Sommario
 
 Poe: la poesia come "schizzo di un’ombra"
 
Il contesto

La vita di Edgar Allan Poe, scrittore, poeta, e saggista tra i più originali della storia letteraria americana, si consumò in un breve volgere di anni, dal 1809 al 1849. Erano gli anni in cui gli Stati Uniti d’America cominciavano a fare le prove per il loro destino futuro di grande potenza. Poe era ancora giovane quando il presidente degli Stati Uniti, Monroe, in un famoso discorso al congresso, fissava le linee di quella che passerà poi alla storia come la “dottrina Monroe” (1823): “le due Americhe, in virtù della libertà e dell’indipendenza che si sono date e che intendono conservare, non devono d’ora innanzi essere considerate come oggetto di futura colonizzazione da parte di qualsiasi potenza europea”1 . Al di là delle motivazioni contingenti che portarono Monroe a prendere questa posizione (i timori per l’aggressività politica e militare delle potenze europee riunite nella santa Alleanza), e del linguaggio generoso e liberale di cui è ammantata la dichiarazione (soprattutto riguardo agli altri stati del continente americano), la dottrina aveva un esplicito carattere di difesa, non tanto del proprio territorio - che non era seriamente minacciato - ma della propria area di espansione ed influenza. Monroe insomma contrapponeva al “sistema degli stati europei”, diretto dall’Austria di Metternich, un “sistema americano”, in cui l’egemonia del proprio paese era fin troppo ovvia.
Ma l’America era grande, e le sottigliezze politiche della capitale, Washington, si stagliavano su un vasto territorio dove l’urbanizzazione, la civiltà di tipo occidentale, e il mondo delle industrie e dei commerci si era, in molti casi, appena affacciato. A partire dalla data simbolo del 1828 - quella dell’elezione di Jackson, il primo presidente di umili origini (giunto al potere sulla base di un’immagine e di una politica sostanzialmente populiste) - si assisté, negli Stati Uniti, ad uno sviluppo contraddittorio: da un lato si rafforzarono le istituzioni ed il costume democratico, ed aumentò la partecipazione dei cittadini alla vita politica del paese, dall’altro si diffusero e presero crescente consistenza il mito e la realtà della frontiera, e con essa prese piede una pratica ed ideologia della violenza, rivolta anzitutto contro gli indiani (e gli schiavi), ma capace anche di determinare la diffusione di duelli, linciaggi, e varie forme di amministrazione sommaria della giustizia, certo molto lontane dalle consuetudini europee, pratiche poi finite, in maniera molto edulcorata, nell’epopea del West.
Gli Stati Uniti erano un paese giovane, e attraversato da laceranti contraddizioni e differenze. Vivere nel New England, ad esempio, era ovviamente molto diverso che vivere nei nuovi stati appena formati. Ma anche le città più colte ed “europee” non si sottraevano del tutto all’atmosfera generale del paese. Boston, ad esempio, la città del Massachusetts in cui Poe passò gran parte della propria vita, era considerata nel 1830 una città moderna, ed in essa vivevano intellettuali imbevuti di cultura europea, e che spesso avevano strette relazioni con i maggiori studiosi del continente. Non a caso proprio in quell’anno Boston divenne uno dei maggiori centri del movimento che si opponeva alla schiavitù.  Ma le strade di Boston, in quello stesso 1830, erano ancora comunemente attraversate dalle mandrie di bestiame, tanto che solo in quell’anno venne emesso un decreto che proibiva di portare al pascolo gli animali sul terreno del comune. ? probabilmente difficile trovare un simbolo migliore di quelle mandrie, spinte da vocianti e duri mandriani attraverso le eleganti strade di Boston, magari sotto uno dei salotti dove gli intellettuali discutevano delle ultime poesie di Coleridge, per descrivere la commistione tra elementi eterogenei e contraddittori che caratterizzò l’ambiente in cui crebbe il giovane Poe.
La vita di Edgar Allan Poe, scrittore, poeta, e saggista tra i più originali della storia letteraria americana, si consumò in un breve volgere di anni, dal 1809 al 1849. Erano gli anni in cui gli Stati Uniti d’America cominciavano a fare le prove per il loro destino futuro di grande potenza. Poe era ancora giovane quando il presidente degli Stati Uniti, Monroe, in un famoso discorso al congresso, fissava le linee di quella che passerà poi alla storia come la “dottrina Monroe” (1823): “le due Americhe, in virtù della libertà e dell’indipendenza che si sono date e che intendono conservare, non devono d’ora innanzi essere considerate come oggetto di futura colonizzazione da parte di qualsiasi potenza europea” . Al di là delle motivazioni contingenti che portarono Monroe a prendere questa posizione (i timori per l’aggressività politica e militare delle potenze europee riunite nella santa Alleanza), e del linguaggio generoso e liberale di cui è ammantata la dichiarazione (soprattutto riguardo agli altri stati del continente americano), la dottrina aveva un esplicito carattere di difesa, non tanto del proprio territorio - che non era seriamente minacciato - ma della propria area di espansione ed influenza. Monroe insomma contrapponeva al “sistema degli stati europei”, diretto dall’Austria di Metternich, un “sistema americano”, in cui l’egemonia del proprio paese era fin troppo ovvia.
Ma l’America era grande, e le sottigliezze politiche della capitale, Washington, si stagliavano su un vasto territorio dove l’urbanizzazione, la civiltà di tipo occidentale, e il mondo delle industrie e dei commerci si era, in molti casi, appena affacciato. A partire dalla data simbolo del 1828 - quella dell’elezione di Jackson, il primo presidente di umili origini (giunto al potere sulla base di un’immagine e di una politica sostanzialmente populiste) - si assisté, negli Stati Uniti, ad uno sviluppo contraddittorio: da un lato si rafforzarono le istituzioni ed il costume democratico, ed aumentò la partecipazione dei cittadini alla vita politica del paese, dall’altro si diffusero e presero crescente consistenza il mito e la realtà della frontiera, e con essa prese piede una pratica ed ideologia della violenza, rivolta anzitutto contro gli indiani (e gli schiavi), ma capace anche di determinare la diffusione di duelli, linciaggi, e varie forme di amministrazione sommaria della giustizia, certo molto lontane dalle consuetudini europee, pratiche poi finite, in maniera molto edulcorata, nell’epopea del West.
Gli Stati Uniti erano un paese giovane, e attraversato da laceranti contraddizioni e differenze. Vivere nel New England, ad esempio, era ovviamente molto diverso che vivere nei nuovi stati appena formati. Ma anche le città più colte ed “europee” non si sottraevano del tutto all’atmosfera generale del paese. Boston, ad esempio, la città del Massachusetts in cui Poe passò gran parte della propria vita, era considerata nel 1830 una città moderna, ed in essa vivevano intellettuali imbevuti di cultura europea, e che spesso avevano strette relazioni con i maggiori studiosi del continente. Non a caso proprio in quell’anno Boston divenne uno dei maggiori centri del movimento che si opponeva alla schiavitù.  Ma le strade di Boston, in quello stesso 1830, erano ancora comunemente attraversate dalle mandrie di bestiame, tanto che solo in quell’anno venne emesso un decreto che proibiva di portare al pascolo gli animali sul terreno del comune. E' probabilmente difficile trovare un simbolo migliore di quelle mandrie, spinte da vocianti e duri mandriani attraverso le eleganti strade di Boston, magari sotto uno dei salotti dove gli intellettuali discutevano delle ultime poesie di Coleridge, per descrivere la commistione tra elementi eterogenei e contraddittori che caratterizzò l’ambiente in cui crebbe il giovane Poe.
 

 

Vita e opere

In verità, bisogna subito aggiungere che la vita di Poe fu piuttosto girovaga, e non solo non può essere limitata al New England, ma nemmeno all’America, visto che trascorse da ragazzo cinque anni in Inghilterra, dal 1815 al 1820. Edgar Allan Poe era nato a Boston il 19 gennaio 1809, da una famiglia di immigrati irlandesi, la madre un’attrice di una certa fama. Anche il padre era un attore, ma se il ricordo della madre accompagnò poi con grande profondità di implicazioni e di affetti tutta la vita di Poe, l’unica eredità accertata nei confronti del padre pare sia stata la propensione all’alcool ed ai debiti, che caratterizzerà sia la vita personale di Poe che quella di molti suoi personaggi. Rimasto orfano a soli due anni, venne adottato dagli zii, i coniugi Allan di Richmond, in Virginia (la grande città dell’aristocrazia agraria del sud, che diventerà poi la capitale degli stati confederati, durante la guerra di secessione).
Negli anni trascorsi tra Richmond e l’Inghilterra, Poe acquisì una solida formazione classica, e lesse avidamente Byron, Campbell e molti altri autori recenti e contemporanei, di cui si vede una chiara eco nelle sue opere successive. Da questo punto di vista, si può sostenere che la cultura del giovane Poe, una volta tornato a Boston abbastanza stabilmente, nel 1827 - dopo una lacerante rottura con la famiglia adottiva - fosse di tipo più europeo che americano. Ma nel corso della sua carriera intellettuale, che cominciava di fatto solo allora, con la pubblicazione di Tamerlano e altre poesie, si può notare una caratteristica mancanza di equilibrio, come se i dati della raffinata formazione culturale, e in generale il campo razionale dei suoi pensieri, fossero costantemente messi in questione, ed insidiati, da forze profonde ed oscure, che lottavano per farsi strada. Ciò si fece a mano a mano più evidente, col succedersi delle sue opere, in particolare i racconti che lo hanno reso famoso come uno dei primi maestri della short story, a partire da Il manoscritto in una bottiglia, del 1832, cui fece poi seguito nel 1838 la pubblicazione della sua più lunga opera narrativa: Le avventure di Gordon Pym, cui seguirono ancora, nel 1840, i Racconti e arabeschi. Ma il successo venne solo nel 1843 con le storie Lo scarabeo d’oro e Gli assassinii della Rue Morgue, straordinarie narrazioni poliziesche e di detection, il cui successo venne confermato nel 1845, quando fu pubblicata la famosa raccolta Il corvo e altre poesie. Ad essa fecero seguito anche alcuni importanti scritti teorici, tra cui La filosofia della composizione (un’analisi “dall’interno”, pubblicata nel 1846, delle modalità di ideazione e scrittura di un componimento poetico, centrata sulla sua poesia più famosa, Il corvo) e Il principio poetico (1849). La stessa mancanza di equilibrio si riscontrò, in maniera sempre più lacerante, nel corso della sua vita, fino alla crisi finale, dovuta in parte all’abuso di alcool, che lo porterà alla morte per delirium tremens, in un ospedale di Baltimora.
 

 

La poesia come “schizzo di un’ombra”

Un racconto in cui è evidente la precarietà del dominio della ragione su fantasmi inconfessabili e profondi è senz’altro Il crollo della casa degli Usher, scritto nel 1839. In questo racconto, meritatamente famoso, il protagonista, Usher, vive in un antico maniero, in cui sta accadendo qualcosa di misterioso, che egli tiene ai confini della sua consapevolezza, non si comprende bene perché. Fin dall’inizio si moltiplicano segnali inquietanti, ma di difficile decifrazione. Nelle prime pagine del racconto, la casa degli Usher viene descritta nel suo fascino e nella sua antica bellezza, ma anche con chiari segni di decadenza, il più importante dei quali è una strana fenditura a zigzag, che corre lungo la facciata2 . Quella fenditura era destinata ad allargarsi. La verità, infatti, può essere tenuta nascosta, segregata, ma solo per un certo tempo, e solo a patto di un suo più terribile erompere, quando il precario controllo che si ha su di essa viene a cadere. Usher è consapevole della precarietà della situazione della sua casa, e della sua stessa ragione, tanto che ad un punto decisivo del racconto legge al suo ospite una rivelatrice rapsodia:
 

Il crollo del dominio del pensiero, all’apparizione spettrale del personaggio della sorella, di cui nell’ultima pagina del racconto si viene a conoscere il terribile destino (l’esser stata sepolta viva, per errore, proprio per ordine del fratello) coincide col crollo delle barriere della ragione. E questo crollo porta con sé il crollo dell’intero mondo dei fenomeni: l’intero edificio degli Usher - che allude, scopertamente,  al “palazzo nobile e bello / nelle terre del monarca Pensiero” - rovina, per sempre, e la sua gloria è ormai solo “una favola antica”3 .
In Poe ci sono molte storie come questa, in cui si racconta l’insidioso contrasto tra la forza attiva, ossessivamente ordinatrice del pensiero, e la resistenza centrifuga e disgregatrice di forze oscure e segrete, che agiscono fuori dal controllo razionale. Tutto avviene come se la verità appartenesse in ultima analisi proprio a questa misteriosa regione, ai confini della coscienza, e come se le armoniose strutture cui dà vita la zona luminosa della ragione fossero minate alla radice da una irrimediabile precarietà. La poesia diventa, in questo modo, un modo per permettere a queste forze oscure di aprirsi la strada, almeno per un attimo, nello spazio privilegiato della forma letteraria.
Bisogna intendersi, però, su che accezione dare alla parola “verità”. Se si legge la Filosofia della composizione, incontriamo un’affermazione che è di segno contrario all’interpretazione appena formulata. Lì Poe sostiene appunto (brano 1) che l’unico campo della poesia è la Bellezza, e che il poeta ha di mira come unico scopo quello di determinare appunto “un effetto”, tale che possa suscitare nell’animo del lettore appunto la sensazione della Bellezza, definita come “un’esaltazione intensa e pura della mente - non dell’intelletto o del cuore”. La Verità invece richiede una maggiore precisione, tanto che può essere raggiunta meglio con la prosa che con la poesia. E se anche in un componimento poetico essa può servire ad “illuminare o assecondare per contrasto l’effetto complessivo”, certamente va il più possibile avviluppata “nel velo di quella Bellezza che costituisce il clima e la sostanza di un testo poetico”.
Non a caso queste idee hanno suscitato l’approvazione (sia pure mista a qualche riserva) di Benedetto Croce, che ha espresso idee simili (cfr. cap. 5 di quest’antologia) nelle sue opere di estetica. Nello scritto intitolato “Intorno ai saggi del Poe sulla poesia”, Croce parlò dell’estetica dello scrittore americano in termini altamente elogiativi, appena sfumati di prudenza: “Ho stimato sempre il Poe tra i rari spiriti che penetrarono profondamente la natura della poesia, se anche la formulazione logica della sua dottrina si mostri ora a noi insufficiente”4 . Croce approvava di Poe l’idea che la poesia non abbia tra i suoi scopi quello di inculcare verità filosofiche e storiche, e che abbia invece come fine solo se stessa, come anche l’idea che nelle opere poetiche sia frammisto molto materiale estraneo all’intento poetico vero e proprio, cosa che porta a distinguere, in sede critica, tra “struttura” e “poesia”. Positiva era anche, agli occhi di Croce, la netta distinzione tra poesia e filosofia, fatta da Poe, distinzione che attribuiva a quest’ultima le caratteristiche della precisione e semplicità stilistica, ai limiti della pura referenzialità, oltre che l’oggetto specifico della verità. E questi meriti potevano senz’altro oscurare quelle che secondo Croce sono alcune grossolane ingenuità, tra cui quella di stabilire la lunghezza esatta, in versi, che un componimento poetico deve avere se vuole mantenere “l’unità di effetto”5 .
Sulla profondità dell’aderenza delle idee estetiche di Poe a quelle di Croce, però, è lecito nutrire qualche dubbio. In Poe leggiamo, in effetti di una verità che è “la soddisfazione dell’intelletto”, fatta di esattezza e precisione, che non appartiene allo specifico della poesia. Ciò non esclude affatto la presenza, evidente nelle sue opere, come dicevamo, di una verità meno intellettualistica, radicata nelle profonde regioni di quello che poi Freud chiamerà l’inconscio, una verità informe che è lo specifico della poesia. ? vero che anche in Croce si legge di una verità dell’arte come distinta da quella della filosofia. Ma nonostante la distinzione, è evidente in Croce che la verità della filosofia, una verità universale, è più alta e comprensiva di quella dell’arte, che è sempre verità individuale. In Poe le cose stanno piuttosto alla rovescia, e la verità filosofica, intellettuale, occupa una fragile regione, lungo la quale corre sempre, fin dall’inizio, una inquietante fenditura a zigzag, che farà presto o tardi strada a più autentiche realtà, certo ancora innominabili e informi, ma sostanzialmente più vere delle fragili creazioni dell’intelletto.
Una conferma indiretta di questa tesi si trova in un saggio poco noto di Poe, intitolato “Il genio è cosciente dei suoi poteri?”6  (brano 2). Si trovano in questo brano considerazioni di carattere psicologico sulla consapevolezza del genio, in base alle quali non bisogna confondere “la coscienza della superiorità che il genio possiede con l’incoscienza della causa, che ignora”. Ma la motivazione di fondo di questa coscienza riveste per noi il più alto interesse: parlando di Shakespeare, e dell’invenzione del personaggio di Falstaff, Poe sostiene che un autore di genio vede, nella sua immaginazione, un’infinità di tratti caratteristici del suo personaggio che non possono essere tradotti in forma ed in opera d’arte definita. Per questo il ritratto di Falstaff, che è capace di dare un piacere così grande ai lettori di tutti i tempi, se paragonato all’originale, che era nella mente del poeta, è “il mero schizzo di un’ombra”. Per il lettore le creazioni di un genio, che pure sono solo “tentativi di descrizione”, i quali contengono solo “sbiadite reminiscenze degli oggetti originali”7 , sono emozionanti e soddisfacenti. Ma per l’artista, che paragona la pagina scritta alle “gloriose visioni che hanno infiammato la sua immaginazione”, la forma definita procura solo “un senso angoscioso di inadeguatezza”.
Queste considerazioni, che collocano naturalmente Poe nell’ambito dell’estetica romantica del genio, sono un’ulteriore testimonianza della concezione del poeta (il poeta di genio, beninteso) come privilegiato tramite tra due mondi, con la capacità di trarre fuori, alla luce, almeno un riflesso di un mondo profondo e segreto, che costituisce la verità nascosta del nostro. Si tratta insomma di una concezione estetica che è, nella sua più riposta intenzione, intimamente platonica.
 
 
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1In D. Perkins, Storia della dottrina di Monroe, Il Mulino, Bologna 1960, p. 3.
2 “Perhaps the eye of a scrutinizing observer might have discovered a barely perceptible fissure, which, extending from the roof of the building in front, made its way down the wall in a zigzag direction, until it became lost in the sullen waters of the tarn”.
3Cfr. il bellissimo saggio di Ludovica Koch, che fa da introduzione a E. A. Poe, Filosofia della composizione e altri saggi, Guida Editori, Napoli 1986, p. 7: “La ragione vacillante tiene provvisoriamente insieme, oltre a se stessa, il mondo fenomenico: che ha finalmente il sollievo di sfasciarsi e sprofondare in macerie alla perdita definitiva del controllo, a un tempo, sulle cose e sulle idee”.
4B. Croce, Letture di poeti, Laterza, Bari 1966, p. 197.
5ivi, p. 198-200.
6In Edgar Allan Poe, Scritti ritrovati, Shakespeare and company, 1984, pp. 247-252.
7corsivo mio