FUORI CONTESTO 2001 - Teatro del Parco Mestre VE

25 Gennaio

Diario di un Pazzo di Nicolaj Gogol'

Compagnia Teatrale i Fratellini

Regia Lino Spadaro

"Datemi una trojka di cavalli veloci come il vento! Monta, mio postiglione, suona, mia campanella, impennatevi, cavalli, e portatemi via da questo mondo! Lontano, lontano, che non veda più nulla, nulla. Ecco laggiù il cielo vortica davanti a me; una stellina brilla in lontananza; il bosco vola con gli alberi scuri e la luna; una nebbia azzurrina si stende sotto i miei piedi; una corda vibra nella nebbia; da una parte il mare, dall'altra l'Italia; laggiù si vedono anche delle isbe russe. È la mia casa quell'ombra azzurra, lontano? È mia madre che siede alla finestra? Mamma, salva il tuo povero figlio! Versa una lacrima sulla sua testolina malata! Guarda come lo tormentano!…"

Diario di un pazzo un'opera senza eguali nel suo mondo. Un'autobiografia in prima persona che narra, con risultati poetici incomparabili, la schizofrenia di Aksentij Ivanov Poprišcin, consigliere titolare, nobile, Ferdinando VIII re di Spagna: perché, sia ben chiaro, non può esserci una doña sul trono iberico.

Solo nelle ultime righe del diario Poprišcin abbandona la prima persona per cedere il passo, nella ricerca disperata di aiuto nella madre, alla terza persona… molti la interpretano come momento di lucidità nella testa di un folle che crede che i cani parlino e che si scrivano addirittura delle lettere; che se si scrive Spagna si leggerà Cina, perché sono la stessa cosa; che ogni gallo sotto le piume ha una sua Spagna…

Tuttavia credo che Aksentij non ritorni alla vuota normalità, quell'invocazione in terza persona è, invece, un rafforzare al non plus ultra l'invocazione di aiuto del re di Spagna che, sceso da trono attorniato dai nemici e dall'inquisizione, rimane sempre e comunque un uomo che necessita d'aiuto, un uomo che cerca rifugio nell'unica persona che, forse, in tutta la sua vita l'ha saputo capire e amare: la madre.

Un "piccolo uomo" alle prese con la realtà, con la società che lo schiaccia, con i suoi sogni che vanno in frantumi. Un uomo in preda alla propria pazzia che non nasce dal genio - come in molti romanzi dell'epoca dove artisti, pittori, musicisti volevano raggiungere il senso ultimo della vita e dell'arte -, ma dall'infinito contrasto tra la sua debole personalità di inetto (sono anni che il ruolo di Ivanov è quello di temperare le matite al direttore) e una smodata eccessiva ambizione. Il racconto sviluppa eccezionalmente il feroce conflitto, tra Ivanov e l'ambiente, la società che lo circonda, nella quale vive e che vorrebbe imitare, dalla quale vorrebbe essere accettato.

Una società vuota che la Compagnia dei Fratellini ha allestito nuda con un semplice tavolino, una piccola cuccia di lusso e una piccola cassapanca: nulla più. Il resto era nero e l'attenzione ricadeva, accentuata da luci sapientemente giostrate e usate con calibrato equilibrio di chiaro/scuri, su Dario Cantarelli. La sua voce, roca e soffocata che esplodeva in una gamma di tonalità inaspettate, la sua mimica facciale, che tralasciava ogni ruga superflua che non necessiti al personaggio, il suo ghigno quotidiano, folle già di suo, e i suoi occhi fuggenti, che se ti fissano, se si fissano, ti bruciano nell'anima, insomma tutto di lui era perfetto per Ivanov. Ivanov era Cantarelli, Cantarelli era Ivanov e, in quella sala, Ivanov eravamo noi tutti, noi tutti eravamo il re di Spagna, noi tutti siamo dei piccoli uomini alle prese con una società che riteniamo offesa nella nostra persona.

In Cantarelli non si possono notare segni di cedimento nel suo excursus della pazzia del consigliere titolare di Gogol', solo una gestualità eccessiva è risultata fuori luogo in un diario che, se letto comunque sottovoce, dà già di suo, nel suo tono intimista, la dimensione giusta e l'ilarità necessaria per gettarsi alle spalle ciò che vi è di insensato nel mondo che ci circonda. Lo spaccare il piatto sulla tavola, lo sbattere il piede più volte a terra per accentuare un particolare stato d'animo, l'ombrello che si sposta di qua e di là della scena come un personaggio spalla del protagonista, sono eccessivi nel mondo surreale di Gogol' e di Aksentij Ivanov e, diciamoci la verità, un re tanto attento all'etichetta non si permetterebbe mai tali gesti inconsulti ed esagerati.

Oltremodo parevano troppo perfettamente studiati a tavolino i movimenti sulla scena creando nei loro schematici automatismi, in una platea che sovrasta il palco, un momento di rottura eccessivamente forte in uno spettacolo che dell'estraniazione fa il suo punto forte, il suo fulcro di aggregazione; tanto è vero che la stessa musica di sottofondo, usata con infinita e giusta parsimonia, lascia tutto alla realtà del palco; la stessa voce esterna che scandisce le date che si susseguono, col suo avanzare lento e asettico in un tono sgradevole e urtante, la sentiamo provenire da quelle poche cose sulla scena, da Ivanov/Cantarelli, da noi stessi; neppure il trillo del cellulare di un idiota in sala è riuscito a distogliere la nostra attenzione che si perdeva nelle elucubrazioni di Aksentij, sulle sue verità, sulla nostra vita quotidiana.

Ci perdiamo nella nostra vita nella quale interpretiamo più ruoli e spesso, alcuni di questi, frutto solo della nostra immaginazione e ambizione in un mondo che ci sottovaluta e che ci crede persone normali. Mentre …noi sappiamo che siamo qualcun altro, …magari non sappiamo chi con certezza, perché abbiamo smarrito la strada: forse siamo direttori di banca, o colonnelli e perché no generali, a loro sono riservate sempre le cose migliori! A loro e ai gentiluomini di camera … O forse siamo proprio dei re! …è che, né noi, né i nostri sudditi lo sappiamo. "…Ma lo sapete che il bey di Algeri ha un bitorzolo proprio sotto il naso?" (stefano cavagnis)