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Peter Eisenman
Sabotatore dei confini del progetto

Dei cinque architetti che nel 1969 furono presentati al Moma di New York da Kenneth Frampton, e poi riuniti sotto l’astuta etichetta di “Five Architects”, l’allora trentottenne Peter Eisenman era in quanche modo l’anima teorica, come successivamente dirà Manfredo Tafuri. Anche dopo l’abbandono di quella specie di vascello verso la celebrità su cui era stato imbarcato il provvisorio “gruppo”, Eisenman non ha tradito la sua primitiva vocazione di sabotatore dei confini del progetto.
A partire dal 1980, quando apre il suo primo studio professionale e si era già definitivamente esaurita, con il progetto per la House X, la ricerca delle “cardboard architecture”, vedranno la luce progetti e realizzazioni impegnative. Eisenman non sarà più principalmente il teorico a cui capita di costruire per il collezionista, ma anche, o forse soprattutto, il “costruttore”che produce teoria.
Dal confronto con una committenza diversamente motivata, un pubblico più vasto e, soprattutto, con l’ambigua consistenza, non solo storica, del suolo e del sito, nasceranno:
-rischiose scommesse come il Wexner Center del campus dell’Università di Columbus, completato nel 1989, indicato, forse non proprio a ragione, come il primo monumento decostruzionista del ventesimo secolo;
-opere emblematiche come il Koizumi Building a Tokio, edificio per uffici ultimato nel 1990, punto di arrivo dello sviluppo della forma a L -definita da Eisenman El-Shape-, iniziato con il progetto della House 11a del 1978;
-e un folto gruppo di progetti non realizzati, come “i castelli di Romeo e Giulietta” a Verona che segneranno profondamente il futuro della sua esperienza.
Nel 1993 l’ormai nota monografia dell’Electa, collana Documenti d'architettura, curata da Pippo Ciorra con un vasto corredo illustrativo di foto delle opere realizzate, dei modelli e di disegni ordina l’intera produzione di Eisenman fino a quel momento cardine della sua esperienza e maturazione.
Tre anni dopo giunge in libreria l’intrigante “Peter Eisenmann – Mistico nulla” edito da Federico Motta. Qui Renato Rizzi, diretto conoscitore di Eisenman, sull’orizzonte ampio della cultura occidentale e del pensiero greco, usa la mistica ebraica e particolare il simbolismo della Kabbalah, come un corrosivo per portare a nudo -in una dimensione allegorica, che si pone ovviamente al di la di ogni riduttiva circostanza di ordine religioso, etnico e storico- un’intima unitarietà negli strati profondi del pensiero e dell’opera, di non agevole traduzione, del celebre architetto newyokese.
Dalle “Notes on Conceptual Architecture” fino ai risvolti teorici impliciti nei più recenti progetti, emerge –nell’indagine di Rizzi- un quadro originale e rigoroso dove ad ogni tappa di Eisenman, riconducibile agli archetipi formali del “punto”, del cubo, dello El-Shape, dello scaling, rispettivamente corrisponde il collante sovrastrutturale degli archetipi mistici, riassunti nei simboli dell’ En-Sof, delle Sefiroth, dello Tzimtzum e delle Sheviàth Hakelim. In tale palcoscenico, la coerenza che tanto l’esteriorità delle architetture – dal fanatismo euclideo della House I (Padiglione Barenholtz-1968), all’informale del progetto del Max Reihardt Haus, Berlino, 1992 – tanto alcune esplicite dichiarazioni dello stesso architetto parrebbero negare, si presenta, coerentemente al quadro dello stratagemma interpretativo proposto, ricomposta.
Ma l’allineamento fittizio dei vai strati metaforici in fin dei conti aiuta a rivelare l’autentico nocciolo duro della coerenza eismaniana. Ovvero, in ultima analisi, ciò che di autenticamente originale resta –a beneficio dell’architettura contemporanea-oltre l’apparenza dello stile di Eisenman o peggio alla Eisenman. L’architettura di Eisenman può piacere o, anche, non piacere. Può, nonostante tutte le attenzioni messe a scandagliare il luogo, paradossalmente, apparire fuori posto. La vera originalità non sta nelle forma, di per se estremamente "originale", ma nel principio iniziale –l’istante immediatamente precedente il Big-Bang- il “concetto”, in altri termini, sicuramente rivoluzionario di tutta la sua teoria. Ed è lì che si deve arrivare, se si vogliono superare tutti i discorsi più o meno celebrativi –o autocelebrativi- su Eisenman, per Eisenman, con Eisenman. Non si tratta di rimanere stupefatti –o frastornati- dell’inafferrabile o inspiegabile armonia al limitare della quiete metafisica–di fatto e reale- di un apparente caotico collidere di spezzate, frammenti , linee sghembe e superfici,volumi, microvolumi, rilievi accennati, detti e contraddetti, contorsioni di superfici tese o rilassate, che sembrano ora galleggiare in aria, ora pronti a precipitare oltre il punto di non ritorno di un fragile equilibrio. Si deve necessariamente ritornare alle origini, dalle parti di “Notes on Conceptual Architecture”,
Kosuth, Sol Le Witt e compagnia, per arrivare solo dopo –ma sulla stessa strada- dalle parti di Derrida, dove anche gli ultimi residui di paura della diversità –perché 90° anziché 88° o la retta anziché la curva “libera”?- ottengono il benservito. Alla presa di coscienza del capolinea dell’antropocentrismo artistico. Dove preso atto dell’impossibilità di sopportare il peso della consapevolezza l’artista aliena a vincoli e circostanze extra estetiche il compito di generare e partorire un nuovo universo visivo.
Far dipendere il valore dell'oggetto architettonico dal processo della sua formazione piuttosto che dal risultato finale, dice Ciorra a proposito della Fin d'Ou T Hou S, 1983
E prendere finalmente atto che, se l’ossessivo irrinunciabile obiettivo di disincagliare l’architettura contemporanea dalle secche del paradigma classico antropocentrico, per riposizionarla rispetto ai mutamenti del pensiero occidentale, rischia di finire diluito nel brodo confuso dell’appeal di un provvisorio stile da fine millennio, il contributo teorico eisenmaniano – alimentando , sul filo di imprevedibili scenari informatici, interrogativi e nuove speranze- mette radicalmente in discussione molte pretese certezze della presunta modernità, a partire dal dogma chiave che pretende di subordinare la forma alla centralità di quel comune preconcetto definibile vissuto spaziale nel cui centro, per definizione, risiede l’Uomo che vedendo lo spazio che lo circonda in effetti guarda un riflesso di se stesso.

AFC 20-06-02

Testo riveduto, corretto e ampliato.
Dal testo originario in La Sicilia 10-9-96.
Eisenman Wexner Center
Eisenman. Wexner Center. 1983-89
Wexner Center. 1983-89
Eisenman. Guardiola House. 1988
Nunotani Building, Tokyo. 1990-92
Aronoff Center, Cincinnati. 1988-96

I libri
Pippo Ciorra - Peter Eisenman. Opere e progetti -1993, Electa
Renato Rizzi - Peter Eisenman. Mistico nulla -1996, Federico Motta
VAI ALLA BIBLIOTECA DI ARCHITETTURA AMICA

Sul web
http://www.people.virginia.edu/~jmm3r/Practice/Eisenman/EA.title.html
Aronoff Center
http://www.bluffton.edu/~sullivanm/eisenmancin/daap.html
http://www.uc.edu/ucinfo/daappix.htm
Wexner Center
http://www.skewarch.com/architects/eisenman/project.htm
http://said.uc.edu/faculty/hancock/two/08-wexner.jpg


Approfondimenti
Teoria e cultura del progetto: http://www.nexusjournal.com/Rossi_it.html


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