Formare è possibile?

 

“Verso quale formazione a servizio della fede?

AIca La situazione della formazione a livello ecclesiale”

convegno AICaVitorchiano 14-16 settembre 2003

[pubblicato in Settimana 2003, 35, 8-9]

 

            La domanda provocatoria è risuonata sin dall’inizio tra i partecipanti nell’annuale appuntamento dell’Associazione Italiana catecheti (AICa) e non ha mancato di suscitare reazioni, dibattito appassionato e critico.

            L’ordine del giorno del convegno di quest’anno è una tappa di un percorso di riflessione e ricerca che ha caratterizzato l’AiCa sin dalla sua costituzione. La diffusa attenzione al tema della formazione nel nostro contesto socio-culturale ed ecclesiale motiva un interrogativo così dirompente.

            Che in campo formativo ci fosse bisogno di un cambiamento di rotta e di prospettiva, verso una più marcata e consapevole attenzione alla persona colta nel quadro di riferimento dell’antropologia cristiana, già si era preso atto nel convegno dello scorso anno su ‘alterità e catechesi’[1]., ora il tema si fa più esplicito articolato.

 

            1. La memoria delle scelte della CEI

 

            Il primo intervento è stato affidato a G. Barbon e R. Paganelli, i quali a due voci hanno avviato la riflessione ripercorrendo le scelte formative della chiesa italiana dal post-concilio ai nostri giorni, evidenziandone snodi, punti critici e tendenze. Un servizio alla memoria ecclesiale necessario per fare il punto della situazione e contestualizzare il contributo del convegno.

            La non banale constatazione della complessità che caratterizza il nostro tempo, e in esso l’idea stessa di formazione, porta con sé l’istanza della ridefinizione dell’oggetto stesso dell’azione formativa, catechesi e formazione dei catechisti incluse.

 

            La situazione formativa ecclesiale è stata delineata tratteggiando le scelte della chiesa italiana in ordine alla formazione dei catechisti. E’ emersa la fondamentale importanza dei convegni dell’UCN  e i due convegni nazionali dei catechisti del 1988 e del 1992, che avevano espresso rispettivamente la necessità di formare catechisti per una chiesa missionaria e accompagnatori di adulti, auspicando la formulazione di orientamenti per itinerari formativi diversificati.

 

            Parallelamente le inchieste, quella del GIC (Gruppo Italiano catecheti) della fine degli anni ’70 e quelle dell’UPS del 1982 e del 1996, evidenziavano come, rispetto al compito formativo che appariva sempre più urgente, la comunità ecclesiale era percepita scollata e lontana (anni ’70); disinteressata e con una visione ecclesiale verticistica (anni ’80); stanca, distratta e addormentata (‘anni ’90).

            La formazione catechistica, pur caratterizzata dal rinnovamento, rimaneva nella prassi di tipo espositivo dottrinale, sganciata dagli altri momenti della vita della comunità e orientata alla sacramentalizzazione.

 

            Nel frattempo i documenti sulla formazione dei catechisti del 1982, delineava la formazione dei catechisti come orientata all’acquisizione di una piena maturità umana e cristiana, e di una competenza ‘professionale’ nel compito di annunciare la Parola[2]. A distanza di vent’anni quel documento lascia intravedere due limiti: circa la formazione dei catechisti teoricamente prende le distanze dalle scuole di teologia, di fatto trascura di dare nuove indicazioni di metodo, lasciando così che la formazione fosse realizzata mediante corsi e lezioni frontali di teologia, al più con aggiunte di nozioni pedagogiche e didattiche. Il secondo limite deriva dall’aver trascurato totalmente la figura del formatore e del docente dei corsi per catechisti.

            Per dare ulteriore impulso alla formazione, l’UCN nel 1991 pubblicò un sussidio pastorale per la formazione dei catechisti a completamento di quello precedente[3]. Indubbiamente questo documento segna un salto di qualità: vi si nota una maturazione del concetto di formazione, in particolare quando ne presenta la duplice dimensione: la promozione di identità cristiane adulte (il catechista come credente), e di persone con competenze specifiche in ordine alla comunicazione della fede. E’ qui che avviene qualcosa di nuovo: l’asse di interesse si sposta dai contenuti teologici a quello della comunicazione della fede, come specifico della competenza catechistica[4]. Ma anche questo documento passa sotto silenzio il problema dei formatori dei catechisti.

 

            Nel 1999 una rilevazione non scientifica della prassi catechistica nelle diocesi ad opera delle commissioni catechistiche regionali rilevava una diffusa paura dell’esperienza a beneficio della formulazione logica dei contenuti; una comunicazione unidirezionale incapace di produrre integrazione con la vita; una catechesi autoreferenziale, isolata ecclesialmente e culturalmente. Era lo specchio di una comunità che faticava ad assumere il carattere estroverso del suo Dio, restando bloccata su un impianto formativo adatto a produrre catechisti ripetitori e una catechesi di ripetizione, ben lontana dall’essere capace di gestire la transizione e il cambiamento.

 

            Il contributo di Barbon e Paganelli, infine si è soffermato a delineare gli attuali bisogni formativi dei catechisti sia dal punto di vista dei destinatari, che della comunità ecclesiale committente. Sono stati individuati un bisogno di preparazione (spirituale, biblico-teologica, psico-pedagogica, relazionale, metodologica), di sostegno (spirituale, culturale, metodologico), di accompagnamento (iniziale, occasionale, continuo). Dai bisogni formativi si evincono, così, le nuove figure formative che: sostengono la formazione, orientano il discernimento, accompagnano il cammino e il rinnovamento. Allo stesso tempo appare urgente un progetto formativo adeguato, che abbia chiara la committenza e che coinvolga tutta la comunità; un progetto che: sceglie l’apprendimento adulto, non chiuda ma apra all’autoformazione e alla formazione continua, capace di rompere un quadro cognitivo per ricomporlo in uno nuovo, assuma una modalità dinamica e differenziata, favorisca un modo di apprendere creativo e flessibile, sia collegato e a servizio del progetto pastorale della chiesa locale.

 

            2. E’ possibile formare?

 

            Non si è sottratto alla provocazione il Prof. D. Lipari[5] il quale attraverso tre passaggi ne ha tentato una risposta.

·        Innanzitutto ha ritenuto di puntualizzare il senso dell’agire formativo, mettendo in evidenza una questione di linguaggio. Si è chiesto se abbia ancora senso servirsi della categoria concettuale formazione, in un tempo in cui si valorizza la conoscenza innovativa, legata alla capacità e alle risorse locali di gruppi e organizzazioni. La questione posta, supera i meri confini lessicali, per individuare piuttosto la inadeguatezza espressiva della realtà cui si riferisce. ‘Formare’ allude alla trasformazione, talvolta persino violenta, di un soggetto. Appare più utile l’altra categoria, apprendere, a partire dalla quale si rivaluta la dimensione soggettiva e relazionale e, ad un tempo, ci aiuta a mettere in luce come, in tale processo trasformativo, sia rilevante e determinante l’interazione tra i soggetti, senza che alcuno possa pretendere di ‘violentare’ un altro, anche se avesse una qualche autorità.

Lasciando interagire alcune istanze di Varela, Dewey e Gadamer, il prof. Lipari ha sottolineato come il sé cognitivo di una persona non è una unità fissa e stabile, ma una combinazione instabile e transeunte, in rapporto a sollecitazioni interne ed esterne. Le caratteristiche di flessibilità appaiono così chiare ed evidenti, al punto da imporre la piena assunzione, nel processo trasformativo, della dimensione esperienziale del soggetto. Questa, infatti, si rivela cruciale nella definizione dell’identità soggettiva, che si manifesta in forme temporanee di unità del sé. E’ questo bagaglio di conoscenze/esperienze che permette al soggetto di stare al mondo, ne orienta la pratica, che a sua volta interagisce e influenza la conoscenza producendo nuova esperienza. Qui si fonda la necessità di strutturare le teorie convalidandole di continuo con un processo di verifica, di prova e di nuova situazione problematica.

      Se il modello dell’indagine di Dewey (1938) ha sostenuto molti autori nella descrizione del processo di apprendimento, che, così tematizzato, altro non è che una apertura al mondo e all’altro, la prospettiva ermeneutica di Gadamer indica che un tale processo è fondato dialogicamente, poiché gli attori del processo costruiscono insieme l’oggetto della conoscenza. Apprendere è apprendere insieme.

      Dunque l’apprendimento è un atto interpretativo, che si rapporta ad un determinato oggetto, in una dinamica relazionale realizzandosi in tutti gli attori. L’apprendimento è al tempo stesso soggettivo, relazionale, trasformativo (si tratta di una circolarità processuale legata ad una esperienza), con un carattere di unicità difficilmente riproducibile o programmabile in serie. La ‘formazione’ elaborata per ogni luogo e ogni gruppo mostra qui tutto il suo limite e non senso. E’ urgente, pertanto, rivisitare le didattiche e dare un senso pertinente all’agire formativo.

 

·        Interrogando la tradizione formativa è possibile cogliere le caratteristiche delle pratiche formative consolidatesi e intelligibili attraverso tre paradigmi:

·        Il paradigma meccanico o modernista delineatosi all’interno di una cultura deterministica della formazione, di stampo tayloristico e fordista. L’uomo è considerato prolungamento della macchina, piegato alle esigenze dell’organizzazione e alle disposizioni dei managers. La formazione è un adattamento all’organizzazione, un addestramento al compito, un indottrinamento, è snodo cruciale nel processo produttivo. Le figure formative sono gli istruttori. Talvolta  anche operai di esperienza che addestrano i più giovani.

·        Il paradigma organico:si apre a concezioni più duttili per superare la frattura tra uomini ed organizzazioni recuperando la riduzione degli attori a mere funzioni meccaniche E’ questo il tempo in cui le organizzazioni fanno i conti con l’ambiente, la sua crescente complessità e instabilità, con i relativi problemi di adattamento e concorrenza. Le organizzazioni sono interpellate dalle domande dell’ambiente esterno, cui devono continuamente dare risposta. In questo contesto il ‘formatore’ è chiamato ad avere specializzazioni ampie e differenziate.

·        Il paradigma simbolico: la rapidità dell’innovazione, il complicarsi dell’economia, la crescita di importanza del coordinamento cambia il contesto e le sue articolazioni quantitative e la sua natura qualitativa. L’instabilità dei mercati, l’aumento degli scambi istituzionali rendono decisiva per ogni organizzazione la capacità di innovazione e trasformazione. Tutto si gioca sul piano delle conoscenze, diventano determinanti le risorse umane, il capitale intellettuale, la capacità riflessiva, l’apprendimento, l’autoformazione, l’apprendimento cooperativo, la ricerca. Emerge, cioè, una logica nuova: le organizzazioni danno attenzione alla realtà e alle conoscenze locali, si orientano verso una rilevanza degli aspetti simbolici della vita, dell’esperienza e dell’autonomia dei sottosistemi. In questo contesto il ‘formatore’ è un manager dell’apprendimento, un facilitatore, un maieuta che cura il processo di apprendimento.

In sintesi. Alla domanda “è possibile formare?” il paradigma meccanico risponde di sì in modo assoluto; il paradigma organico risponde si in modo temperato; mentre quello simbolico opera un continuo passaggio dal formare all’apprendere, lasciando aperto a nuove frontiere la riflessione.

Guardando in prospettiva si tratta di ri-contestualizzare il processo formativo, dove il con-testo è ciò che è stato costruito insieme mediante dinamiche di costruzione/decostruzione degli elementi che costituiscono l’esperienza, verso contesti più fluidi e cangianti. Configurato così, il ‘processo formativo’ lascia intravedere le ragioni della perdita di significato del bagaglio concettuale e terminologico classico. Oggi usiamo il termine ‘formare’, ma con significati diversi, per realtà cambiate. E’ necessario rielaborare e reinventare il bagaglio ereditato dalla tradizione.

In questo tentativo appare più idoneo l’uso del concetto di apprendimento, poichè consente di attivare la coscienza soggettiva/intersoggettiva in cui l’azione è caratterizzata da riflessività; è in grado di interrompere la routine e di interrogare il senso, e il soggetto è libero di re-inventare e innovare in relazione con altri soggetti. Si rende così possibile l’auto-formazione, quale processo non consapevole, ma parte integrante ed esito dell’esperienza riflessa. Così una organizzazione si caratterizza come ‘comunità di apprendimento’. E’ questo il nuovo orizzonte della ‘formazione’.

 

3. Dalla riflessione comune

Su queste proposte il convegno ha dispiegato la sua riflessione attraverso 5 percorsi di approfondimento e di ricerca:

a) aspetti antroplogici della formazione: sottolineando una diffusa carenza e disattenzione su questo tema nell’attuale scenario teologico e pastorale;

 b) la formazione come comunicazione interpersonale: che è vera e autentica solo quando è rispettosa dei soggetti; promuove l’autoformazione; comprende la dimensione testimoniale e relazionale della fede. Ma è emersa  la domanda se le stituzioni che organizzano la formazione hanno in sé la consapevolezza che la ‘comunicazione interpersonale’ possiede in sé il processo formativo; la sanno integrare in un linguaggio adatto ai soggetti; promuovono l’apprendimento cooperativo dei soggetti in formazione.

 c) la formazione tra narrazione e (auto)biografia: resta un dato acquisito che il processo di apprendimento degli adulti passa attraverso la loro storia, la loro vita, ciò che fanno. Un tale approccio (auto)biografico contribuisce in modo forte a risanare l’antica spaccatura tra fede e vita, riconsiderando la vita nel suo scorrere. Certo, sul piano di contenuti permane il rischio di una auto-referenzialità del processo formativo, così come non sono rare le ristenze del soggetto in formazione.

 d) riconsiderazione degli elementi strutturanti il processo formativo catechistico: tra gli elementi strutturali relativi al progetto formativo vanno considerati: la memoria dell’evento che ha aviato il Rinnovamento della Catechesi, e cioè il Concilio, un certo orientamento tra le parole d’ordine della questione (iniziazione, catecumenato, formazione, catechesi… talvolta si utilizzano in modo improprio, confuso, sovrapposto), il confronto tra i vari ‘laboratori formativi’, la questione epistemologica della catechesi, considerata ancora disciplina applicativa dei più grandi saperi teologici. Sul piano dei processi formativi, è stata espressa una unanime condivisione del paradigma simbolico, descritto nella reazione del prof. Lipari,  rimarcando alcuni aspetti, quali: la posizione del soggetto rispetto al processo formativo, le energie mobilitate, la componente emozionale, il fattore relazionale.

 e) ipotesi per una rivisitazione dell’itinerario catechistico: E’ stato riaffermato con forza l’orizzonte tracciato dal Documento Base, quale retroterra indispensabile per ogni proposta formativa in catechesi. Su questo sfondo sono state avanzate alcune denunce: la distanza tra le indicazioni del magistero e la prassi formativa in atto; il fallimento di tale prassi; la fatica di ripensare i percorsi formativi (Cf. la formazione nei seminari e negli istituti teologici), l’urgenza di un investimento formativo sugli operatori pastorali, le tentazioni di ‘riflusso sacramentario’ nella catechesi.

A questi nodi critici si aggiungono alcuni punti di non ritorno: il recupero della prospettiva dell’evangelizzazione, la necessaria conversione pastorale, la scelta degli adulti/famiglia, gli itinerari differenziati, il nuovo paradigma in formazione.

 

      Accogliendo le istanze emerse nei due interventi, si sono aperte domande e suggestioni: L’accostamento dei termini ‘formazione’ e ‘catechesi’ rimanda non tanto e non solo ad un rapporto pratico-funzionale (quasi che la formazione fosse una tecnologia a disposizione della catechesi), piuttosto si colloca al livello fondativo della  catechesi stessa.  Si intuisce che è qui in gioco l’antica questione del rapporto tra persona e contenuti. Il soggetto non è più una variabile del processo catechistico, ma è egli stesso ‘luogo e risorsa formativa’, e questo rappresenta un nodo cruciale di trasformazione per gli ambienti ecclesiali. Su questa scia il dibattito ha rimarcato anche una sorta di ‘crisi di rilevanza’ della catechetica sia sul piano della riflessione teologica che nella collocazione dei piani di studi delle facoltà e istituti teologici.

La domanda è se la ‘formazione’ possa rappresentare il quadro epistemologico di riferimento della catechesi stessa, dentro una più ampia riconsiderazione della teologia pastorale. L’individuazione delle logiche formative, a partire dalle metafore organizzative, infatti, ha dato modo di sottolineare l’intima implicanza tra contesto comunitario, processi comunicativi e processi formativi. Non sarebbe possibile ripensare alcun processo formativo se non dentro una più ampia rivisitazione dell’esperienza comunitaria ecclesiale.

 

L’altro interrogativo riguarda una formazione affidata alla intenzionalità di obiettivi, contenuti, sequenze logico-tematiche. E’ sotto gli occhi di tutti, il fatto che questo tipo di proposta formativa non ha dato i risultati sperati. L’esigenza di innovazione è, dunque, nella realtà delle cose. Ma appare altresì evidente che vi sono molte resitenze rispetto alla scelta di una scommessa formativa giocata sulla persona, così come non elimina nodi critici che rimandano a ulteriori approfondimenti e confronti: che fine fanno gli obiettivi nel processo formativo in catechesi? Se l’obiettivo è la ‘sequela Christi è possibile disattenderlo o passarlo in secondo ordine? Il modello formativo emergente riguarda l’iniziazione cristiana o la  socializzazione religiosa?Se la domanda formativa è legata alla libertà di scelta del soggetto, come evitare l’esito di una chiesa di élite?

Nonostante gli interrogativi, il convegno, però, ha espresso una convinzione: la scelta della centralità della persona  nel processo formativo. E questa non è mai intesa in contrapposizione a quella del contenuto; piuttosto la comprensione del soggetto in formazione, quale persona capace di alterità, di relazionalità, di conoscenza e affettività, di emotività e interiorità fa sì che il processo formativo si configuri come un com-prendere dentro di sé il contenuto di fede eleborando ermeneuticamente una propria identità credente alla sequela di Cristo.

 

 

                                                                                  Savino CALABRESE



[1] Cf AICa, Alterità e catechesi, LDC, Leumann (To) 2003.

[2] CEI – COMMISSIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE E LA CATECHESI, La formazione dei catechisti nella comunità cristiana. Orientamenti pastorali, Roma 1982, in ECEI 4/524.

[3] CEI-UCN. Orientamenti e itinerari di formazione dei catechisti, EDB, Bologna 1991.

[4] “Proprio questi due versanti della formazione dei catechisti domandano che le scuole di formazione abbiano il carattere di comunità-laboratorio, ove assieme si apprende, si riesprime e si progetta secondo itinerari formativi, ci si catechizza reciprocamente e ci si rende attenti a ciò che accade effettivamente nella catechesi in atto”. Ibid.

[5] Membro del FORMEZ di Roma e autore del recente Logiche di azione formativa nelle organizzazioni, Guerini, Milano 2002.