I precettori: Trissino e Cornaro

Trissino era il più insigne fra gli intellettuali vicentini: celebre per dottrina umanistica, autore di opere teatrali e poetiche, studioso di filologia, amava far parte agli altri della propria cultura e aveva accolto come allievi nella sua cerchia familiare un gruppo di giovani aristocratici; sostenitore in letteratura di un ritorno rigoroso ai generi classici ed esponente tra i più vivaci del dibattito sulla lingua del primo Cinquecento, apparteneva ad una nobile famiglia berica di tradizione antiveneziana e aveva frequentato le più illustri corti italiane. Egli è figura chiave della presa di coscienza da parte dell'aristocrazia vicentina di essere detentrice di una propria identità culturale da opporre a quella della mai amata città dominante. Presa di coscienza che si manifesta, su un piano squisitamente simbolico, nel desiderio di un rinnovamento urbano, condotto non più imitando le architetture veneziane, come era avvenuto fino ad allora, ma secondo i modelli del classicismo romano. Dilettandosi egli stesso dì architettura, segui da vicino i lavori della ristrutturazione della sua villa suburbana di Cricoli, servendosi di un disegno che si riteneva riproducesse il progetto della raffaellesca villa Madama di Roma offertogli da Sebastiano Serlio; ebbe modo così di conoscere Andrea e volle ospitarlo, insieme coi giovani nobili, per curarne l'educazione. Inoltre, quasi a coronare questo avanzamento di condizione sociale, gli diede il classico appellativo di Palladio: un nome che richiamava la sapienza di Pallade Atena e che già era scelto dal Trissino per un angelo messaggero del suo poema epico L 'Italia liberata dai Goti, opera ambiziosa ma poco incisiva, dedicata all'imperatore Carlo V. Per quanto generoso nei riguardi di Andrea, Trissino coltivava un genere di umanesimo che Wittkower ha definito "di stampo aristocratico e in un certo senso anacronistico; egli sosteneva un classicismo formale, esoterico e dogmatico,' sottratto a qualsiasi contatto con le tendenze popolari". Nell'Italia liberata, come pure nel frammento superstite di un progettato trattato d'architettura, Trissino mostra uguale interesse sia per la letteratura e la retorica, sia per la teoria dell'architettura e i ruderi classici. Probabilmente egli vide in Palladio un possibile assistente specializzato in quest'ultimo campo; e poiché non poteva sperare di dare una compiuta educazione classica a un incolto tagliapietre già trentenne, lo indirizzò unicamente agli studi di architettura, d'ingegneria, di topografia antica e di tecnica militare (nella traduzione dei Commentari di Cesare pubblicata da Palladio con la collaborazione dei figli, Trissino è ricordato come maestro di scienza tattica). In effetti, in questi campi Palladio sarebbe stato poi in grado di citare fonti antiche e moderne, mentre di rado avrebbe fatto riferimento a scrittori non di architettura. In sostanza, nella cerchia trissiniana egli divenne un umanista a metà: più che un " uomo universale " - secondo l’ideale enunciato dall'Alberti e perseguito poi dall'Accademia Olimpica, della quale lo stesso Palladio sarà uno dei fondatori - egli fu un precursore del moderno specialista, provvisto di una profonda conoscenza teorica e pratica di una data disciplina e di un'occasionale informazione su certe altre.

Nel 1538 Trissino lasciò Vicenza per trascorrere tre anni a Padova; può darsi che Palladio abbia soggiornato con lui per qualche tempo in questa città e abbia avuto modo di conoscervi un amatore di architettura ancor più interessante, Alvise Cornaro, e il pittore veronese Falconetto, collaboratore di Cornaro nella progettazione di due costruzioni nel cortile-giardino del suo palazzo: una loggia datata 1524 e un odeon per esecuzioni musicali eretto intorno al 1530. Questi edifici, che avevano precorso la villa di Cricoli, rappresentano i primi tentativi compiuti nel Veneto per emulare la Rinascenza romana, e costituiscono nella formazione di Andrea Palladio il necessario contrappeso al dogmatismo e all'aridità teorica del Trissino. L'impressione che essi fecero su Palladio traspare da alcuni dei suoi primi disegni, nei quali è evidente un'analoga mancanza di spontaneità, per cui il vocabolario architettonico tratto dagli esempi romani classici e moderni non riesce a integrarsi con naturalezza nell'ambiente. Se si pensa all'elegante interrelazione pittorica tra le parti e il tutto in una facciata palladiana della maturità, questi disegni sembrano costruiti a partire da un repertorio di elementi isolati. Ma non è mai agevole maneggiare per la prima volta forme nuove, e le architetture del giardino Cornaro sono ricche di idee originali, dovute forse in gran parte allo stesso committente.

A Padova Alvise Cornaro era una figura di primo piano: abile imprenditore agricolo e mecenate generoso, uomo di dottrina, ma che preferiva l'azione alla meditazione, dedicò gran parte della sua vita a un'energica lotta per la bonifica dei delta adriatici, riuscendo infine coi suoi scritti e i suoi insistenti appelli a ottenere che il governo della Repubblica contribuisse al recupero di quelle zone per usi agricoli.

Il suo breve trattato di architettura, non meno originale degli edifici eretti nel suo giardino, è insolitamente antiromano e polemicamente rivolto a scopi pratici: Cornaro è insofferente di Vitruvio e dei teorici umanisti, perché sono di scarsa utilità a chi voglia costruire le abitazioni comode, salubri ed economiche di cui c'è bisogno. Le sette regole del costruire enunciate nel trattato, oltre a fissare alcune norme costruttive fondamentali, affrontano questioni estetiche come la simmetria e la proporzione, in modo un po' incerto, ma secondo un'impostazione che Palladio avrebbe poi condivisa. Fatto nuovo negli scritti teorici del tempo, queste regole comprendono anche riflessioni sull'arredamento e sulla manutenzione: ad esempio, nelle stanze da letto la porta va disposta al centro, così che i letti possano trovar posto ai due lati di essa, di fronte alle finestre; le cornici di porte e finestre fatte di elementi a stampo in terracotta sono preferibili a quelle tradizionali di pietra, perché più economiche e più facili da riparare; perfino la disposizione dei servizi igienici è studiata attentamente. Il tono del trattato, agli antipodi dell'umanesimo aulico di Trissino, ed il suo credo in un'architettura fondata sul rapporto dialettico ed equilibrato tra decoro e comodità e sul valore fondamentale della sperimentazione pratica dev'essere stato sentito come congeniale da Palladio, nei cui scritti il rispetto della tradizione è temperato dalla stessa semplicità e dallo stesso buon senso. Il maestro nel suo operare concreto si terrà infatti sempre saldamente ancorato ai problemi pratici e contingenti della gestione del cantiere, preservando le sue opere da ogni applicazione rigida delle regole classicheggianti.

Ma forse Palladio deve ancora di più al Cornaro, unico fra i teorici del Rinascimento, questi propose che i committenti più parsimoniosi facessero a meno degli ordini classici e dell'ornamentazione tradizionale nel progetto delle facciate, e Palladio fu il solo architetto del suo tempo a prenderlo in parola. Nei progetti e negli edifici del primo periodo, originali anche se immaturi, egli usò addirittura finestre prive di cornici decorate. Altre prove dell'influsso di Cornaro sono rintracciabili nel fatto che Palladio abbia introdotto, senz'altra spiegazione, il frontone classico nelle facciate degli edifici residenziali e abbia distinto per ampiezza, tipo di copertura e proporzioni la "sala" centrale dalle " stanze " laterali.

 

 

La formazione giovanile: Sebastiano Serlio e Michele Sanmicheli

Il contributo dato dalla cerchia Cornaro-Falconetto alla formazione di Palladio sul finire degli anni '30 non può essere disgiunto da quello di Sebastiano Serlio, il teorico bolognese che dopo aver lavorato a Roma con Baldassarre Peruzzi si era trasferito a Venezia a comporvi i primi due libri (il quarto e il terzo, pubblicati rispettivamente nel 1537 e nel 1540) dei sette che avrebbero dovuto formare il suo trattato d'architettura. Nel 1539 Serlio fu chiamato a Vicenza come consulente per la Basilica e progettò un teatro provvisoriorio di legno nel cortile di uno dei palazzi Porto. Non sappiamo se Palladio si sia mai incontrato con lui: in ogni caso, più che dalla personalità di Serlio egli fu influenzato dai suoi libri, riccamente illustrati con xilografie riproducenti edifici romani antichi e moderni e altre invenzioni, in parte ereditate dal Peruzzi ma per lo più originali. Furono questi i primi libri a stampa in cui il mezzo principale di trasmissione dell'informazione e della cultura artistica fosse l'immagine anziché la parola. Serlio non era uno di quegli umanisti che concepivano l'architettura come dottrina delle fonti classiche: era piuttosto un divulgatore di forme antiche e moderne, alienato da ogni intellettualismo. È probabile che egli abbia conosciuto, sia pure indirettamente, l'opera di Andrea Vesalio, che negli stessi anni andava preparando a Padova un'analoga rivoluzione nella letteratura scientifica col suo trattato di anatomia, dove i risultati delle dissezioni erano pubblicati sotto forma di incisioni rappresentanti cadaveri o parti del corpo umano, accompagnate da sintetiche didascalie. Come Serlio, anche Vesalio dovette liberarsi di gran parte del bagaglio dell'erudizione umanistica per poter attuare le sue innovazioni: una simile atmosfera di sperimentazione e di trasmissione del sapere per mezzo di esempi concreti fa pensare più ai tempi nostri che al Rinascimento.

Le illustrazioni di Serlio devono aver acceso la fantasia del suo collega provinciale che aveva sentito parlare delle magnificenze di Roma senza averle mai viste. Pochi anni dopo, quasi a riconoscere questo debito, Palladio prese a modello del suo libro il trattato di Serlio, anziché quello dell'Alberti e la tradizione vitruviana: e questa scelta - insieme con l'elevata qualità delle opere illustrate - doveva fare di lui l'architetto rinascimentale di maggior risonanza. Quanto ai progetti di Ser1io (nessuno dei quali fu realizzato in Italia) non avevano vigore sufficiente per imporsi al mondo; ma piacquero a Palladio nel breve periodo della sua maturazione, allorché assimilava ogni novità che lo colpisse, per poi applicarla nelle sue giovanili sperimentazioni, prevalentemente grafiche.

Le prove di una conoscenza e, ancor di più, della stima del Palladio verso il Serlio, si possono ritrovare nel suo trattato I Quattro Libri dell'Architettura, ove, per descrivere i contenuti della sua opera, utilizza quasi identicamente la definizione stampata sul frontespizio del Terzo Libro d'Architettura del bolognese: " ... nel qual [libro] si descrivono e si figurano i Tempii Antichi che sono in Roma, et alcuni altri che sono in Jtalia, e fuori di Jtalia". Il nome del Serlio viene incluso inoltre dal Palladio nell'elenco dei principali architetti del Cinquecento, accanto a quelli di Michelangelo, del Sansovino, di Antonio da Sangallo, del Sanmicheli, del Vasari e del Vignola.

Numerose sono le relazioni tra le illustrazioni presenti nel trattato del Serlio e le opere del Palladio, anche se tali elementi sono strettamente limitati ai primordi palladiani; l'esempio forse più evidente è il motivo architettonico detto "serliana", divenuta successivamente il simbolo del neopalladianesimo inglese del primo Settecento (e per questo rimasta nel linguaggio tecnico anglosassone come "paliadian motive ") anche se, in realtà, Palladio la utilizzò solo in poche realizzazioni.

Tali motivi decorativi (che svolgono però anche una funzione strutturale e compositiva), già ampiamente utilizzati da artisti quali Bramante, Raffaello, Peruzzi, Antonio da Sangallo e Giulio Romano con i quali il Serlio era venuto in contatto durante il suo soggiorno a Roma, sono parte essenziale, infinitamente variata, di innumerevoli progettazioni del bolognese, presentate nel suo vasto trattato.

La serliana ricevette però un nuovo significato nell'architettura del Cinquecento, quando venne introdotta come elemento ritmico nella configurazione delle facciate. Palladio stesso ne fece ricorso nella realizzazione del Palazzo della Ragione, suo primo successo pubblico a Vicenza, fasciando due piani dell'edificio con una successione del motivo della serliana, separando però una serliana dall'altra mediante l'introduzione dell'ordine gigante al fine di neutralizzare il ritmo dell'ininterrotta sequenza e di spezzare l'effetto di "orizzontalità".

Se da una parte sembra che l'interpretazione palladiana del motivo della serliana dipenda dalle illustrazioni che si trovano nei Libri di Sebastiano Serlio, è innegabile comunque che, dopo il temporaneo scambio iniziale fra i due artisti che contribuisce alla formazione del Palladio, lo stacco fra le due generazioni e le due culture diventò rapidamente profondo.

Questa differenza tra le due culture si riflette ad esempio anche nellimpostazione degli scritti dei due artisti: se, da una parte, il Trattato del Serlio intendeva assolvere a funzioni didattiche, limitandosi ad esporre i vari punti di vista di allora sull'architettura, il Maestro di Vicenza, al contrario, basò il suo pensiero sull'architettura pratica e cercò, nel suo Trattato, di riordinare le proprie idee architettoniche ad uso sia dell'architetto che del destinatario della costruzione. Diverso è pertanto il lettore al quale si rivolgono i libri dei due artisti, e in ciò consiste la principale differenza tra le opere teoriche dei due autori.

Quando poi si analizzano le realizzazioni pratiche, un'ulteriore differenza tra le due concezioni di architettura emerge nella diversa interpretazione di uno dei fenomeni più caratteristici dell'architettura rinascimentale: la "corrispondenza".

"La bellezza risulterà dalla bella forma, e dalla corrispondenza del tutto alle parti, delle parti fra loro, e di quelle al tutto: conciosiache gli edifici abbiano da parere uno intiero, e ben definito corpo". Cosi scriveva Palladio nei suoi Quattro Libri dell'Architettura, intendendo quindi la "corrispondenza" come rapporto armonico di un edificio, visto nella sua totalità, con le sue singole parti.

Questo principio che si può far risalire all'architettura gotica, in quanto il gotico fu il primo stile con interdipendenza "trasparente" tra interno ed esterno, diventa poi quasi canonico nel Rinascimento, ed in particolare in tutta la scuola bramantesca. Il modello classico di corrisponderiza è la facciata della chiesa di Roccaverano del 1508 circa, nella quale la facciata rispecchia, per la prima volta fedelmente, tutto l'organismo interno con le sue trabeazioni e cornici, con le sue volte e i tetti.

Dal principio della corrispondenza deriva anche il metodo di eseguire rilievi con pianta, alzato e sezione: quest'ultima ha la funzione proprio di mostrare la conformità esistente tra l'esterno e gli elementi interni.

Anche per il Serlio, come per il Palladio, "corrispondenza" significa in un edificio il rapporto tra il tutto e le sue membra, ma egli non estende questo significato anche ad un'analogia tra l'interno e l'esterno o tra la facciata anteriore e quella posteriore.

Il diverso rapporto dei due artisti con il principio della corrispondenza può meglio essere verificato paragonando l'atteggiamento manifestato nelle rispettive realizzazioni. Si confrontino ad esempio il progetto del Palladio per il palazzo Thiene e quello concepito dal Serlio per il castello di Ancy-le-Franc nella Borgogna.

Ambedue i progetti rispecchiano la tradizione dei palazzi romani con cortile quadrato ed arcate; si sviluppano inoltre lungo un asse longitudinale dominante, il quale, nel palazzo Thiene, viene controbilanciato da un asse trasversale. La composizione progettata dai due maestri prevede un sistema di assi continui che collegano i pilastri del cortile, i muri portanti e l'articolazione dell'esterno; gli assi di porte e finestre corrispondono esattamente agli intercolumni.

Già con Giuliano da Sangallo, e poi con il Bramante romano, la continuità e la centralità degli assi avevano assunto un'importanza sempre maggiore; e già Raffaello, Giulio Romano o Peruzzi riuscirono a bilanciare le diverse aperture di una specie di enfilade centrale. Sia a palazzo Te che a Palazzo Canossa esiste già una specie di enfilade centrale; ma non è caratteristica né delle opere mature del Sanmicheli, né di quelle del Sansovino

Anche Palladio organizza la sua struttura con assi visuali e spaziali disposti sistematicamente in modo tale da ottenere una suggestiva enfilade centrale, che lega tutte le stanze da finestra a finestra permettendo una visione attraverso tutto il palazzo; ma se da una parte Palladio cerca una struttura unitaria, cioè l'integrazione di tutti gli elementi in un sistema globale, per il Serlio era difficile realizzare una corrispondenza continua rispettando allo stesso tempo il canone delle proporzioni dei singoli ambienti e i vari spessori dei muri, principi per lui fondamentali, al punto da differenziare gli spessori dei muri e da modificare la struttura portante.

Per il Palladio invece la corrispondenza dev'essere stata una legge di primaria importanza, altrimenti nelle riproduzioni dei Quattro Libri non avrebbe finto una coerenza sistematica che nel momento esecutivo non sarebbe poi stata perseguibile. Ma la corrispondenza significa per il Palladio molto più di un sistema di assi legato alla pianta bidimensionale; significa prima di tutto un principio di composizione tridimensionale che comprende tutto l'edificio. A palazzo Thiene alle arcate bugnate del cortile corrispondono le arcate ugualmente bugnate dell'esterno; tutto lo schema del piano nobile viene ripetuto nel cortile e le cornici, la balaustrata e la trabeazione legano, concatenandolo, l'intero corpo di fabbrica e ne sottolineano l'omogeneità. E questo è vero anche per i dettagli: ai pilastri delle arcate del cortile corrispondono le paraste delle pareti retrostanti, così come le cornici delle imposte dei due piani sono proiettate sui muri.

Al contrario per il Serlio la corrispondenza rimane un fattore relativo non soltanto nella pianta, ma anche nell'alzato; infatti, se da una parte ad esempio allo zoccolo bugnato dell'esterno di Ancy-le-Franc rispondono nel cortile archi bugnati, è anche vero che il piano nobile nella facciata è considerevolmente più alto di quello del cortile.

Tutto ciò sta ad indicare che se il metodo del Palladio è basato su un controllo efficace di tutto l'edificio, il Serlio si serve della corrispondenza per collegare degli elementi associati in maniera additiva. A questo riguardo si può quindi affermare che il Serlio appartiene ancora al Quattrocento, in quanto recepisce i nuovi principi della scuola bramantesca soltanto in parte, senza poterli integrare in un sistema organico; è per questo che, se da una parte motivi specificamente serliani compaiono spesso nei primi edifici e disegni di Palladio, è pur vero che nell’insieme lo stile è un amalgama di quello della cerchia Cornaro e di quello di Saninicheli e del Sansovino.

Sanmicheli fu l'unico architetto di grande reputazione con cui Palladio avesse stretti rapporti, attraverso la bottega di Pedemuro e grazie alla vicinanza tra Verona e Vicenza. Sanmicheli veniva dalla gavetta del cantiere come Palladio, e come lui si rendeva conto dell'efficacia dei particolari nel complesso del disegno architettonico. Anche lui riconosceva il valore dell'architettura antica, e poteva condividere questa sua ammirazione con l'architetto più giovane. Buona parte del lavoro di Palladio negli anni quaranta può essere considerato un apprendistato intellettuale presso Sanmicheli, e i suoi primi progetti per le arcate della Basilica furono chiaramente disegnate tenendo d'occhio le opere contemporanee di Sanmicheli stesso. Per Palladio fu altrettanto importante l'attenzione data da Sanmicheli alla decorazione dei suoi palazzi e delle sue ville, tanto da creare un gruppo di giovani artisti veronesi, tra i quali Paolo Veronese e Bartolomeo Ridolfi, capaci di lavorare con uno stile simile a quello in voga a Roma. Molti tra quegli artisti cominciarono a comparire tra i collaboratori di Palladio per la decorazione di palazzi e ville a partire dalla fine degli anni quaranta.

Il gusto del Sanmicheli per i particolari – il collegamento delle modanature orizzontali lungo tutta la facciata, e l’accostamento di superfici lisce e ruvide – non fu una lezione inutile per Palladio, che inserì questi tratti caratteristici nei suoi primi progetti.

Nel Samnicheli in particolare si deve riconoscere chi nella tradizione veneta postquattrocentesca introdusse per primo uno stile severo e togliendo per tempo linfa vitale ai possibili sviluppi del manierismo architettonico, che si manifestò difatti nel Veneto soltanto con voci flebili ed attardate nell'ambito sansovinesco. In ogni edificio infatti non compaiono mai inutili complicanze; persino il bugnato - il protagonista delle opere sanmicheliane - è quasi sempre pacato lasciando ad ogni pietra un vigore individuale, da rievocare la stereometria dei migliori esempi classici. Gli elementi architettonici si allineano con rigore sui prospetti, senza turbare la rettilinearità delle comici e delle membrature sottili e striate; la nitidezza ed apparente semplicità dell'edificio è ottenuta mediante coerenza e raffinatezza di proporzioni derivanti da un'architettura misurata e composta, attraverso la quale il Sanmicheli offre una propria interpretazione del nascente gusto del manierismo architettonico (proprio in quegli anni affermantesi nell'Italia settentrionale ad opera degli artisti emigrati da Roma e, ancor prima, di Giulio Romano). Il suo atteggiamento lo distingue da illustri maestri del tempo che operano nel Veneto, come il Sansovino - maggiormente incline al fasto ed al colore - ed il Palladio, che assunse e mantenne una posizione più distaccata; queste precise prese di posizioni del Sanmicheli appaiono comunque fondamentali per l'indirizzo impresso alla più qualificata corrente del primo Cinquecento Veneto e per la naturale decisiva funzione di guida offerta agli imminenti esiti ed ai larghi trionfi palladiani.

A parte la lezione di Sanmicheli e di Sansovino - entrambi architetti di formazione toscana -, lezione che si manifestò non tanto in singole invenzioni quanto e in un certo senso dello spazio e dell'organismo architettonico, la prima cultura di Palladio fu libresca e antiquaria. Essa gli venne dalle conversazioni con aristocratici colti, dai libri di Vitruvio e di Serlio e da un ristretto numero di edifici (come quelli nel cortile-giardino di Cornaro o come i ruderi romani di Verona e Vicenza) che tutto sommato non potevano dargli un'idea adeguata dell'architettura classica e moderna. Il catalizzatore occorrente per raggiungere la maturità stilistica era la conoscenza diretta di Roma.

 

 

Effetti dei viaggi a Roma

Palladio si diede quindi ai viaggi: da quando nel 1541 si recò per la rima volta a Roma con Trissino (tornandovi nel 1547 e nel 1554) fino agli anni '70, quando l’età e gli impegni di lavoro limitarono i suoi spostamenti, egli viaggiò spesso attraverso l'Italia, da Napoli fin nel Piemonte e in Provenza. A quel tempo i viaggi erano malagevoli e pericolosi, e Palladio afferma di esserne stato logorato; ma lo spingeva lambizione di conoscere a fondo l'architettura antica. I suoi interessi ci appaiono oggi in parte culturali e in parte professionali, dato che egli utilizzò le sue conoscenze sia per le pubblicazioni archeologiche, sia per la pratica edilizia; da parte sua, Palladio avrebbe sostenuto che esisteva un unico corpo di conoscenze sopravvissuto al passato e in grado di rivivere, negli scritti e negli edifici. I Quattro libri dell'architettura si aprono appunto con l’osservazione che "gli edifici antichi... rendono chiaro e illustre testimonio della virtù e grandezza Romana".

Nei suoi viaggi egli disegnava e misurava gli edifici visibili fuori terra, per lo più in proiezione ortogonale, in modo da documentarne esattamente la forma architettonica anziché limitarsi a riprodurre le proprie impressioni visive. La conoscenza diretta era integrata da copie dai quaderni di schizzi di altri architetti, quaderni che sono probabilmente la fonte della maggior parte dei disegni prospettici di Palladio. Fra gli architetti interessati alla scoperta dell'antichità si svolgeva, specialmente a Roma, un intenso scambio di documentazione e d'idee; questo lavoro in collaborazione divenne più agevole a partire dal secondo decennio del secolo, quando gli architetti cominciarono a quotare i loro disegni di edifici antichi.

In base a questi dati era possibile illustrare alcuni tipi di edifici romani e i particolari della loro decorazione: opere rinascimentali come i Quattro libri di Palladio o i suoi quaderni inediti di schizzi sono piene dì rappresentazioni di templi, teatri, ponti, archi trionfali e terme. Ma le case, i palazzi, le ville e le basiliche, la cui piena conoscenza sarebbe stata raggiunta solo dopo scavi sistematici, erano difficili da visualizzare e bisognava cercare di ricostruirli a partire dalle fonti letterarie. Anche per quanto riguardava l'urbanistica antica e le mutue relazioni tra i vari edifici, la fonte principale d'informazione era costituita dalle descrizioni dei testi, e perciò nei disegni di Palladio, come in quelli dei suoi predecessori, non sono riportati dati topografici fuori dell'ambito dei singoli monumenti. Ciò rispecchia la separazione, tipica del Quattrocento, fra artisti e letterati: mentre i primi (ad eccezione dell'Alberti) cercavano negli edifici antichi - o più spesso nelle singole parti di essi - solo delle idee da applicare, gli altri, come ad esempio il topografo Flavio Biondo, studiavano le fonti letterarie indipendentemente dai ruderi, riuscendo tuttavia in tal modo a farsi un'idea di come i vari elementi si componessero tra loro.

Durante i due anni in cui il Palladio, salvo una lunga interruzione, visse a Roma, lo scenario architettonico mutò profondamente: il Sangallo morì nell'agosto del 1546 e dopo alcuni mesi, lo seguì anche Giulio Romano, che doveva succedergli nell'incarico di architetto papale. Paolo VI convinse allora Michelangelo a dirigere le fabbriche di S. Pietro e di palazzo Farnese. Ed è quasi sicuro che Palladio abbia avuto, seppur scarse, occasioni di vedere i primi progetti di Michelangelo e di conoscerne le straordinarie innovazioni: nel 1554, quando lasciò per l1ultima volta Roma, aveva potuto vedere solo le scalinate del Campidoglio e del Belvedere vaticano, il cornicione e le finestre del cortile di palazzo Farnese e forse il modello di San Pietro, ancora privo della cupola.

E probabile che Palladio, pur rifiutando verosimilmente nel suo intimo la componente irrazionale dell'arte di Michelangelo, sia però rimasto profondamente impressionato da due aspetti:

il portico a colonne ed il frontone per la facciata, che era molto più vicino a quello del Pantheon di quanto non fosse in qualsiasi altro progetto precedente.

A Roma, proprio in questi anni l'accademia vitruviana di Claudio Tolomei, gli artisti della cerchia del Sangallo e gli ambienti degli antiquari contribuirono al massimo interesse per Vitruvio: ambienti codesti ai quali il vitruviano Trissino e il suo protetto Palladio ebbero facile accesso. La casa antica era fra i soggetti più discussi, e non era un caso che il Sangallo, in molti progetti maturi, indicasse esplicitamente il vestibulum, l'atrium, il cavaedium e il peristyliuin. Il vestibulum, cioè la prima entrata, fu anteposto all'edificio come nel Pantheon, o nel progetto del Sangallo per il palazzo Pucci, del 1530 circa; oppure fu inserito al centro della facciata come a palazzo Massimo. Moltissimi edifici della Roma antica, considerati profani nel Rinascimento - come la Curia, gli archi trionfali di Spello e di Verona, o alcune delle ville ideali rappresentate negli affreschi - erano caratterizzati dalla presenza del frontone. Ciò nonostante l'Alberti aveva raccomandato di riservare i frontoni agli edifici sacri, e di limitarli, nelle case private, agli "antiporti", e cioè ai vestiboli. Nel commento di Vitruvio del 1556, Daniele Barbaro menziona il vestibulum soltanto in rapporto con l"'atrium testudinatum" e lo chiama "loggia", e il Palladio illustra questo vestibolo con un portico simile alle logge delle ville della sua maturità. Molto più motivato è il commento ch'egli fa alla "casa di villa de gli antichi"; l'unico passo dei Quattro Libri nel quale parla del frontone: "Io ho fatto in tutte le fabriche di Villa, ed anche in alcune della Città il Frontispicio nella facciata dinanti: nella quale sono le porte principali: per ciò che questi tali Frontispici accusano l'entrata". Il frontone gli serve quindi, tra l'altro, per indicare, già a chi guarda da lontano, l'entrata delle ville e cioè il vestibolo.

Il Palladio rimane infatti fedele a questo principio ponendo in evidenza, con un frontone, soltanto il vestibolo, oppure in alcune ville e palazzi l'ambiente sopra il vestibolo. Egli non conclude mai l'intero corpo di un edificio profano con un frontone. La coincidenza dell'intero tetto con il frontone, caratteristica del tempio antico, compare infatti soltanto nei progetti sacri, come per esempio quello per la facciata di S. Giorgio.

Ciò nonostante, è evidente che il vestibolo vitruviano non è sufficiente per spiegare il ruolo preponderante del frontone nelle ville palladiane. Esso è piuttosto il risultato di varie tendenze eterogenee, come quella tipicamente veneziana che mette in risalto il centro di un palazzo, o di una villa; e come quella bramantesca e raffaellesca, volta a conferire al centro di una facciata il massimo valore gerarchico di un sistema dinamico, quale si riscontra a villa Madama. Ma il motivo più importante dev'essere stato la volontà del Palladio di attribuire alle sue architetture la maggiore nobiltà possibile; tale fine fu perseguito anche quando i committenti non erano uomini particolarmente facoltosi, ed il Palladio riuscì a realizzare questo nuovo linguaggio utilizzando una tecnica economica, e cioè quella della pietra finta. Pur essendo una tecnica antica, prima del Palladio, pochissimi avevano osato imitare intere colonne con stucco di marmo così come si potevano ammirare in tanti monumenti antichi; ed è significativo che siano stati ancora il Bramante, e i suoi successori più immediati, a seguire l'esempio antico nel terzo piano del cortile del Belvedere, nelle edicole del cortile di villa Madama, o nella loggia di Davide di palazzo Te.

Sembra che il Palladio si sia permesso in molti progetti una concezione che nella realtà sarebbe stata fastosa, anzi trionfale, perché sapeva che avrebbe potuto realizzare ugualmente tali edifici a costi sorprendentemente bassi. Aveva capito che, con la tecnica economica della pietra finta, era finalmente in grado di evocare, nella sua piccola Vicenza lo splendore monumentale della Roma antica e che questa tecnica gli permetteva di avvicinarsi ancora molto di più ai famosi prototipi antichi di quanto fossero riusciti Bramante e Raffaello a Roma, o il Sansovino a Venezia.

 

 

Daniele Barbaro e le influenze di Bramante e Raffaello.

La risposta iniziale di Palladio di fronte all'antico fu inevitabilmente occasionale, e non era sostenuta da un disegno autorevole. L'attenzione al disegno sorse in un secondo tempo, durante le visite successive, messa a fuoco dalla decisione di pubblicare il suo trattato sull'architettura antica e moderna oltre che dalla sua collaborazione alla traduzione annotata di Vitruvio di Daniele Barbaro. Il contatto con Barbaro fu altrettanto benefico per Palladio quanto la sua iniziale esperienza di lettura di Vitruvio assieme a Trissino, poiché consentì all'architetto di chiarire le proprie idee sulla teoria e la prassi dell'architettura romana, sulla natura dei templi e dei loro recinti, e sulla progettazione delle case, delle ville e addirittura delle città. L’ispezione diretta dei monumenti fatta assieme da Palladio e Barbaro rafforzò quell’approccio critico a Vitruvio che contraddistingue sia il commento di Barbaro sia I Quattro Libri di Palladio. Il metodo seguito da Barbaro di sottoporre il trattato dell’architetto romano alla verifica del confronto con edifici romani e con altri testi classici, fu alla base del modo con cui Palladio affrontò il problema della ricostruzione dei templi classici nel libro IV dei Quattro Libri. I disegni preparati da Palladio per la pubblicazione di Barbaro rivelano anche la straordinaria conoscenza dell’architettura classica che l’architetto possedeva più di dieci anni prima dell’uscita dei Quattro Libri.

Probabilmente, in un primo tempo l’attenzione di Palladio fu egualmente divisa tra la Roma antica e quella moderna. Durante i viaggi che fecero assieme, Trissino dovette fargli vedere gli edifici che erano stati costruiti ai tempi del suo soggiorno a Roma, cioè le architetture di Bramante, Raffaello e dei loro seguaci.

Bramante e Raffaello, provenienti da Urbino e quindi estranei alla raffinata e già stabilizzata tradizione architettonica del Quattrocento toscano, erano forse in grado di assimilare meglio la grandiosità dell’architettura antica: essi furono i primi a rilevare sistematicamente i ruderi romani.

Palladio sarebbe entrato nello spirito dell'architettura antica per mezzo di quei progetti che rivaleggiavano in grandiosità con i monumenti di Roma antica, come la nuova basilica di San Pietro, il cortile del Belvedere e villa Madama. Con San Pietro Bramante rimodella l'architettura cristiana su dimensioni analoghe a quelle dei grandi monumenti romani, il Pantheon e la basilica di Massenzio, e nessun architetto poteva ignorare la sfida rappresentata dalle dimensioni e dal vocabolario del suo progetto.

San Pietro rappresentò, per Palladio, il punto di partenza per l’architettura delle sue chiese, anche se modificato dallo studio dei modelli bramanteschi. Il cortile del Belvedere iniziò Palladio a quell’integrazione di architettura e paesaggio che darà i suoi frutti in molti dei suoi più ambiziosi progetti di villa, e lo spinse anche a studiare quelli che erano stati i modelli di Bramante, le ville imperiali di Albano e di Tivoli ed il tempio della Fortuna di Palestrina. La forza dell’esempio di villa Madama fu tanto più grande per il giovane architetto quanto, sebbene i lavori non fossero ancora terminati offriva la più ampia ricostruzione moderna di villa classica in termini di ricostruzione, di verità tipologica delle stanze e di giardini. Raffaello fece anche capire a Palladio che era possibile combinare assieme elementi derivati da fonti classiche diverse per creare effetti nuovi. Per fare un solo esempio, nella facciata sul giardino di villa Madama è utilizzato un ordine di colossali pilastri ionici, che non ha precedenti, combinato con basamento convesso e fregio tratti dall’ordine composito dell’arco di Portogallo di Roma ora distrutto. La libertà utilizzata da Raffaello nello scegliere motivi classici e metterli assieme in forme nuove toccò la corda giusta in Palladio la cui trattazione dell’antico, sul piano creativo, deve molto a questo esempio raffaellesco.

Le piante dei palazzi Palladiani derivavano dalla lettura di Vitruvio; e quando nel 1565 progettò la sua prima chiesa, l'esperienza romana era ormai troppo remota. Nonostante ciò, esaminando l'opera palladiana si possono riscontrare numerosi motivi ed elementi che rimandano all'opera di Bramante o a quella di Raffaello. La fronte della bramantesca casa di Raffaello ad esempio caratterizza fin dall'inizio parecchi palazzi di Palladio, specie quelli appartenenti alla produzione meno tarda; anche l'incastro di ordini di diverse dimensioni (che pure trovava riscontro in alcune antichità romane), come aveva costituito una delle più stimolanti conquiste di Bramante, caratterizzerà così in modo specifico le facciate di palazzi come quello Valmarana. E se l'incastro di due fronti di tempio sarà alla base dell'invenzione, dopo il 1562, della facciata di chiesa palladiana (da S. Francesco della Vigna, a S. Giorgio, al Redentore), bisogna ricordare che questo schema di facciata era stato proposto da Bramante, già intorno al 1509, nella chiesa di Roccaverano. E forse non e' neppure un caso che spesso le ville palladiane impieghino l'ordine ionico così come aveva stabilito Raffaello nella villa Madama, ma anche l'impiego di loggiati sovrapposti, con il motivo dell'arco inquadrato dall'ordine, rimanda ai prototipi bramanteschi e raffaelleschi del Belvedere e delle logge di S. Damaso. Ma è da notare che tutti questi motivi, temi ed elementi bramanteschi e raffaelleschi - ed altri se ne potrebbero aggiungere - che, sottilmente rielaborati, diverranno palladiani, compaiono più come libere citazioni in contesti quasi sempre estranei ai valori degli organismi originari di Bramante o di Raffaello.