Acrobazie Geniali di un Nobile Critico Andrea Scanzi Pubblicato ne Il Mucchio
Selvaggio Riccardo Bertoncelli è la prova più eloquente della
possibilità di applicare la nobile arte del "gusto per la prodezza" persino in
un settore angusto come quello della critica. La recente uscita di Paesaggi
immaginari ha giustificato questa intervista, che non si è però limitata
all’analisi del libro. Se un anno fa, proprio nel numero natalizio, erano state
dedicate molte pagine all’intervista a Max Stèfani, l’incontro con
l’ideatore di Freak è parso il modo migliore per proseguire l’analisi
storico-sociale del fenomeno delll’editoria musicale italiana, all’interno della
quale Bertoncelli si è ritagliato, da sempre, il ruolo più stimolante:
fantasista. Come Pedro Rocha nell’Uruguay del ’70, suggerirebbe
l’intervistato. O Davor Suker nella Croazia, replicherebbe
l’intervistatore. Quali sono i "primi passi" di Riccardo Bertoncelli? Ho iniziato nell’ottobre del 1969 con una fanzine tutta
mia; ciclostile puro, il MacIntosh dell’epoca. Avevo 17 anni e una grande
passione per il blues "bianco". Avevo fondato, all’insaputa di tutti, un fan
club di John Mayall. Inizialmente la mia rivista si chiamava Blues
Anytime. Erano foglietti in cui riciclavo notizie provenienti perlopiù dal
fan club ufficiale di Mayall, anche se fin da allora ero soprattutto un
americanista. Sono andato avanti così per un anno e mezzo, tirando 150 copie. Al
tempo c’era una trasmissione radiofonica mitica, Count Down; i bastardi
l’avevano sistemata la domenica dalle 14 alle 14 e 30, giusto prima delle
partite, e io la inseguivo su traballanti radioline d’epoca dalla curva dello
stadio. Una volta chiesi ai conduttori se mi potevano fare pubblicità, e loro me
la fecero. Grazie a questo, ottenni una cinquantina di abbonamenti. Sono andato
avanti per un annetto. Erano davvero altri tempi. Sto pensando seriamente di
fare una festa, il prossimo anno, per i miei 30 anni di attività. E poi? Nel marzo 1970 ho conosciuto Paolo Carù. E’ stato
un incontro fondamentale, lui aveva un negozio fornitissimo che per me era come
un sogno. Ricordo ancora i dischi che comperai durante la mia prima visita:
Burnt Weeny Sandwich di Frank Zappa e Volunteers dei
Jefferson. Ci siamo consorziati per un certo periodo, ribattezzando la
fanzine Pop Messenger Service. Fra Blues Anytime e Pop
Messenger Service ho stampato credo 17 numeri. Nel 1971, per motivi che non
sto a ricordare, ho interrotto il sodalizio con Carù, e ho ricominciato
da solo. E’ stato allora che ho fondato Freak. Ovvero la rivista che gli addetti ai lavori ritengono, senza
mezzi termini, mitica e imprescindibile. Per me è un pezzo importante della mia vita. Con Freak
ho fatto il numero 0 e altri 21 numeri. Era un mensile, e contando le esperienze
precedenti arriviamo a 39 numeri: record mondiale di fanzine! Con
Freak iniziano a girarmi più dischi, soprattutto grazie ai contatti
allacciati con alcune case discografiche. Devo essere sincero: non ho una grande
stima per i discografici. Però, è indubbio che la mia storia è stata
inizialmente aiutata da una sorta di mecenatismo. Devo molto alla
Ricordi, che al tempo aveva in catalogo praticamente tutto (basti dire
Warner e Island, poi sarebbe venuta anche la Virgin) ma,
paradossalmente, non aveva nessuno che gli recensisse le opere. Io sfruttai la
situazione, proponendogli in abbonamento un giornale che parlasse di quelle loro
"strane cose". Accettarono, lasciandomi sempre una grande libertà. Spesso gli
stroncavo i dischi, e loro non mi dicevano niente (forse non mi leggevano
neppure). Attorno a Freak crebbe una sorta di aura leggendaria, fino a
quando, nel 1973, ho dovuto mollare tutto per mancanza assoluta di tempo.
Oltretutto studiavo e non volevo rinunciare a una laurea, che poi è arrivata.
In cosa? Giurisprudenza, a Pavia. E’ di questo periodo l’inizio della collaborazione con
Gong. Sì. E’ stato nel 1974. Allora ho cominciato a pensare
all’attività di critico non più come hobby, ma come vera e propria attività
"professionale". Quella di Gong è stata un’esperienza importante. C’era
un bel clima, furono i nostri anni ‘60. Ho sempre pensato che, almeno nel rock,
in Italia gli anni ’60 siano accaduti nel ’70. Questa non è male. Ma è vera. Diciamoci la verità: negli anni ’60 nessuno si
interessava di musica. Adesso tutti dicono che al tempo ascoltavano questo e
quello, ma non è vero. Se provi un po’ a scavare, ti accorgi che scambiano non
solo un anno ma un decennio per l’altro. Io, invece, per quanto la memoria
cominci ad avere i suoi buchi, riesco ancora a fotografare gli anni con buona
precisione. In fatto di rock, in Italia tutto ha inizio nel 1971. E’ questo
l’anno della svolta: a febbraio, allo Smeraldo di Milano, i Jethro Tull
tengono un acclamatissimo concerto e da quel momento inizia una regolare
programmazione di eventi rock anche in Italia. Io allo Smeraldo c’ero e, per
quante ne abbia poi dette alle spalle di Ian Anderson e del suo "passo
di Chichibio", non mi leverò mai dal cuore quello show. Andavano bene le vendite? Negli anni ’70 l’editoria musicale ha perso una grande
occasione. C’era un pubblico bellissimo, curioso e onnivoro, che aveva una
grande "fame" di giornali e libri frustrata da vuoti editoriali immensi. Adesso
invece c’è un’offerta stratosferica, ma la tendenza è di fregarsene. Quando hai iniziato a scrivere quelle che nel tuo ultimo libro
definisci "effervescenze", cioè le recensioni di dischi inesistenti ("Red Wood"
di CSN&Y), i carteggi impossibili (Dylan che scrive a Dio, Papa Luciani che
recensisce Patti Smith) and many more? Direi da subito, anche se le mie prime cose sono francamente
illeggibili. Erano pezzi seriosi, patetici tentativi di storicizzare a tutti i
costi. Ecco, una delle cose che è sempre mancata nel panorama critico italiano,
è stato l’appiglio storico. Un po’ era colpa mia, perché tendevo a lasciarmi
prendere dalla scrittura. Per certi versi era anche un pregio, un segno di
originalità e spontaneità, ma costituiva un grosso limite. Ti capita mai di rileggere i tuoi vecchi pezzi? Sì, e non sempre è entusiasmante. Ho l’occhio clinico, vedo
subito il difetto, noto la "stratificazione" come negli scavi archeologici: c’è
il periodo delle parole tronche, quello delle virgolette, quello delle
citazioni. Mi sento come un musicista che volge lo sguardo indietro e scopre che
in un certo periodo ha infarcito i suoi brani di "settime dominanti" solo per il
gusto di farlo. E’ il Bertoncelli "maturo" che guarda con occhio smaliziato gli
eccessi di gioventù? Ti rispondo con una frase che mi piace sempre citare. E’ di
Pete Townsend: "Io ho scritto My Generation a 20 anni. E’ una
canzone che adesso potrei rifare un migliaio di volte, e sicuramente la rifarei
meglio. Però, le possibilità che io inventi ancora una canzone così perfetta,
così forte, così assoluta, sono uguali a zero." E’ così: quando hai 20 anni,
non hai esperienza, ma a ciò sopperisci con delle folgorazioni. Allo stesso
modo, quando riguardo certe mie cose, mi colpisce la scelta, istintiva ma
profetica, di aver creduto in piste che si sono poi rivelate giuste. Ripeto però
che al tempo mancava completamente il senso della storia. Si avevano delle
informazioni estremamente bucate e imprecise. Sempre in questo periodo cadono i tuoi primi screzi, come
quello celeberrimo con Guccini o quello, di cui francamente non ho capito
l’esclusione, con Demetrio Stratos degli Area. A dire il vero, lo "scontro" con Stratos non l’ho
neanche preso in considerazione. Vedi, la querelle con Guccini è
stata sincera, spontanea, e tutto ciò che riporto nel libro corrisponde a
realtà. Non siamo mai diventati amici nel senso totale del termine, anche per
via di una seconda polemica capitata al tempo di Croniche Epafaniche (nel
libro l’ho chiamato il "Ritorno dell’Avvelenata"). Con gli Area,
invece, così come con tutto il gruppo Cramps e altri del giro milanese
(Battiato, Franz Di Cioccio) avevo un forte legame di amicizia. Quella
polemica lì mi è sempre sembrata pretestuosa. Credo che Stratos, più che
con me, volesse mettersi in collisione con Gong. Non è mai piacevole
parlare di persone scomparse, ma ti chiedo di credermi: era Gianni Sassi
che faceva queste cose. Gianni era uno strano personaggio, un alieno nel mondo
della musica. Aveva intuito che la discografia era un mondo stimolante e senza
essere un esperto faceva il guastatore. Voleva buttare sassi nello stagno, e
andava benissimo, ma spesso li tirava un po’ a caso. Con gli Area mise su
un "lampione" interessante. Era molto affezionato a quell’ensemble di
musicisti, che riteneva in qualche modo "suo". Non mi risulta però che tu sia un grande amante di quel periodo
musicale. E’ vero, anche se gli Area dei primi dischi e in
particolare dell’esordio erano straordinari. Proprio perché li amavo e li
appoggiavo, la lettera di Stratos mi sembrò studiata a tavolino, del tipo
"io ti scrivo una cosa cattiva facendo finta di non conoscerti, così creiamo
un caso". Quando mi arrivò la lettera, non sapevo che pensare. Una cosa
analoga, ma al contrario, mi è capitata anni dopo con Massimo Buda: dopo
un suo scritto su Lotta Continua all’epoca del "rock italiano anni
‘80" mi feci convincere a scrivere una lettera aperta contro di lui,
assecondando una prassi, quella della "polemica a tutti i costi", che ho
sempre odiato. E’ triste, perché in quei momenti sei finto. E’ una di quelle
cose che non rifarei. A quel gioco non ci gioco. Non mi piace. La polemica con
gli Area fu pretestuosa. Erano un ottimo complesso, anche se a volte
volevano fare i "dottorini" e insegnarti musica e politica, tutto
insieme. Al tempo ce n’erano tanti, di "dottorini"… Sì, e Guccini mi scambiò per uno di quelli. Quando
scrivo nel libro che, una volta conosciutomi, si stupì, non invento nulla. Certo
che, quando stroncai Stanze di vita quotidiana (e da qui nacque la
strofa de L’Avvelenata che ha reso "celebre" al grande pubblico
Bertoncelli, "un pio, un teorete, un Bertoncelli, un prete a sparar cazzate",
NdA), ci andai giù pesante… Quello che non mi ha convinto fino in fondo, della tua critica
all’album di Guccini, è il rimarcare in tono negativo il "rifugio nel privato"
che caratterizzava il disco. Può esistere una buona musica che non tocchi il
"sociale", come riteneva Wagner, o credi che la componente "pubblica" sia
imprescindibile? Non sono valori assoluti. Non è che se uno parla del suo
privato è per forza "intimista" in senso negativo. Io gli "ismi" cerco
sempre di intenderli per quello che sono, cioè degenerazioni del concetto
originario. Il massimo della degenerazione è, in questo senso, il "moralismo".
Io accetto la parola "moralismo" solo se uno mi spiega qual è il suo concetto di
"morale". Tornando al nostro discorso, credo che esistano poeti "intimi" di
ottimo e di pessimo livello, così come artisti "sociali" di alto e di basso
livello. In Paesaggi immaginari non l’ho messo, ma credo che nel prossimo
libro (che ho già in mente) inserirò un articolo su Phil Ochs, un bel
campione di "musica sociale" che nella sua storia e nella sua opera riflette
molte cose di quest’argomento. Ochs ha scritto di cose "sociali" con un
impeto e una passione straordinari, ma alla fine si è bruciato con quel fuoco.
E’ un argomento a cui sono sensibile, assieme a un altro che nel libro torna
spesso. Quale? Il discorso dell’artista "doppio", presente nell’articolo su
John Lennon. L’artista come lo vediamo noi è un artista nostro,
profondamente diverso dall’uomo in carne e ossa ma con una sua lucida dignità.
E’ fatto dei nostri pensieri, delle nostre fantasie; è un Golem buono che
può diventare rovinoso. E’ una vita che provo a scrivere una cosa che poi non
finisco, perché ho paura di personalizzare troppo la materia. Riguarda
Zappa, uno Zappa che ha vissuto nel mio quartiere per anni, tanto tempo
fa. Il mio quartiere si chiamava Sant’Andrea (Bertoncelli è di Novara,
NdA), e il pezzo si sarebbe dovuto intitolare "Da San Bernardino a
Sant’Andrea" - zappiano, no? Quando ho conosciuto il vero Zappa, beh,
mi è sembrata una delusione. Che però mi ha aperto gli occhi. Non era quello che
io immaginavo, e non poteva essere altrimenti: ci avevo costruito su sei o sette
vite diverse, complicatissime, improbabili! Conoscendolo, ho capito che sapevo
pochissimo di lui veramente, sebbene mi ritenessi un cultore in materia. E’ un
errore classico: quando ti adegui al personaggio che hai costruito, è come se ti
fermassi. E’ un errore e un limite. Gravissimo. Quali sono gli artisti che, una volta incontrati, ti hanno
confermato la teoria del "doppio"? Tim Buckley di sicuro. Fu uno scarto crudele. John
Fahey, lo racconto anche nel libro: proprio non volevo credere che il poeta
delicato dei dischi fosse quell’omaccione gonfio e triste. Brian Eno:
un saputello sfuggente, che ti comunica in heavy
rotation la sensazione che ne sa più di te e non provarci nemmeno a
confrontarti. Tu sei convinto di conoscerli, di averli incasellati, e invece non
è così. Ma, sia chiaro, la colpa è sempre del fan o dell’esperto che si spinge
troppo in là con il gioco. Io non amo più di tanto gli "incontri ravvicinati",
preferisco fantasticare con misura, su solidi documenti. Poi certe volte ti
capita di azzeccare l’identikit: Leonard Cohen, per esempio, un vero
saggio, che ho conosciuto quando accompagnai Massimo Cotto a Los Angeles
per il libro di testi che pubblicammo in Arcana, Robert Wyatt (una
persona meravigliosa, umanissima), Michael Stipe, quel very english
character di Elvis Costello. Torniamo alla tua storia. Cosa succede, dopo l’esperienza di
Gong? Mi risulta che ti sei allontanato dal rock per ascoltare solo free
jazz. Verso la fine degli anni ’70, e lo puoi notare anche leggendo
gli ultimi numeri di Gong, ho cercato qualcosa che fosse al di fuori
della musica rock. Il free jazz mi interessava già negli anni ’60, più che altro
mi innamorai degli "improvvisatori". Mi immersi in quel mondo, comprai
pacchi di dischi per cui oggi mi offrono tantissimi soldi e che non venderò mai,
anche se non li ascolto più. A fine anni ’70 avevo meno "il polso della scena"
di oggi, ma da qui a dire che mi "ritirai ad ascoltare free jazz", beh,
francamente mi pare eccessivo. Il giudizio che dai di Gong è incondizionatamente positivo? Gong è stata una rivista fondamentale e tutti ne parlano
con grande affetto. Però, con sguardo critico, credo che qualche difetto ce
l’avesse. Ad esempio, il punk americano ci ha interessato da subito, a partire
da Patti Smith (anche se la prima recensione non fu mia, ma di Marco
Fumagalli) e Tom Verlaine, ma quello inglese non lo considerammo
dovutamente. Lo valutammo soprattutto come fenomeno sociale, ne sottovalutammo
le componenti artistiche. E poi ci piaceva avere un approccio "letterario",
molto romantico. Ancora una volta ci faceva difetto la storia. Nei miei sogni,
avrei voluto che fossimo Mojo vent’anni prima. Ma eravamo in Italia e,
per l’appunto, erano solo sogni. E Musica 80? Altra esperienza interessante, ma anche lì facemmo i nostri
errori. Ricordo ancora l’incazzatura di Claudio Sorge quando intitolai un
suo pezzo sui Joy Division "La gioia divisa" e uno sui
Cramps "Crampi a New York". Effettivamente, in seguito mi sono
reso conto che erano gruppi validi (soprattutto i Cramps), ma quella
scena lì non l’ho vissuta con l’entusiasmo del neofita. Ero un po’ distaccato e
ancora una volta volevo fare poesia più che informazione appassionata. E poi,
avevo smesso da un pezzo di essere un "minatore". Cioè? Per me, i "minatori" sono quelli che ogni giorno scendono in
miniera e cercano il nuovo complesso: patiscono il freddo e il buio, rischiano
di saltare in aria per il grisou ma ogni tanto emergono con un 45 giri raro dei
Gorky’s Zygotic Mynci e a loro sembra che ne parlerà il telegiornale. I
minatori sono moltissimi e in linea di massima tendono a scoprire i
Beatles una volta alla settimana (io la chiamo "sindrome di Brian
Epstein"). E’ una vicenda buffa e triste, sono come gli accoltellamenti
per le recensioni del tipo "Quello lì l’ho scoperto prima io!". Non hai mai "scoperto" nessuno? Oh sì, quand’ero un minatore, almeno istintivo. Mi vanto di
essere stato il primo a recensire in Italia non solo Tim Buckley ma anche
Jeff Buckley. Ne vado molto fiero. A più di vent’anni di distanza, vuol
dire che non sono del tutto rincoglionito. Non a caso la "posta angelica" che dedichi alla famiglia
Buckley è uno dei momenti più belli del libro. Mi fa molto piacere sentirtelo dire, perché è un brano a cui
tengo particolarmente. E poi lì parlo di Fred Neil, che è un altro
personaggio fantastico. Nel 1983 sei approdato a Rockerilla. Sì, ma prima ci sono stati gli Almanacchi del
Formichiere, tra il 1979 e il 1980, scritti con Franco Bolelli. Erano
molto divertenti, anche a livello grafico. Al tempo, come ti ho detto, bazzicavo
il jazz e una certa scena d’avanguardia, che ho poi in parte abbandonato. Perché proprio Rockerilla? Perché me l’hanno chiesto. Per alcuni anni ho scritto qualche
recensione, senza grandi impegni. Mi piaceva l’idea di avere una rivista che
toccava il nuovo e di fungere da fratello maggiore, da "storicizzatore". La
strada giusta l’ho trovata nel 1991, quando ho ottenuto uno spazio fisso che mi
spinge mensilmente a uno sforzo di ricerca, di studio e di direzione - ci tengo
molto a "Imaginary Landscapes". Sono molto contento anche dell’altra
rubrica fissa che curo, in Linus, con cui collaboro dal 1979. E’ vero che per un certo periodo hai scritto di sport? Verissimo. E’ capitato tra il 1982 ed il 1985. Collaboravo con
l’Unità, il mio primo caposervizi fu Michele Serra. Scrivevo di
calcio, ciclismo, mi è capitata anche l’atletica leggera. Ti garantisco che, a
confronto con il giornalismo sportivo, quello musicale è popolato da angioletti.
Comunque mi sono divertito. In Paesaggi Immaginari parli spesso della critica, rimpiangendo
i "tempi della ghigliottina", "il gusto per lo schiaffo", la
"stroncatura netta", nobili arte che ritieni abbandonate. Tutto mi pare
racchiuso nella frase: "La critica continua a non criticare". Siamo messi
male, a quanto pare. E’ un discorso che vale per tutta la critica. Limitando il
raggio d’azione a quella musicale, credo che si sia passati dalla
"imberbità" dei primordi (consentimi il neologismo) al "confuso e
settario" di questi tempi. Con Musica 80 e Gong avevamo
sperato di creare una rivista onnivora, aperta, anche se magari carente di
informazione. Erano pubblicazioni perfettamente tarate con l’ascoltatore del
tempo, che era appunto onnivoro. Le nuove riviste, come Il Mucchio
Selvaggio di qualche anno fa, il Buscadero o Rumore hanno
invece finito con il coltivare il proprio orticello, da contrapporre a quello
degli avversari. Questo ha impoverito e limitato il raggio di conoscenza dei
lettori. Oggi mi sembra però che si stia migliorando. Il Mucchio, data la
sua cadenza settimanale, è oggi spinto a interessarsi di tante cose, e mi sembra
che lo faccia con una onestà e una non settarietà superiori a 10 anni fa. La
stessa cosa capita anche ad altre riviste, anche se i risultati finali non mi
sembrano comunque entusiasmanti. C’è moltissima informazione, questo sì, che
però spesso non coglie il punto esatto. E poi, vedo tanto "scimiottamento" delle
riviste straniere, a partire dalla moda di andare dietro al genere o
all’etichetta che fa più "figo" in quel preciso momento. Non ti sembra che la critica musicale sia spaventosamente
"buonista"? Quella dei quotidiani sì, indubbiamente. Invece, le rubriche
specializzate hanno i loro amori e disamori, anche se c’è questa tendenza
cretina di affidare le recensioni dei singoli artisti sempre allo stesso
"esperto", che poi in realtà è un parroco che celebra sempre la stessa messa al
suo santo patrono. Questo mi mette tristezza, come mi immalinconisce il fatto
che le pagine musicali nei quotidiani siano quasi sempre l’ultima ruota del
carro. Le rubriche sul teatro e sul cinema sono nettamente migliori. Che ne pensi Musica! di Repubblica, a cui
collabori? E’ un giornale che non può che essere così. E’ un po’
"cerchiobottista", perché vuole arrivare primo sui trend ma, allo
stesso tempo, non vuole perdere il grosso pubblico. Vuole essere competente
trattando dei nomi di culto, ma anche giovanilista in generale. So che riceve
molte critiche. Tutti dicono che lo saprebbero fare meglio: io dico che
Musica! è un giornale che assolve il suo compito, e forse non può che
essere così. Del resto, è come mamma Repubblica: a volte vuole essere
Liberation, altre volte Le Monde, ogni tanto La
Notte. Torniamo al tuo libro. Leggendolo, si può scoprire che il rock
è nato il 21 Marzo 1952. Guarda caso, lo stesso giorno in cui è nato un certo
Riccardo Bertoncelli… Ah ah ah! Messa così è solo una boutade, ma sono sempre
stato ossessionato da questa storia delle radici del rock e fortunato abbastanza
da scoprire un giorno su una rivista "serissima" che il mio giorno di nascita e
quello della fondazione del rock coincidevano. Sono cresciuto nel culto degli
anni ’60 ma col tempo ho scoperto che il vero decennio fantastico sono stati i
’50. Lo pensava anche Dylan. Già, ma lui non si fermava ai ‘50. Suo figlio Jakob ha
rivelato che, durante le gite che faceva con il padre, era "costretto" ad
ascoltare in continuazione Jimmie Rodgers, che non è proprio il massimo
del modernismo e della vitalità…A parte questo, gli anni ’50 sono stati
irresistibili. Prendi il jazz tra il ’57 ed il ’60: è il periodo d’oro di
Mingus, la scoperta di Coleman, il primo grande Coltrane,
Bill Evans e il Golden Trio. In Italia, la musica in quel periodo
era per pochi eccentrici. Il jazz si faticava a trovarlo, il rock stesso era
poco e molto contaminato. Ti ricordi il primo disco che hai comprato? Era un 45 giri, She Loves You dei Beatles (1963).
Il primo 33 fu invece Revolver (1966). Ma ascoltavo anche Morandi
e Celentano. Durante quei 3 anni, sono andato avanti a 45 giri. La mia
fede per il rock era incerta. La folgorazione è avvenuta tra il 1966 ed il 1967:
uscirono così tanti dischi, in quel breve lasso di tempo! E ne sentivi solo
parlare, te ne facevi un’idea vaga. Facevi un’estrema fatica a trovare un disco.
Fu un’impresa, reperire il primo dei Doors su Vedette, era il
1967, credo che lo domandai al negoziante per sei mesi. Ma anche anni dopo non è
che la situazione fosse cambiata. Nel 1970 al mio paesello tenevo conferenze a
cui assistevano tre, massimo quattro persone, parlando dei Jefferson, di
Crosby, di Zappa. Una delle frasi che mi ha colpito maggiormente del libro, forse
perché è anche un mio leit motiv, è questa: "la musica con il gusto
per l’acrobazia". Credi che solo la musica del passato, in particolar modo
quella che va dai ’50 ai ’70, abbia i connotati della "prodezza"? Come
giudichi la musica attuale? Innanzitutto la musica attuale mi sforzo di ascoltarla. Ho le
orecchie aperte e molta disponibilità: sono uno dei pochissimi giornalisti che
ascolta ancora i dischi che gli vengono dati. Le case discografiche mi prendono
in giro, per questo: "Ma come? L’hai ascoltato veramente?" Molti miei
colleghi, lo dico chiaramente, non lo fanno praticamente più. E sono anche uno
dei pochi che i dischi li compra ancora. Ascolto i nuovi dischi con tutti i
buoni propositi del mondo. Davvero, mi piacerebbe sentire qualcosa di
profondamente, totalmente nuovo. Non accade mai. Mi è capitato di stupirmi anni
fa con le prime cose degli Orb e con certa electro music di quel
periodo - è solo un esempio. Non dico che mi emozionassero, anche perché con il
tempo sono diventato assolutamente cinico, però qualcosa di originale si
percepiva. Nemmeno il primo dei Chemical Brothers mi era dispiaciuto.
Però, c’è sempre qualcosa che mi sfugge, ed è giusto così. E’ il bello della
musica. Essendo un vecchio appassionato di rock ultra, ero convinto che
un giorno avrei potuto dire a mio figlio che tutto quello che ascoltava, io lo
avevo sentito molto prima di lui, e a un livello artistico sicuramente
superiore. Ma non funziona così. A parte il fatto che mio figlio, che ha 10
anni, fischietta Battisti ed ama Zarrillo… Chissà com’è contento, il padre… Da morire. Ma il punto è questo: sono passati i fatidici 15,
20, 30 anni, e ti hanno fregato. Tu sei comunque dall’altra parte, sei stato
scavalcato. Così come erano dall’altra parte quelli degli anni ’30 che mi
dicevano di ascoltare la loro musica. Quando ascolto i nuovi dischi, mi viene da
dire: "Cazzo, ma è tutto uguale!" Poi non lo dico perché sono furbo e non
voglio farmi prendere in castagna, ma è esattamente quello che dicevano i miei
genitori a proposito della mia musica. Era inutile stare lì a spiegare ciò che
per te era evidente, e cioè che Dylan e Zappa erano lontani anni
luce l’uno dall’altro. E’ una constatazione che ti rattrista? Tutt’altro. E’ una straordinario esempio di vitalità. Io sono
nato il primo giorno di primavera, amo la vitalità, la natura, la vita che
procede comunque. Questa scena che cambia forme e modi vertiginosamente, che
mette in crisi tutto ma davvero tutto, anche l’idea di "complesso" o il modo di
incidere e veicolare i dischi, beh, è comunque uno spettacolo. La stessa cosa vale per il panorama italiano? A grandi linee sì, anche se devo confessare una cosa ovvia: io
sono sempre stato esterofilo. A parte la querelle Guccini, che mi
ha inevitabilmente segnato, la mia scelta è stata dettata anche da una
considerazione sulle "distanze". L’Italia è molto vicina, e da vicino vedi le
mediocrità, le ipocrisie. Ti capita che l’artista o l’amico ti chiedano un
favore, cogli tutte le influenze, ricostruisci il quadro fino ai particolari più
antipatici, e allora non riesci a vedere le cose con quella prospettiva
"mitologico-esotica" che a volte occorre. Sono cose che ti disamorano. Mi
piacevano di più le storie lontane, altre. Col tempo però ho capito che
nei confronti dell’Italia si doveva avere uno sguardo più educato. Per farti un
esempio: fino a Creuza de mà, ho ignorato e anche detestato De
Andrè, anche perché negli anni ’60 avevo un professore di religione che me
lo faceva ascoltare in continuazione e aveva finito per andarmi di
traverso. C’era la contrapposizione "rock contro resto del
mondo"? Esattamente. Era una contrapposizione fortissima. Nel 1981
ricordo di aver partecipato a un convegno per il Club Tenco. Avevano
organizzato un meeting del tipo "canzone" versus "rock". Adesso invitano
Roger Mc Guinn ed Elvis Costello, la cosa mi fa sorridere. Io
caddi in questo tranello, perché più che un convegno si rivelò essere una
trappola per elefanti: di quelle che i Vietcong preparavano per i marines nella
giungla. Loro ritenevano che il rock fosse l’opposto della canzone, quello che
aveva guastato il paesaggio, rovinato la vita ai poveri cantautori che
altrimenti il mondo avrebbe conosciuto e adorato. Con Creuza de mà, un
disco veramente straordinario, ho cominciato ad approcciarmi alla musica
italiana in una maniera più razionale. Mi è capitato così di guardare con altri
occhi artisti o gruppi che al tempo non consideravo. La PFM costituiva,
negli anni del loro massimo fulgore, un fenomeno contro cui cozzavo, perché
rappresentavano il progressive alla Emerson Lake & Palmer, che
non mi piaceva per niente. Però sono stati un gruppo di musicisti di alto
livello, che hanno preso la loro strada e che, una volta lontani dai riflettori
e dalle piaggerie, hanno rivelato tutto il loro valore. La stessa cosa vale per
altri, come Ivano Fossati o Paolo Conte. Poi ci sono i pochi che
ho sempre ammirato e seguito: per esempio Franco Battiato, davvero un
grande e un originale. Stai comunque parlando di artisti che hanno mosso i primi passi
negli anni ’60 e ’70. E’ vero, ma anche quando ho conosciuto più a fondo i
CSI, che sono un gruppo assolutamente "del momento", ho scoperto che
avevano più o meno la mia età e con Zamboni mi sono divertito a ricordare
un sacco di storie anni ‘70. Se ti devo parlare della nuova scena, posso citarti
i Bluvertigo, li vedo come un grande gruppo emergente anche se non è la
mia tazza di tè. Fanno una musica molto anni ’80, che non è proprio il mio
genere preferito. Però, questo è importante, la maggioranza dei rockisti
italiani contemporanei sa suonare molto meglio di quelli di 20-30 anni fa. Il
livello tecnico è cresciuto moltissimo, assieme a un gusto del disco, e
dell’ascolto del disco, che i ragazzi-musicisti degli anni ’60 non
avevano. In Paesaggi immaginari compaiono molti tuoi amori: XTC, Robyn
Hitchcock, Patti Smith, Tim e Jeff Buckley, Fred Neil, i Beatles, David Thomas
& i Pere Ubu, Tim Hardin, Robert Wyatt, Bob Dylan, Pink Floyd, Guy Clark,
Charles Mingus, La Monte Young, John Fahey e tanti altri. Del "tuo" Zappa
parlerai invece nel prossimo libro. In mezzo a queste infatuazioni, spicca la
solenne stroncatura di Springsteen. Che, guarda caso, è anche uno dei pallini
del Mucchio… Ci sono degli artisti su cui torno spesso, nel corso degli
anni, con tutti i buoni propositi: questa volta me lo faccio piacere! Mi viene
in mente Carla Bley, un mio personale tormentone. Ogni volta che esce un
suo album, mi immagino chissà cosa e credo a tutte le promesse. Poi lo ascolto,
e mi faccio due palle! Springsteen non è neanche così magico come la
Bley. Non è stato neppure una bella donna... Qualche giorno fa, alla
presentazione di Tracks, i discografici mi hanno detto che avevano deciso
di non distribuire alla stampa il cofanetto. A parte il fatto che, se non
distribuiscono certi dischi, il danno lo fanno anzitutto a se stessi, di sicuro
non comprerò Tracks. Fosse stato Bob Dylan o Leonard
Cohen…Sono disposto a box di 30 CD con mutuo a tassi d’usura. Immaginavo che amassi molto i cofanetti. Sì. La penso come John Zorn: "Cinque dischi singoli
di un artista non mi dicono niente, se li mettono in un cofanetto, devo averli a
tutti i costi". Ma Tracks non lo compro. Ho sentito qualche pezzo, mi
ha annoiato subito. Mi interessa la storia che c’è dietro, perché bene o male è
un artista che calca le scene da quasi 30 anni, ma non sono proprio in sintonia
con lui. Credo però che le cose che ho scritto su Springsteen siano
cattive ma vere, comunque difficilmente attaccabili. Il tempo è galantuomo e
sono certo che molti dei suoi fans di certi anni, specie i primi ‘80, debbano
riconoscere di avere esagerato. Che mi dici di David Thomas? E’ una passione che viene da lontano. Credo di aver fatto la
prima recensione su di lui nel 1975. Sei sempre dell’avviso che Erewhon sia un capolavoro? Sì. Lo vedo come il compimento del suo modo di "portare la
voce", iniziato con The Modern Dance. Nel contenitore "canzone",
Thomas ha sempre usato la voce in maniera non tradizionale, i suoi
vocalizzi mi fanno venire in mente certe cose di Tim Buckley, ma anche
dell’ultimo Stratos. David Thomas è un personaggio incredibile,
sarò sempre un suo fan. Citi anche una frase che ho sempre trovato particolarmente
d’effetto: "Does anybody here remember Vera Lynn?", tratto da The Wall
dei Pink Floyd. Metricamente è una frase splendida. Pura retorica a ugola
spiegata. Pascoli più Pavarotti. Ho iniziato a scrivere l’articolo
sui Pink Floyd nel 1990, pensando a questo libro. Poi i casi della vita
mi hanno fatto rimandare il progetto fino al 1998. Ero un pinkfloydiano
fervente. Li ho amati fino a Ummagumma, senza dubbio il disco della mia
giovinezza. Era il Natale del 1969, finii i Sixties ascoltando quel
doppio giorno e notte. Atom Heart Mother fu una delusione colossale. Al
tempo ero così: Hendrix sbaglia gli ultimi due dischi? Via, vendiamolo! E
la stessa cosa con Zappa, Dylan…Ho dato via certi album da mangiarsi le
mani. Fortuna che poi li ho recuperati tutti. Nel libro parli anche di Battisti… E’ un artista che appartiene profondamente alla mia
generazione. Non ho sopportato questa celebrazione assolutamente acritica e
stonata. Nessuno è uscito dal coro, dicendo ad esempio che Battisti è un
musicista fortemente ancorato al suo tempo e quindi datato, molto datato. La
genialità del suo cambio di passo è indubbia, ma allora cosa dovresti dire di
uno come Modugno? Ti ho sempre reputato uno dei pochi critici meritevoli di
essere letti non solo per la competenza, ma anche (e soprattutto) per la
costante ricerca stilistica che ti caratterizza. Penso al multilinguismo,
all’ironia, all’ordo verborum, alla legatura delle frasi,
all’assenza voluta di virgole in concomitanza con l’uso accentuato degli
aggettivi. All’aneddoto personale che, scientemente contestualizzato, assurge a
fenomeno universale. Ti ringrazio. E’ una cosa a cui tengo molto. A scuola ero uno
studente bravo ma presi un 5 in pagella, l’unico 5 della mia carriera
scolastica, perché secondo la professoressa avevo uno stile ridondante. In
effetti, da giovane ero molto barocco, retorico e un po’ teatrale, alla
Gassman: lei voleva frasi secche tipo "La mamma va al mercato. Punto.
Compra tre mele. Punto" e io non mi divertivo a scrivere così - anche se
ogni tanto anche il telegrafo va benissimo. Se devo dire la mia, mi piace
lasciare andare la penna. Credo che questo dipenda dall’influsso della beat
generation, che da ragazzo ho avidamente divorato, mescolata con letture
strane, Tommaso Landolfi in testa. Quella di Landolfi fu una
benefica febbre che mi prese intorno ai vent’anni: pensai anche di andare a
trovarlo nel suo eremo laziale, a Pico, intorno ai miei vent’anni. Ogni tanto mi
pento di non averlo fatto: se anche mi avesse cacciato a fucilate, sai che
storia da raccontare. Ho amato moltissimo i suoi libri, soprattutto i primi
degli anni ‘30, tipo Il mar delle blatte o il Dialogo dei Massimi
Sistemi. Un altro che può avermi influenzato, da tutt’altra parte dello
scrivere, è Gianni Brera. Oggi purtroppo leggo pochissimo, ma solo per
mancanza di tempo. Chi mi piace? Grandi amori disordinati; Beckett,
Chatwin, i classici greci. Ceronetti. Queneau.
Difficilmente i contemporanei. Sono questi gli autori che ti hanno maggiormente
influenzato. Sì, ma non è detto che le influenze di uno che scrive siano
solo di scrittori. La risposta più bella a questa domanda me l’ha data Ray
Davies: "Chi mi ha influenzato maggiormente? Vassilij Kandinskij, Robert
Johnson, Alfredo Di Stefano." Una risposta geniale. C’è dietro un mondo.
E i "tuoi" Pascoli e Gozzano? Pascoli è un mito, Gozzano lo cito solo
ironicamente. E’ un deteriore, un piemontese al rosolio… Le recensioni a Paesaggi immaginari sono state in maggioranza
positive. Ce n’è però stata una, su Rumore, che ha ritirato fuori un’accusa che
ti viene fatta da tempo: il narcisismo. E’ un’accusa prevedibile ma non lo condivido. Sicuramente,
Paesaggi immaginari è una critica rock molto spostata sull’io. La
stessa cosa mi capita nella rubrica fissa di Linus. Parto da un’idea
personale e mi lascio andare a monologhi interiori che vanno al di là della
critica astratta. E’ un rischio, che però corro volentieri. Se devo narrare, non
riesco ad uscire dalla postazione dell’io. La critica cosiddetta
"asettica", che ho frequentato in gioventù, quando parlavo di me in terza
persona come Pietro Mennea, non mi piace. La trovo artificiosa, finta e
comunque a me non viene. Probabilmente esiste una terza via, e magari la troverò
anche. Hai ricevuto altre critiche a cui desideri replicare ? Alcuni hanno scritto che certe parti di Paesaggi
Immaginari, compresa la stroncatura di Bowie, sono delle fisime di
Bertoncelli, magari raccontate in maniera esilarante ed effervescente ma pur
sempre fisime non spiegate. Beh, io non sono tanto convinto di non aver spiegato
lucidamente il motivo per cui Bowie (o chi per lui) non mi piace. Il
fatto che poi io ci giochi e ci ricami sopra, è un’altra storia. Quando lo
definisco "doroteo", credo di essere fin troppo esplicito. Una curiosità che ho sempre avuto. Leggi assiduamente le
riviste specializzate? Se intendi quelle italiane, no. E nemmeno quelle francesi.
Leggo Rolling Stone, ma faccio fatica a stargli dietro, nonostante la mia
velocità di lettura kennedyana. Leggevo Q, ma poi l’ho abbandonata. La
mia preferita è Mojo. Il New Musical Express, e in generale i
magazines inglesi, non mi piacciono. Hanno il loro gergo criptico, si
scrivono addosso. E poi dicono che il narciso sono io… Internet? Mi capita di usarla. Ho i miei gruppi favoriti, ogni tanto vado
nei loro siti per conoscere le ultime novità. L’ho fatto proprio ieri con gli
XTC e Robyn Hitchcock. Domani andrò a pescare notizie sulla nuova
antologia di testi di Patti Smith. Devi avere una biblioteca fornitissima. Sì, il mio archivio personale è decisamente buono. Sarà perché
faccio libri (nel senso che li curo) da più di 20 anni, ma è una cosa che ai
miei colleghi manca molto. A casa ho almeno 500 libri di rock. Non dico che ho
tutto il necessario, ma quasi. E i buchi che ogni tanto scopro, so comunque come
riempirli. Proprio in linea con questa tua propensione storicistica, mi
risulta che stai curando per Giunti un’Enciclopedia degli Anni ’80, da
affiancare a quella già edita dei ’70. Sì, anche se ci sono un po’ di difficoltà. La casa editrice
vuole che tutto entri in un unico volume, mentre i miei enciclopedisti (e io
sono d’accordo con loro) preferiscono la scelta dei due tomi. Credo però che sia
un progetto arrivato al capolinea. Le cose non andrebbero mai rifatte. Il fatto
è che l’Enciclopedia degli Anni ’80 di Arcana era così
piena di buchi che, alla fine, non vedevamo l’ora di rifarla, anzi, di cambiare
proprio radicalmente il progetto. Eravamo certi di saper affrontare meglio la
materia, ed è stato proprio così. Ma non stava tutto in quello. E’ come se
un’epoca nel frattempo fosse finita. La tua attività di editore musicale. Sei stato a lungo il
direttore editoriale di Arcana. L’esperienza Arcana è stata molto bella e romantica, ma
è finita malissimo. Ho dei brutti ricordi, anche del rancore. Doveva essere
l’amore della mia vita, ma è stato troncato di netto. Di solito cerco di non
odiare nessuno, ma quella cosa lì la odio. C’era un progetto, la possibilità di
fare delle cose belle, dopo essere cresciuti assieme. Poi qualcuno ha rovinato
tutto. E adesso, con la Giunti? E’ tutta un’altra cosa (Bertoncelli figura in Giunti come
"responsabile dell’area musicale", NdA). Sono contento di quello che faccio,
anche se non ho più la mia libertà anarchica. Allora ero un one man band,
adesso suono in un’orchestra. Facevo libri in solitudine, decidevo tutto io.
Qua, giustamente, ti devi rapportare con una struttura diversa. Ma non farei
cambi, sono contento di dove sono e di ciò che ho. E le altre cose? Non mi sembra che la recente esperienza del
Salone della Musica di Torino sia stata esaltante. E’ stato triste, soprattutto il lato fieristico. Abbiamo fatto
delle cose carine con Arto Lindsay e altri, ma a livello generale ci sono
stati molti problemi e mi sembra che tutti, specie i media, abbiano calcato su
queste cose negative anziché cercare quanto comunque di buono c’era. E poi, ho
l’impressione che ai discografici stessi non gliene freghi niente di una
manifestazione per loro così "strana". Non so quindi che futuro possa avere un
Salone così. Peccato, perché negli anni precedenti mi ero divertito e si
erano fatte cose bellissime. Come vivi il fatto di essere divenuto, dopo gli inizi
underground, una sorta di "istituzione" della critica musicale italiana? E’ una cosa che mi fa piacere. Molte persone magari vorrebbero
dire delle cose brutte su di me ma ne dicono meno di quelle che desidererebbero
perché, comunque, io vengo da prima di loro. Non c’è nessuno, tranne forse
Cesare Romana (un ottimo giornalista che non si è mai interessato più di
tanto alla storia rock), che è nell’ambiente da più tempo di me. E questo taglia
le unghie a molti. Pensi di essere cambiato, con il tempo? Ti sei
addolcito? Sono cambiato di sicuro. Lo stile l’ho un po’ asciugato, mi
documento molto di più e mi faccio più scrupoli di prima a tirare quelle
"sberle" a cui alludo favorevolmente nel libro. In passato ho liquidato fenomeni
con eccessiva superficialità. E’ chiaro che il gusto dello schiaffo rimane, è
bello sentirne anche solo il "clak", ma a volte se ne può fare a meno.
Hai detto che in passato ti è capitato di stroncare qualche
disco per poi pentirtene. Ci sono state delle volte in cui ti sei accorto di
qualche sciocchezza, ma non hai poi avuto il coraggio di ammetterlo? Sento che dovrei dire di sì, perché sicuramente è successo, ma
non mi viene in mente nessun esempio concreto. Essendo un chiacchierone, è
difficile però che non abbia poi svelato il mio errore. In Paesaggi Immaginari ammetti di essere stato troppo duro con
Desire, di Bob Dylan. E’ vero, ma è un caso particolare. Mi fa venire in mente due
idiosincrasie forti e stupidine che ho avuto in passato. Una riguardava i fiati:
per me la musica rock non doveva avere i fiati, altrimenti era "commerciale" nel
senso peggiore del termine. C’era una sottostima per il genere soul nero
che oggi non so giustificare. Non che non amassi la musica nera, per carità, non
a caso sono nato come appassionato di blues e uno dei miei idoli anni ‘60 è
stato senz’altro James Brown. Però non conoscevo quella storia nei
dettagli e mi è capitato di prendere lucciole per lanterne. Ti faccio un esempio
che ancor oggi mi dispiace, anche se nessuno me l’ha mai rimproverato. Nel 1976
curai un libro per la Mondadori, la traduzione di Rock 100, di
David Dalton e Lenny Kaye (scusa se è poco). Mi chiesero di levare
24 schede, per ridurre la mole e poter intitolare il libro Rock 76. Tra
le schede che tolsi, c’era quella di Sam Cooke. Lo conoscevo poco, e
inevitabilmente lo sottostimai. L’altra idiosincrasia riguarda la musica latina
e brasiliana in particolare. E’ dall’età di 5 anni che non sopporto i
brasiliani, o meglio, la retorica e la mitologia del Brasile. Tutto quello che
sapeva di musica brasiliana mi inorridiva, e non solo di musica. Sono un
appassionato di calcio e considero Pelé il più grande giocatore di tutti
i tempi ma ho sempre tifato Uruguay e il suo sommo numero 10 del Mundial 70,
Pedro Rocha. Una specie di antidoto al veleno auro-verde. Per tornare a
Desire, c’erano passaggi come Joey in cui comparivano non la
musica brasiliana ma fisarmoniche e violini un po’ Tex Mex. Una grande
canzone che io invece liquidai. Proposito per l’anno nuovo: basta con le
idiosincrasie. Da grande esperto del settore, pensi che sia ancora possibile
fondare, oggi, una nuova testata specializzata? Mi viene in mente l’esempio di
Blow Up, che dopo il rodaggio da fanzine ha deciso di compiere il grande
passo ed è approdata in edicola. Blow Up è un caso che si può avvicinare alla mia storia. Ne
sono lieto, perché ritengo Stefano Isidoro Bianchi una persona molto
seria. Anche lui è partito da un "eremo" provinciale (Cortona, in provincia
di Arezzo, NdA). Mi piace lo spirito di provincia, ma anche il giornale
stesso. Blow Up è un buon esempio. Sono contento di avere "discepoli" di
questo tipo. Ora che mi ci fai pensare, voglio darti un’anteprima: stiamo
preparando un libro, con Bianchi e tutto lo staff di Blow Up,
dedicato al tipo di musica trattato nella rivista. Uscirà il prossimo anno.
Questo per dirti quanto creda al loro progetto. Cosa intendi, quando parli con entusiasmo di "musica
esoterica"? "Musica per pochi", nel senso classico, greco del
termine: "qualcosa che va a pochi eletti". Non voglio metterla certo sul
piano mistico-religioso, ma questo gusto del sentire un tipo di musica "per
pochi" esiste. A volte è un gusto esagerato, della serie "meno siamo,
meglio stiamo", con la conseguente ricerca snobistica di
sotto-sotto-categorie. Però, l’idea di conoscere a fondo un personaggio
nascosto, tipo John Fahey (un’altra cosa che mi lega a Blow Up), è
molto affascinante. I suoi dischi sono per me speciali, e non mi stanco mai di
approfondirli. Altri hanno lo stesso atteggiamento nei confronti di
Ramazzotti, ma ho paura che sia una passione destinata a "seccarsi" in
fretta. E’ dall’inizio dell’intervista che volevo chiedertelo. Perché
non hai mai scritto per Il Mucchio Selvaggio? Un motivo può essere l’amicizia che mi lega a Carù. Il
giorno che inizio a collaborare con Il Mucchio, è la volta che Paolo mi
toglie il saluto. A proposito: trovo che le frecciate che il Mucchio e il
Buscadero si sono mandate per anni, siano quantomeno infantili. Ti devo
però raccontare un aneddoto. Una volta vennero da me Stèfani e il povero
Stefano Ronzani, una persona veramente straordinaria. Era il 1992. Devo
dire che rimasi colpito dall’incontro e dalla sincerità di Max. Quella
volta mi disse: "Guarda, anni fa si parlò di chiedere la tua collaborazione,
e io votai contro. Dissi che Bertoncelli non c’entrava un cazzo. Adesso ho
cambiato idea". Apprezzai la sua schiettezza. Poi, per una serie di motivi
puramente contingenti, non se ne fece di nulla. Non è detto che questo non
avvenga in futuro. Quindi è stata una scelta dettata da motivi logistici e non
"ideologici". Assolutamente sì. Per concludere, volevo un’informazione turistica: com’è Macomer
(è lì che Bertoncelli ha fatto il militare, e questa esperienza un po’
sconvolgente ritorna in molti passi del libro) ? Macomer era il buco del culo del mondo. Fort Apache. Un posto
totalmente isolato. Sembrava l’Arizona, con gli indiani e i cowboy: ma non era
un film. Una delle caserme più dure del tempo e anche un luogo dello spirito.
Con me in quel periodo ci finì anche Concato, che poi credo ci abbia
scritto un paio di canzoni. Lui però stava nell’altra compagnia e fu una
fortuna: non so se avrei retto il binomio "cantautore italiano" + "isolazionismo
sardo". Sai una cosa? Quale? Non avevo mai affrontato un’intervista così lunga. Che effetto fa? Beh, fa piacere. Ringrazio per la collaborazione Gianluca Gori
A. Scanzi; Il Mucchio Selvaggio
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