Te Deum - Articoli

"Il Te Deum di Fratel Juri" (intervista), da Famiglia Cristiana n.3/1989

"TE DEUM", (recensione), da Ciao 2001 del 1989

IL "TE DEUM" DI FRATEL JURI 

Un disco straordinario inciso da un musicista che vive da nove anni in monastero

"Quando sono entrato qui", racconta Roberto Juri Camisasca, "ho detto basta, con la musica non voglio più avere a che fare. E per un po’ di anni non ho più toccato strumento. Ho sofferto, ma pensavo che la via fosse quella. Ma davvero, cancellare i doni di Dio non è la strada giusta". Il "qui" è il monastero; la "musica" è la musica; la "strada"… molto meglio che sia lo stesso Roberto a spiegarci quale sia. Qualcuno (non molti, forse, perché la fama è labile e gli anni, certi anni soprattutto, sono passati) si ricorderà di lui: la prima metà degli anni '70, certa musica d'avanguardia, Demetrio Stratos e gli Area, Franco Battiato, Claudio Rocchi, quello stesso Vincenzo Zitello che, adesso, ammirano tutti come arpista nel gruppo di Ivano Fossati. Tra loro, anche Juri ("fu Franco a chiamarmi così, perché Roberto Camisasca non si sposava bene con quella musica sperimentale. Gli amici mi chiamano tutti così. Entrando in monastero, poi, ho ripreso il mio nome di battesimo") Camisasca. I concerti, i dischi. E un disco anche adesso, uscito da poche settimane e intitolato Te Deum.

Mi hai detto che questo tuo disco è una testimonianza. In che senso e di che cosa?

"E' una testimonianza nel senso che è una lode a Dio. Se uno loda Dio, vuol dire che lo sente; e poiché nella nostra società Dio non è percepito o è considerato come qualcosa di astratto, ecco che diventa necessario dare una testimonianza del contrario. La più gran lode di Dio è, evidentemente, la vita di ognuno. Ci sono però delle forme di comunicazione che vanno al di là del gesto e della parola. Un pittore può raffigurare il tramonto ma non è il tramonto che gli interessa, bensì l'emozione che quel tramonto gli ha dato. Io penso che la musica abbia, a questo proposito, qualcosa in più delle altre arti, perché è comunicazione diretta, senza la mediazione della materia, è l'emozione stessa che si fa sentire con la vibrazione del suono. Con questo disco, insomma, ho voluto far sentire agli altri il mio rapporto con Dio"

Hai parlato di loda a Dio e di comunicazione: questo tuo disco è rivolto più a Lui o a noi ascoltatori?

"Naturalmente scattava anche la comunicazione orizzontale, perché il disco non lo facevo per me stesso ma per gli altri. Nei momenti in cui realizzavo il lavoro, però, ero in preghiera. Si tratta di trovare una zona, un angolo in sé stessi dal quale fare poi scaturire le cose. E' il discorso dell'ascesi: trovare la presenza di Dio in sé stessi. E per il cristiano è tutto qui, il regno di Dio non è una cosa che viene e che va, è in mezzo a noi, è in noi, devi solo scoprirlo. Diventa importante, dunque, quella che gli orientali definiscono "concentrazione" e che noi più spesso chiamiamo "raccoglimento": il disco l'ho cantato in questa condizione interiore".

Chiacchierando, prima, hai detto: non sono nato in parrocchia. Che cosa intendi?

"Vedi, la mia storia è lunga, e credo si debba andar piano a parlare di certe cose. In un certo periodo della mia vita, verso i 24-25 anni…"

Quanti anni hai?

"Ne ho 37. In quel periodo avevo le idee confuse. Facevo dischi, concerti, dopo il sessantotto c'era stata un'ondata musicale, ma non ero soddisfatto né di quel che ero né di come mi appariva la vita. Ho passato un periodo molto brutto, non avevo orizzonti. Poi c'è stato un intervento che mi ha fulminato, dall'oggi al domani ero un'altra persona. Ho preso ad essere sereno, la vita mi si presentava nel suo aspetto positivo. Non pensavo ancora a Dio. Ho cominciato a pensarci quando ho avuto certi segni: entravo in chiesa e mi sentivo bene. Nel caos di Milano le chiese erano per me diventate angoli in cui le persone potevano trovare un po’ di carica per vivere. E' stato molto normale, riaccostarmi a Cristo è stato come ritrovare una persona che avevo lasciato perdere, ma che non mi aveva lasciato perdere."

E la scelta del monachesimo?

"Dio non ti chiama in un monastero ma ad un cammino di conversione, il monachesimo è un fatto interiore. Io allora mi chiedevo: che cos'è questa gioia che sento dentro? Pian piano mi sono ritirato dalla vita del mondo, rimanevo chiuso in casa e pregavo, perché volevo conoscere la faccia della pace che provavo. Infine, siccome la vita della città non mi bastava più, mi sono messo alla ricerca di un luogo di silenzio, di solitudine, che mi desse la possibilità di entrare in rapporto continuo con quella realtà interiore che pensavo fosse soltanto mia. Ho scoperto in seguito che apparteniamo tutti a quell'unica realtà, siamo tutti quanti figli di Dio. Ed allora, per tornare al fatto musicale, si sente il bisogno di mettere in circolazione certe voci. Ho scritto una canzone, Nomadi, che è stata cantata da Battiato e da Alice. La più bella soddisfazione che ho avuto è stata quando è venuto a cercarmi un ragazzo che mi ha detto: grazie a questa tua canzone è scattata in me la ricerca di Dio."

Da quanto tempo sei in monastero?

"Otto anni, quasi nove."

Tutti qui a Montefano nel monastero di San Silvestro Abate?

"No, prima ho fatto quattro anni nel monastero di Praglia (Padova), per lo studio della teologia."

Che cosa ti pare, oggi, della vita del "mondo"?

"La percepisco come il soffocamento della realtà interiore. Questo non tanto per il dinamismo, per il frastuono della società, ma per la mancanza di armonia. Una persona che cerca Dio non deve stare necessariamente con le mani giunte dal mattino alla sera, la vita dell'uomo è molto concreta e comporta problemi anche grossi. Bisogna essere uomini, avere i piedi in terra, ma con le antenne rivolte verso la Fonte che dà la forza di andare avanti"

Basta ritirarsi in un monastero per arrivare a questo?

"Assolutamente. Uno può ritirarsi in un monte e vegetare come un albero. Una volta che ti sei ritirato hai a che fare con te stesso, ed è lì che cominciano i problemi. Ci sono momenti di stanchezza, di cedimento: uno può avere slanci di ascetismo per qualche giorno, per un mese, per un anno, ma quando si parla di una vita la questione diventa complessa. Nella regola di San Benedetto, il monastero è visto come palestra spirituale: devi lasciarti perdere se vuoi incontrare gli altri. La vita di ascesi può portarti fino a un certo punto, poi lì ti accorgi che non riesci ad andare oltre, e ci vuole veramente la Grazia di Dio. Uno deve prepararsi a morire, sarebbe bello arrivare in punto di morte e dire: mi abbandono a Te, così come si è abbandonato Cristo. Ma è dura, è molto difficile. Questa però è la cosa che dovremmo fare tutti, monaci e no. E' la Chiesa che conta, il monachesimo è un aspetto della Chiesa."

A che punto sei della tua strada?

"E' un momento molto particolare per me. Sto pensando di fare un altro passo, quello della vita eremitica. E' una dimensione che ho sentito molto fin dagli inizi, volevo entrare in una certosa. Poi sono successe molte cose… c'è in tutto un disegno di Dio, non può essere altrimenti. E' finito che in quella certosa, a Farneta (Lucca), non ci sono entrato. Mi dissero: è difficile, prova prima da qualche altra parte. Ed è stato un bene: la vita di comunità ha lavorato su di me in maniera determinante. Se mi fossi ritirato in un eremo nove anni fa, penso che sarei partito per la tangente. La vita eremitica è durissima, se non si hanno i piedi per terra…Intendo con questo la consapevolezza di certi problemi che solo convivendo con gli altri si può ottenere. Ora, però, mi sembra di avere necessità di recuperare un altro aspetto, quello della solitudine e del silenzio".

La solitudine, il silenzio: e la musica?

"Ho ripreso la musica, la chitarra, facendo qualche canzone per il compleanno, l'onomastico, la professione di fede dei confratelli. L'ho ripresa con più lucidità. Penso che ogni tanto si possa suonare: per pregare. C'è un tipo di preghiera che consiste nell'entrare in contatto con Dio, sentire la Sua presenza. San Paolo dice che quando preghi è lo Spirito Santo che sta pregando dentro di te. Per arrivare a sentire questo, però, bisogna andare al di là di se stessi, oltre il proprio io. La musica ha, secondo me, una forza straordinaria in questo senso: seguendo il suono, arrivando al contatto del suono, diventando tutt'uno con il suono, puoi andare al di là del pensiero ed avere un rapporto molto forte con lo Spirito. Quando San Francesco diceva "Fratello Sole, Sorella Luna" o parlava con gli uccelli, sentiva la relazione che c'è fra tutte le creature. Questa relazione è la presenza di Dio nella creazione. La musica è un mezzo di contatto con la dimensione più profonda della nostra coscienza".

Roberto Juri ha scritto il suo Te Deum secondo i canoni musicali gregoriani, con un testo del VI° secolo. Alla stessa tradizione sacra appartengono i canti (O Redemptor, Cantate Domino, Victimae Paschali Laudes) del secondo lato del disco. E' un ascolto emozionante. L'avreste detto che è tutto inciso con l'elettronica e il computer?

Intervista a cura di Fulvio Scaglione

Torna su

  TE DEUM (L’Ottava)

(P.Caff) - Scrivono le enciclopedie che Roberto “Juri” Camisasca, dopo un interessante LP sperimentale (“La finestra dentro” del ‘74), sarebbe sparito dalle scene senza lasciar tracce. La frase, spesso un alibi per coprire la disinformazione del compilatore, va stavolta interpretata alla lettera: folgorato da crisi mistica, Camisasca ha infatti preso i voti entrando nell’ordine monastico dei benedettini; le cui regole ovviamente impongono discrezione quando non addirittura clausura. Però non ha dimenticato le origini di artista (an­che figurativo: l’icona di copertina gli appartiene); così l’antico mentore Franco Battiato, dopo aver inserito la sua “Nomadi” all’interno di “Fisiognomica”, ora inaugura con lui la nuova etichetta discografica gestita in proprio.

Da un simile personaggio non poteva che scaturire un disco pio e laudatorio, e tale “Te Deum” è. Ma Juri lo ha realizzato nella forma più nobile, scartando in un sol colpo fanatismi, obsolescenze e profanazioni che - per un verso o per l’altro - quasi sempre affliggono questo tipo di produzione. E’ risalito direttamente alle fonti della musica liturgica cristiana, al canto definito gregoriano (periodo di maggior gloria fra il VII e l’XI secolo); ne ha rivestito la tradizionale nudità della monodia latina con tastiere elettroniche, affidate a Filippo Destrieri, e cori di solare bellezza; e parte riadattando parte componendo ex-novo lo ha inserito in un lavoro etereo e sublime, tene­ro e solenne. Si affidasse più spesso a mes­saggeri così, la Chiesa - crediamo - potrebbe cominciare a risolvere l’endemica carenza vocazionale.

Lato A: Te Deum.

Lato B: O Redemptor, Cantate Domino, Vicrimae Paschali Laudes, Alleluia.

Torna su

Indice articoli Su La finestra dentro Su Il carmelo di Echt Su Arcano Enigma Vari