Modelli ed esperienze della prosa contemporanea: Achille Campanile

Geno Pampaloni

Storia della Letteratura Italiana, Tomo II
Garzanti, 1987

Achille Campanile è stato per molti anni un avanguardista in incognito. Del resto amministrò il suo ingegno nel più grande disordine, scrivendo incontenibilmente per i giornali, per il teatro, tentando romanzi di intreccio inadatti alla sua natura, con abbondanza che era segno di vitalità ma non di autocontrollo. Di fatto egli deve molta dell'autorità acquistata negli ultimi anni della vita a Ionesco, che lo riconosceva maestro e gli assegnò cittadinanza europea tra gli scrittori dell'assurdo; ed anche al revival degli studi sulle avanguardie storiche che hanno messo in luce qualche affinità tra i suoi giochi verbali e i futuristi.
La sua "geniale idiozia", il suo modo di frequentare l'assurdo, egli l'aveva inaugurato negli anni venti. Il suo assurdo, inoltre, era di natura singolarissima; non era di natura onirica, ossessiva o liberatoria, come nei surrealisti; né vòlto al rifiuto, alla negazione come quello di Dada; era foggiato sul non senso, e quindi fondamentalmente verbale, linguistico. E' questo l'aspetto più rilevante della sua modernità, che ha fatto sì che egli si sia trovato con disinvolto anticipo all'appuntamento con l'attualità di oggi.  Il suo umorismo si svolge, come disse Montale, nella «vena dell'umore idiota», «nell'ordine cinematico del grottesco»; non è mai direttamente polemico con la realtà; è semplicemente «altro».

Il suo comico non nasce tanto dalla «situazione», quanto nello scaricarsi fulmineo, imprevedibile come un cortocircuito, nell'assurdo verbale. Così intricata, allusiva, formicolante di segni ambigui, di doppi e tripli sensi, di falsi allarmi, di trabocchetti, labirinti ed equivoci, è la convivenza sociale, che il non senso è già di per sé un sovrasenso. Sotto la battuta, pungeva la satira, la critica. Ma era una critica così radicale che al tempo stesso era bonaria, polivalente, eternamente pret à porter, onnipresente e inafferrabile. «Ogni verità è superflua - scrisse Pancrazi - ; l'umorismo resta solo, è a un tempo soggetto e oggetto di sé, si nutre di niente, o meglio, come il mitico serpe, si rivolge su di sé e si distrugge ingoiandosi».

Il meglio di sé Campanile lo ha dato quando riesce a far scaturire congiunti umorismo ed assurdo direttamente dai cunicoli del linguaggio: le Tragedie in due battute (1978, raccolta postuma di testi dispersi, scritti lungo molti decenni) e Vite degli Uomini Illustri (1975), ove, partendo da frasi celebri (per esempio il «So di nulla sapere» di Socrate) Campanile demitizza il linguaggio inteso come una realtà oggettiva, un evento naturale e ne mostra la vertiginosa relatività, l'infinito retroterra umano che occorre percorrere per tentare di arrivare al suo significato. Libri di un grande minore europeo, il cui valore non è ancora del tutto riconosciuto.