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IL LAVORO DEL CONTADINO

 

L'economia blufese, fino ad alcuni decenni fa, era prevalentemente agricola. Molti erano mezzadri o gabelloti, in quanto pochi possedevano vaste estensioni di terra, ma la mezzadria si espletava sotto forme diverse se il mezzadro aveva un numero adeguato di animali che lo aiutassero nel lavoro e possedeva le sementi (che dovevano essere impiegate metà per ciascuno), si poteva parlare di vera mezzadria, ma molto spesso la miseria era tale che il contadino non aveva né le sementi né mezzi sufficienti e adeguati per lavorare. Era allora “u patruni” a prestargli anche la sua parte; però a giugno, quando era il momento del raccolto, il contadino ne portava a casa poco in quanto doveva rendere ciò che aveva avuto in prestito (spesso) in quantità maggiorata. Il contadino era impegnato nel lavoro della terra per quasi tutto l'anno.

Il terreno del territorio di Blufi è di diversi tipi:

•  “Giluorfu” argilloso anche in superficie, poco adatto alla coltivazione;

•  “Firruariu” sabbioso, adatto a qualsiasi tipo di coltivazione: frutteti, cereali, vigneti;

•  “Quacinaru” calcareo, adatto alle coltivazioni di cereali e vigneti;

•  “Critu” calcareo, adatto, possibilmente, anche per cereali, ma tende a “spaccari” per l'aridità.

L'operazione fondamentale era “a maisa” cioè lo scasso che veniva fatto “cu pala e sciamarru” ad una profondità variabile a secondo il tipo di coltivazione:

•  grano e cereali (40 cm.);

•  vigneti (70-80 cm.).

 

 

“a pala”

“u sciamarru”

 

 

LA COLTIVAZIONE DEL GRANO

 

Come lavoro di preparazione e di lavorazione per rivoltare il terreno e portare in superficie gli strati più profondi, si eseguiva l'aratura nel mese di ottobre.

A novembre, il contadino, prima di procedere alla semina, faceva dei segnali nel terreno (“a spria”) affinché, quando poi avrebbe dovuto seminare, con un colpo d'occhio avrebbe sparso il seme con equilibrio e precisione. Nella “coffa”, infilata al braccio sinistro, era il seme; ne prendeva con la mano destra un pugnetto e a palmo aperto, affinché la quantità fosse equilibrata, lo spargeva sul terreno in modo da coprirne circa mq. 4-5.

Dopo la semina del grano, nel terreno si tracciavano dei solchi: solco mastro in verticale e solchi secondari pressoché orizzontali, confluenti nel solco mastro, per raccogliere le acque piovane.

Nel mese di febbraio - marzo “si zappuliava u lavuru” per estirpare le erbe dannose. Nel mese di maggio le erbe ricresciute venivano estirpate a mano. A giugno avveniva la mietitura durante la quale si eseguiva un movimento ben preciso: con una mano s'impugnava la falce, mentre con l'altra si tenevano gli steli del grano che venivano tagliati e posati per terra formando mucchietti chiamati “jiermiti”; nove di questi afferrati “cu a ‘ncina” formano “ na gregna”, venti “gregni” formano un mazzo.

Per un certo periodo “i gregni” venivano lasciate ad essiccare al sole. Quando si riteneva che fossero pronti per la trebbiatura, “si ‘mpallava” cioè si preparava “l'aria”, lo spiazzo in cui si “pisava”. Pulito dalle erbe, esso veniva cosparso “d'u pruvulazzu” della paglia che tutti avevano in casa come biada per i muli. Si bagnava quindi leggermente il terreno “pi assulari”, cioè renderlo più consistente. Era il momento di trasportare “i gregni ‘na l'aria”.

Se essa era vicina, sopra “a vardedda”, si poneva “a scalidda” sulla quale si legavano “i gregni” con una corda per evitare che cadessero. Se invece l'aria era distante dal terreno e la quantità di “gregni” era considerevole, il trasporto avveniva “cu a straula”.

Poi si “pisava”. Il contadino guidava i muli in giri orari ed antiorari. Quindi si “vota” l'aria per due volte, cioè si rimescola tutto e si ricomincia ogni volta “a pisari” affinché non resti alcuna spiga non calpestata. Poi si “Spallava”, se il vento era favorevole (“Tramuntana e Sciroccu”).

La paglia più grossolana si ammonticchiava, formando “u pallarizzu”; poi si “paliava” e la pula ammonticchiata formava il “contrapallarizzu”.

Il grano era quasi pronto per essere trasportato “no granaru”: “si cirniva cu u

crivu di l'aria” e si “nsaccava” “cu tumminu (1) ”, dopo aver passato sullo stesso “a rasula”. La paglia si metteva “ne rutuna” e si trasportava là dove sarebbe servita da foraggio per gli animali.

 

 

 

“u furcali”

 

 

“a zappudda”

“l'aratru”

 

 

 

“u zappuni”

 

“a ‘ncinedda”

“a straula”

 

“a scalidda”

 

 

NEL VIGNETO

 

Dopo la vendemmia, la vigna “si squazava”, cioè attorno alla vite si faceva “a conca”, cosicché che foglie vi cadessero dentro servendo da concime e l'acqua autunnale fosse meglio assorbita. Qualche mese dopo si procedeva alla potatura per far si che si mantenesse un giusto equilibrio tra apparato radicale e la chioma. La potatura avveniva da gennaio a febbraio, prima che spuntassero le gemme e consisteva nel togliere, con taglio e perizia magistrali, alcuni sarmenti, lasciando quelli più adatti alla produzione. Per questa operazione si usava: “a fuorfici pi putari”, “u sirraculu” e “u rinciddu”. Per i tralci giovani, “'na chianta”, si usava la forbice; quando la vite era più robusta si usava “u sirraculu e u ranciddu”. I sarmenti venivano raccolti e si formavano delle fascine, “i pupati”, così chiamate perché i sarmenti più lunghi si avvolgevano a una estremità intorno agli altri, quasi a formare “a pupa”. Sarebbero stati utilizzati nell'inverno “pi appicciari u fuocu” (per accendere il fuoco).

Per evitare che il vento in inverno rompesse la vite, a sostegno si mettevano dei pali di legno legati ad essa “cu u jiungiu o cu a ddisa”.

Per mantenere un equilibrio idrico nel terreno, si zappava una prima volta a febbraio - marzo; ad aprile - maggio “si addibulava”, cioè si ripeteva l'operazione anche per togliere le erbe. Quando erano già spuntate le foglie, nella seconda metà di maggio, si “'nzurfarava” e si ripeteva l'operazione a giugno, quando l'uva “cuminciava a ligari”.

Altra operazione necessaria era la scacciatura (“munnari a vigna”) che consisteva nel togliere i germogli sterili, “i servaggi”, che avrebbero altrimenti compromesso il raccolto.

Alla fine, ancora, “si arritrizzava”, cioè si zappettava leggermente per far si che i chicchi d'uva diventassero più grossi e per evitare che la pianta si ammalasse.

 

NEL PALMENTO

Quando si vendemmiava, l'uva raccolta si poneva “'ne sacchi” o “ne friscini” e con i muli veniva trasportata “o parmientu”. Qui si versava “no racinaru”, attraverso una botola, perché era sotterraneo. Quando era il momento, veniva estratta e travasata “no parmientu” vero e proprio che era come una vasca abbastanza grande, a un angolo della quale c'era “u torchiu”. Man mano l'uva veniva calpestata da uomini e ragazzi a piedi nudi; il succo defluiva dalla vasca attraverso un piccolo condotto, a cui era legata “'na cartedda” che fungeva da filtro, “'na tina”, vasca sottostante. Quando si finiva di “pistari”, si “tramutava”: si prendeva il mosto “d'a tina cu a lancedda” e si rimetteva “'no parmientu” assieme alle vinacce. Era un vero e proprio rito perché ad ogni “lancedda” corrispondeva il nome di un santo; se non si ricordava il nome, si diceva, con voce cantilenante: “Giustu...” e il numero delle “lancedde” o “E n'avimu...”.

Arrivati a sessanta “lanceddi”, misura corrispondente a una botte di sei carichi (2), si diceva: “talla cu talla”.

Mosto e vinacee rimanevano a fermentare per dodici ore. Dopo si “sbuttava”: si lasciava scorrere il mosto, filtrato “d'a cartedda”, “n'a tina”. Le vinacee si passavano poco per volta “'no varrini” che conteneva “u torchiu”; su di esse si poneva “u baialardu” e sopre ancora “i puosti”, cioè i pesanti legni, ad incrociare. Azionando avanti e indietro un lungo braccio di ferro, essi giravano e “smuncivanu” le vinacee che lasciavano uscire altro mosto. Dalla tina il mosto veniva prelevato e versato “'na l'otri”; a dorso di mulo essi venivano portati a casa.

 

“i puosti”

“l'otri”


(1) Oggetto a forma di secchio che indicava ai contadini il peso di Kg.14. Infatti:

Sarma = 16 tumuli = kg. 224;

Tumulo = kg. 14;

Munniddu = ¼ di tumulo;

Cozza = ¼ di munniddu.

(2) Un carico = 10 “lancedde”.


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