorità Sovrana:
Il Sovrano non può concedere Nobiltà,
può solo ufficializzare o riconoscere uno stato di fatto.
Il
concetto fu solarmente espresso dal Nobile Alessandro Scala su di un articolo,
di giurisprudenza nobiliare pubblicato nel 1915 col titolo: "Nobiltà
non è titolo ma qualità":
"La Nobilitazione è stata sempre
considerata dai giureconsulti come un atto sovrano col quale si dichiara nobile
chi lo è già, per la posizione sua sociale, per la serie di antenati viventi,
more nobilium, per le parentele contratte, per i beni posseduti.
Il Sovrano non può creare nobili, ma
dichiara ossia riconosce tali, coloro che hanno i requisiti per esserlo, e
il Brevetto di Nobilitazione in questo caso, altro non era anticamente che
un atto valevole a far ritenere nobile, senza contestazione, una famiglia
o un individuo, perchè godesse dei privilegi spettanti al ceto nobile. Questo
però nei paesi, dove non esistevano le Nobiltà municipali, cioè le distinzioni
di ceto nel governo dei diversi comuni nei quali il ceto nobile costituiva
un Senato vitalizio che si chiamava patriziato.
Per appartenervi conveniva provare
la Nobiltà, e non già per brevetto di Principe, ma con la dimostrazione che
il padre e l'avo non avevano esercitato arti manuali, ed anzi avevano occupato
cariche civili o militari, vivendo more nobilium, etc.
Il volere fare della Nobiltà un titolo,
come quello di Barone o di Conte, che in certi paesi era inerente al possedimento
di feudi ed in altri era spesso conferito ad honorem sul cognome, è un errore
grossolano, nel quale purtroppo s'incorre anche al dì d'oggi. Altro errore
inerente a questo, è il conferire la Nobiltà personale, perchè chi è nobile
trasmette col sangue la Nobiltà ai discendenti“.
In
stretta analogia di pensiero il Conte Guelfo Guelfi Camajani, nel citato Bollettino
Araldico del 01.09.1915 , ebbe ad argomentare:
"L'articolo
I, della legge Toscana del 1750 dice che sono nobili quelli che hanno goduto
e sono abili a godere il primo e più distinto onore delle città nobili, loro
patrie".
Questo veramente si riferisce all'ascrizione
ai così detti Libri d'oro, che costituiva la Nobiltà patrizia, ma anche le
famiglie che non arrivarono a coprire le cariche municipali, costituivano
quello che negli Stati Pontifici si chiamava cittadinanza di primo grado e
che anche dai moderni legislatori é stata giustamente considerata come Nobiltà
di secondo ordine, cioè non patrizia.
Siccome la Nobiltà non si può provare
con attestazioni giudiziali é certo e naturale che la Nobiltà debba da solo
affermarsi per mezzo dello stesso suo procedere e riunire in se quelle cause
coefficenti atte a determinare in essa tale capacità quasi giuridica. Quando
noi riteniamo che il conferimento della Nobiltà sia un provvedimento mancante
di base e perciò erroneo perchè se la materia non esiste affatto (cioé quel
complesso di attributi che costituiscono la Nobiltà) il Sovrano non può assolutamente
crearlo e se questa materia determinante si è già concretata la Nobiltà esiste
di fatto e si afferma e quindi il decreto di conferimento ci sembra perlomeno
intempestivo e assurdo".
Neanche un Sovrano può creare, concedendo,
una storia passata, se questa non esiste. Ecco perchè un titolo legato ad
un brevetto può essere oggetto di un provvedimento di grazia e non rientra
invece fra le regie prerogative concedere Nobiltà che invece può essere oggetto
unicamente di provvedimento di giustizia.
Il
riconoscimento di Nobiltà, svincolato dalla Nobiltà sovrana, viene contemplato
solo al fine di riconoscimento o negazione.
Sempre
dal Guelfi Camajani:
"La Nobiltà,
ripetiamo, deve germogliare radicarsi e maturare in una data
famiglia e quando ciò accada,
la famiglia è capace della Nobiltà e il Sovrano dovrà
essere chiamato soltanto a
giudicare delle cause coefficienti onde riconoscere
questa capacità e sanzionarla,
perchè non può essere soltanto per volontà del
Sovrano che una famiglia possa
farsi nobile se non ha in sè l'attitudine, i meriti
intrinseci di esserlo, e questi
meriti e questa attitudine speciale è la famiglia stessa che
deve procurarseli e farli valere
come proprio patrimonio. Noi riteniamo quindi che il
Sovrano possa conferire qualsiasi
titolo, ma che non debba conferire la Nobiltà“.
Un
Sovrano concedendo un titolo, semina solo i presupposti per una Nobiltà che
potrà essere, ma unicamente futura.
E ancora il Guelfi Camajani:
"I titoli appartengono alla corona
della quale sono le gemme staccate che vengono graziosamente donate; però
la Nobiltà non è patrimonio della corona, ma lo è della famiglia che da sè
stessa lo ha creato con i suoi elementi particolari.
La Nobiltà noi la equipariamo al patrimonio
famigliare, che il Sovrano non può concedere ma solo riconoscere".
Un
provvedimento di revoca può interessare un titolo nobiliare, non può o non
dovrebbe , andare ad intaccare la Nobiltà, che rappresentando la storia, non
solo dell'individuo interessato, ma di tutta una famiglia, non può certo essere
cancellata da un provvedimento anche se sovrano.
Cioè
dalla fons honorum può provenire una concessione o una revoca di un provvedimento
nobiliare concernente il titolo, non certo concessione o revoca di uno status
non concedibile o revocabile: neanche il Sovrano può cancellare la storia.
Parimenti,
se è vero come lo è che la Nobiltà è storia, non dovrebbe essere possibile
neanche l'adozione di un provvedimento di convalida. Se infatti é possibile
per un sovrano sanare lacune nella dimostrazione del legittimo possesso di
un titolo, certamente risulta impossibile
un rattoppo su dei vuoti di storia: neanche un Sovrano può alterare la storia.
Altrettanto
vale per un provvedimento di rinnovazione, che se valido per un titolo nobiliare
legato a brevetto di concessione, può trasmigrare da un soggetto ad altro
di altra famiglia, altrettanto non può dirsi della storia familiare che, patrimonio
inalienabile legato al cognome, non può certo per decreto essere affibbiato
ad altri.
Pertanto, se valido
il presupposto, é lecito dedurre che la Nobiltà non è soggetta a provvedimento
di rinnovazione.
Si
estingue una famiglia si perde per estinsione il titolo nobiliare, perchè
legato ad un brevetto da tramandare, in genere, di maschio in maschio primogenito.
Non si estingue la Nobiltà della famiglia che, collegata alle vicende familiari,
rappresenta la storia stessa, patrimonio inalienabile di collaterali e consanguinei
superstiti.
Dopo
un provvedimento di rinnovazione certamente esisterà il titolo, altrettanto
sicuro che non può esistere Nobiltà, a meno chè il provvedimento non sia andato
a cadere su famiglia già di per sè nobile.
Analogamente,
e qui appare in tutta la sua solare verità il concetto, mentre un titolo può
essere oggetto di refuta, certamente non lo potrà mai essere la Nobiltà che
come storia familiare non può essere respinta al mittente, cancellata o oggetto
di volontaria giurisdizione.
Il
provvedimento di refuta è un atto portante rinnovazione in ultrogeniti o fratelli
dell'intestatario: Art. 10, R.D. 7/6/1943
N.651 .
La
pratica attuazione nella storia della Nobiltà conferma che, anche se rari,
non sono mancate domande di refuta di un titolo, mai sono state avanzate richieste
analoghe per la Nobiltà ad un Sovrano come primo motivo perchè la Nobiltà
come patrimonio genetico, storico e sociale
legato ad un cognome non poteva
essere riconsegnato nelle mani del Sovrano da un unico componente della famiglia,
in secondo luogo dovendo seguire un provvedimento di rinnovazione il provvedimento
sarebbe andato a donare ad ultrogeniti
e collaterali quanto già gli interessati detenevano appunto perchè consanguinei.
Non è un caso che il precitato art. 10 faccia riferimento esclusivamente a
titoli nobilari e non a Nobiltà o attributi nobiliari.
Da
cui: neanche un Sovrano può accogliere la richiesta di restituzione nelle
sue mani di una qualità, patrimonio familiare legato alla storia.
Ed
ancora. La concessione di un titolo, la sua la rinnovazione ecc. presuppongono
una storia che parte, che si accende per il soggetto e per la sua famiglia,
dal momento dell'atto sovrano.
Il
riconoscimento di uno status nobiliare
presuppone come cardine originario
di diritto una storia passata.
Sempre
lo Scala cita delle eccezioni nella storia nobiliare:
"Le lettere di nobilitazione si
concedevano in Francia, anche ai plebei in tale caso, erano dichiarazione
di Nobiltà, perchè senza tener conto della condizione di nascita dell'individuo,
consideravano la Nobiltà delle azioni sue,
giusta l'antico detto di Porfirio che nobilitas nihil aliud est quam cognita
virtus. A questa specie di Nobiltà appartenevano i prodi guerrieri e tutti
coloro che nelle cariche e negli uffici civili, militari ed ecclesiastici,
giungevano a tale grado da essere considerati appartenenti al ceto nobile
e da entrare de jure in possesso dei privilegi e delle immunità inerenti alla
Nobiltà"
Quanto sopra spiega l'apparente inconciliabile
dicotomia fra nobili non titolati, magari con storia nobiliare antichissima
e generosa alle loro spalle, e titolati non nobili, di recente investitura,
quasi sempre non nobili per mancanza di precedenti storici diretti, continuati
ed omogenei nell'ascendenza familiare.
Risulta
un pleonasmo definire una Nobiltà di sangue anche antica perchè nella Nobiltà
generosa è insito in se il concetto di pregressi fasti di storia familiare,
mentre non lo è l'aggettivazione antichissima.
Nella
titolazione é invece necessario definire se anche nobile e quindi quanto antica,
a quando cioè risale l'investitura.
Un
nuovo titolato dopo qualche generazione, sarà nobile e, da quel brevetto,
parte la storia per i " nuovi " nobili titolati o, se non primogeniti,
nobili dei titolati. cfr. " Titoli ed attributi nobiliari " del
nob. dott. Luigi Gualtieri - Napoli 1924.
Sul
precedente concetto così si pronunciava il già citato Alessandro Scala:
"i titoli concessi dal Sovrano
portano con sè implicitamente la Nobiltà, ma soltanto dal giorno del conferimento
di essi e perciò non presuppongono antecedenza. E' appunto per questo
che talvolta si sente affermare che tale Conte o Marchese di recente creazione,
è titolato ma non nobile; perchè prima di ricevere il titolo era plebeo e soltanto i suoi discendenti
dopo alcune generazioni potranno essere considerati nobili."
Non
a caso l'ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano, approvato con R.D. 7.6.1943
N. 651, così , all'Art. 11, recita : la Nobiltà di sangue si acquista dal giorno della nascita
; la Nobiltà per Grazia Sovrana dal giorno
della concessione.
La
storia della Nobiltà é ricca di esempi
di soggetti recentemente investiti di titolo, in corsa per arraffare "uno spicchio di terra al sol" dal
passato cercando di nobilitare la propria ascendenza con sangue avito che
non poteva esistere (a meno che il
titolo non fosse piovuto su soggetto già nobile), con il costruire eventi
e fatti memorabili della famiglia,
col rivendicare uno stemma o un feudo
precedente, con lo storiografare, di fantasia, importanti cariche pubbliche, civili o religiose, ricoperte
dagli avi , il tutto magari architettando fumosi riferimenti
ad obsoleti, precedenti sovrani decreti,
in realtà di tutto partecipi, meno che delle loro inconsistenti pretese.
In
genere il nuovo titolato non è nobile, perchè prima plebeo.
Quanto
sopra ci da ragione della trasmissione
della Nobiltà, in genere, devoluta
a maschi e femmine, perchè patrimonio inalienabile, comune a tutti i membri
della stessa famiglia. Il titolo, strettamente collegato al brevetto, viene
invece trasmesso, normalmente, di maschio in maschio, preferibilmente se primogenito.
La
Nobiltà é dunque collegata alla storia, il titolo al brevetto.
Analogo
ragionamento è valido per la qualifica di Patrizio anch'essa qualità familiare,
collegata alla storia, e non ad un brevetto oggetto di grazia sovrana.
Per
di più un brevetto, cioè un titolo,
si può sempre acquisire (potenzialità innegabile soprattutto
se si ricordi che un tempo poteva essere ceduto
tout court , meglio se collegato
ad un feudo o essere oggetto di volontà testamentarie) , la Nobiltà, patrimonio
di storia e di
sangue familiare, certamente no.
Esempio
concreto e di frequente riscontro nella storia nobiliare era l' imposizione
di cognome e di stemma ad altra famiglia da parte di agnazione in via di estinzione:
la nuova genealogia creatasi assumeva con lo stemma il brevetto, perpetuandone
il titolo, ma non certo la
Nobiltà, che non poteva seguire il primitivo cognome, innestato in
altro ceppo .
*********************
Ad
esempio di quanto sopra, ma per la frequenza del fenomeno nel corso della
storia nobiliare di casi analoghi se ne potrebbero citare a iosa, può essere
portata la famiglia dei Conti Mancinelli Scotti di San Vito, originaria di
Narni.
La Famiglia
Mancinelli , di cui non è stato mai rinvenuto l'atto di aggregazione
al ceto nobile della città di Narni, sin dal
XVI° secolo risulta iscritta nei cataloghi delle nobili famiglie e
sin da allora ininterrottamente, per secoli, è risultata in possesso dell'esercizio
delle più Nobili Magistrature. Risulta una delle più antiche famiglie
di quella nobile città, tanto che qualche storico ne fa risalire le
prime notizie intorno all'anno mille, con signoria su vari feudi,fregiata
del titolo marchionale di Lauri, passato poi nei Lancellotti, e del titolo
di Conte del S. Palazzo. Molti di questa casa sostennero le primarie cariche
del Comune, come quelle dei capi dei Priori, di Priori, di Gonfalonieri e
di Anziani. Scipione Mancinelli risulta essere stato commensale dell'imperatore
Carlo V, Domenico Mancinelli arcivescovo di Cosenza nel 1818.
Cfr.:Elenco ufficiale
nobiliare italiano; Spreti ,1935; La Nobiltà nello Stato Pontificio, opera
citata; Dizionario storico blasonico, G.B. .Crollalanza.Forni editore. Bologna
1965. Vol.II, pag.396.
Nella
prima metà del '700 il Conte Pietro
Mancinelli , privo in prima persona di discendenti diretti, ma anche per parte
dei fratelli Ottavio ed Alessandro,
impone a Francesco Squarta, marito della sorella Virginia e padre dell'unico
nipote, di cambiare il suo cognome originario, oltre che le armi, con quello
dei Mancinelli.
La famiglia Squarti
(in origine Granceschi, poi Squarta - per cognomizzazione del patronimico,
da Matteo, capitano di ventura detto appunto Squarta - e quindi più recentemente
Squarti Perla - dal matrimonio di Carlo Squarti con la Contessa Margherita
Perla di Calvi celebrato il 27.01.I672 -) originaria di Orte, sin dal XIV°
secolo aveva rivestito le cariche
civili, militari e religiose più eminenti e contratto matrimoni con le migliori
e più antiche famiglie della città e del viterbese. Conta più Gonfalonieri,
Anziani e Priori ad Orte e Narni nel XVIII e XIX secolo; un Protonotaro Apostolico
nel 1770; un Governatore Generale
nel Principato
di Piombino nel 1750. Imparentatasi con i Ralli di Orte (Marcantonio Squarti
sposa Eufrasia Ralli il 6/2/1700) divenuti imperatori di Bisanzio con Michele
I° Paleologo, figlio di Giovanni Ralli, la famiglia Squarti Perla ne vantava
consanguineità.Cfr. Archivi dello S.M.O.M., elenchi famiglie di antica Nobiltà
generosa, 1776; Memorie d'Orta di Lando Leoncini, biblioteca vallicelliana;
Elenco storico della Nobiltà italiana dello S.M.O.M., ed.1960, tipogr. vaticana,
pag. 304; La Nobiltà nello Stato Pontificio, opera citata, pag.355; Città
del Vaticano, Archivio dei Brevi, Archivio Borghese, prot. 384, n. 86 .
Al
figlio di Virginia e di Francesco Squarti, divenuto ormai Francesco Mancinelli,
venne imposto il nome di Ferdinando.
Questi unendosi in matrimonio con Olimpia, unica figlia
del Conte Francesco Ausonio Scotti, sopportò un ulteriore unione impositiva
di cognome aggiungendo al suo quello degli Scotti.
Orbene
in base al ragionamento su esposto, Ferdinando Mancinelli Scotti, sangue Squarti,
cognome, arme e predicato dei Mancinelli e degli Scotti, avrà avuto, e quindi
poi trasmesso sino agli attuali discendenti - Conte Ludovico Mancinelli Scotti
di San Vito - il titolo, (allora trasmissibile per volontà testamentaria o
da alienazione di brevetto), dei Mancinelli e degli Scotti; la Nobiltà, (e
quindi la storia legata al ceppo di sangue originario, comune a maschi e femmine ma non trasmissibile per via
femminile) della Famiglia Squarti di Orte.
***************************
Lo stato della Chiesa, Marche naturalmente comprese,
risultava uno stato perfettamente ordinato, istituzionalmente monocratico
-regime di monarchia sui generis in quanto assoluta, ma a carica elettiva-,
dagli equilibri gerarchici perfettamente armonici, burocraticamente ineccepibile,
dal potere detenuto con pugno di ferro in guanto di velluto ma, tutto sommato,
amato dal popolo e rimpianto, sia dopo l’esproprio rivoluzionario francese
-basti ricordare la disperata difesa di Macerata e l’alto tributo di sangue pagato dalla Nobiltà locale per difendere la Città dalla barbarie dal “berretto frigio“- , sia dopo
il 1870.
Non a caso tale forma di istituzione, tutt’oggi, ridotta
nel potere temporale, ma non ancora esaurita, dura, immutata nel tempo, da
oltre un millennio.
Da aggiungere che, tutto sommato, quanto sopra esposto
non fa riferimento ad un periodo perduto nella notte di una storia lontana,
ma solo a poco più di un secolo fa, all’incirca, se consideriamo attentamente,
a tempi non più in là dei nostri nonni.
Tutto
ciò premesso risulta singolare se non provocatoria, alla luce di un così meticoloso
censimento nobiliare, da normative in merito applicate sempre con rigidità
carismatica nello Stato Pontificio e da tanto copiosa ed ordinata documentazione
conservataci dagli Archivi Vaticani, la pretesa di nobiltà, con ascendenze
papaline, arrogantemente avanzata da più di un “Messere“ al giorno d’oggi.
Il fenomeno, anche se presente e dilagante in altre
regioni, risulta, particolarmente vivace nelle Marche.
Questi
Signori, mischiando abilmente le carte in un turbinio confuso di cognomi,
omonimie e truffaldine ascendenze, pretenderebbero di rivendicare Nobiltà
mai esistita, (magari giustapponendo al proprio cognome, certamente plebeo,
quello di una madre certamente nobile o quello di una nonna, ultimo prodotto
di famiglia nobile, ma certamente estinta; o, peggio ancora, storiografando
un passato, unico frutto di fertile, risibile, fantasia) con pretese pari
solo alla loro voracità sociale, futilmente mondana.
Ad ulteriore conferma di quanto sopra
esposto, l' erudito parere in merito del Nobile Carlo Padiglione presidente
dell' Istituto Araldico Italiano che, sul Calendario d'Oro del settembre 1905
a pagina 502, così recita:
"Bene però il Rivera osserva circa il non potersi trasmettere,
come titolo, ad altre famiglie, per via di donne, la qualità di Nobile o di
Patrizio; e ciò dice contrariamente
a quanto la Commissione Araldica romana
ha in proposito deciso.
La osservazione
é giustissima, perchè é risaputo che una famiglia non nobile, o con Nobiltà
propria, può ben ereditare un titolo per lo mezzo di matrimonio, ma non potrà
giammai ereditare la Nobiltà altrui.
Ci confortiamo però nel fatto che le
ascrizioni nei registri regionali abbiano bisogno per essere valevoli della
sanzione, caso per caso, del Sovrano, previo esame della Consulta Araldica".
Pensando
di aver architettato il delitto perfetto, qualcuno di questi, con la connivenza
di Ordini Cavallereschi anche prestigiosi (che invece di rappresentare garanzia
per i diritti nobiliari, al giorno d’oggi, svendono false patenti di cavalieri,
per false prove prodotte, su processi evidentemente ammaestrati) , tenta di
meglio smerciare queste Nobiltà, frutto d’accatto.
Ebbene errano! L’offesa alla verità
non potrà mai avere un esito felice perchè la storia risulta incancellabile
vista l’imprescrivibilità della verità, ed infatti se pensassero che le patenti
loro affibbiate non rappresentano il frutto di un provvedimento di grazia
sovrana -e per tanto perfetto ed intangibile- ma solo l’esito di un mistificato
provvedimento di giustizia -e come tale da chiunque sempre verificabile, oltre
che d’ufficio rivedibile- si renderebbero
conto della fragilità del castello di carte costruito su menzogne (ulteriore
prova di mancanza di nobile lealtà).
Particolarmente attuale la nota di Carlo Alberto Bertini
Frasoni direttore responsabile della Rivista del Collegio Araldico: “L’elenco compilato ....... agevola anche
la identificazione dei falsi o inconsistenti titoli nobiliari che sono largamente
apparsi negli ultimi anni ad opera di usurpatori o incoscienti aspiranti titolati
i quali, soddisfatti della apparenza sonora o dalla omonimia della denominazione,
ne sono venuti in possesso da chi legittimamente non poteva elargirli.“.
Il
fenomeno del millantare un titolo, o una nobiltà, frutto di fantasia, è sempre
esistito e sempre, in periodi non repubblicani, severamente represso e punito
(Cfr. la severità delle pene previste nel Regno Lomberdo dall’Editto Teresiano
del 20/XI/1769 per “Millantato titolo“ o i processi promossi
dall’Avvocatura Generale del Senato Piemontese per “L’ usurpazione
dei Titoli di Nobiltà in rapporto all’articolo 186 del
Codice Penale“ .Salvat, Napoli, ed. 1901
).
Per non parlare della severità prevista nella repressione
dell’usurpazione di titoli da parte del Regno d’Italia. Cfr. “Disposizioni per discilplinare l’uso
di titoli od attributi nobiliari”, legge 20.3.1924 N. 442 e 28.12.1924 N.
2337 (convertiti rispettivamente con leggi 17.4.1925, N. 473 e 21.3.1926,
N. 597).
Oggi rimane, ma non è poco, la gogna della pubblica
derisione e della, più o meno palese, commiserazione.
Per
concludere, rimanendo in tema e rifacendomi all’ultimo argomento, mi associo,
toto corde, al commento arguto e beffardo, risalente ai primi del secolo XX,
ma quanto mai attuale, in proposito
vergato dal citato nobile Alessandro Scala:
"Il secolo XIX imbastardito dalle
istituzioni democratiche, fu fecondo in simile genere di errori e purtroppo
coloro che hanno speso la loro vita nell'intento di ripristinare gli usi nobiliari
nella loro purezza, non sono ascoltati, e prevalgono invece i cavilli di coloro
che la vogliono fare da dottori senza aver gli studi o titoli necessari, e
di altri che si dicono Nobili Cavalieri senza saper andar su altro cavallo
se non quello di Orlando."
Angelo
Squarti Perla
Socio
fondatore dell’Associazione Nobiliare della Regione
Corpo della Nobiltà Italiana