Nacque a
Nuoro il 27 settembre 1871 e frequentò le classi elementari, le sole esistenti
allora nella sua città. Il padre, uomo di modesta cultura, si era formato una discreta
posizione economica come impresario di lavori stradali e come commerciante di
potassa, che si otteneva allora dalla combustione del legname.
Ancora adolescente la Deledda,
seguendo in campagna il fratello Andrea che dopo la morte del padre si era dedicato
all'amministrazione del patrimonio familiare, poté nutrire la sua fantasia a
contatto con la natura e formarsi un'esperienza dell'arcaica società pastorale.
La sua vita si svolgeva tra le frequenti evasioni delle passeggiate con il
fratello e la lettura intensa ed appassionata dei romanzi d’appendice e della
tarda narrativa romantica, senza un ordine ed un indirizzo preciso. Cominciò
allora a scrivere ed a spedire ai giornali le sue prime novelle, dove
predominavano il tema amoroso e quello della vendetta (Racconti
sardi, 1894). Sangue sardo apparve nel luglio 1888 in
"Ultima moda". Nel 1890 uscì per l'editore
Trevisini la raccolta Nell'azzurro.
Finalmente nel 1895 uscì con
la prefazione di Ruggero Bonghi il suo primo vero romanzo, Anime oneste. Il successivo romanzo, La via del male (1896), improntato a un populismo
anarcoide e che rivela l'influsso
del Dostoevskij di Delitto e castigo, ebbe una recensione di L. Capuana
che la introdusse presso il pubblico dei letterati.
Le sue opere, che rispecchiavano
il piccolo mondo nuorese, suscitarono presso parenti ed amici uno scandalo e la
Deledda fu indotta a rinunziare ai temi e ai paesaggi sardi. Così ne scrive al
critico e giornalista Santis Manca: "...I
primi bozzetti che scrissi, furono sardi, puramente sardi i personaggi, i
caratteri ritratti dal vivo, come più e meglio potei nella mia debole fantasia
dei sedici anni. Credevo di fare onore e piacere ai miei compatrioti e mi
aspettavo da loro chissà ché; si figuri il mio dolore, il primo dolore che provai
allorché, comparsi alla luce quei racconti, per poco non venni lapidata dai
miei conterranei. Si pretese di conoscere i tipi e si volle che i miei
personaggi fossero vivi, benché taluni morti decisamente nei bozzetti; e questi
eroi offesi, esasperati, non potendo sfidarmi a duello mi coprivano di
maldicenza, di ingiurie, di ridicolo, arrivando persino a dire che altri
scriveva nell'ombra ed io non facevo che firmare, tanto che il mio povero io,
piccola e fragile creatura che non aveva mai fatto male ad alcuno, provò tale
dispiacere, tale disillusione, da caderne quasi ammalata" (Lettera dell'8
giugno 1891, riportata in COSIMA). Da allora la feconda vena della sua
fantasia fluì per l'intero arco della sua vita. Nel gennaio del 1900 sposò
Palmiro Madesani, e nel marzo dello stesso anno, si stabilì con il marito,
funzionario ministeriale, a Roma. Non trovò quella vita aristocratica e mondana
che aveva sognato da ragazza, allorché era infatuata dalle opere di D’Annunzio
e si rifugiò nella quieta intimità familiare vivendo appartata e schiva di
ogni mondanità.
Con Elias Portolu (1903), un romanzo caratterizzato
dall'arcana raffigurazione del paesaggio sardo, dal conflitto dei personaggi tra
peccato e purezza, tra anarchica ribellione e biblica rassegnazione, dove si
descrive la storia d'amore di un ex detenuto per la cognata, la scrittrice
creò un primo capolavoro, nel quale il tema del conflitto fra peccato e
innocenza si dipana sullo sfondo dell'aspro paesaggio sardo. Una
Sardegna rivissuta miticamente, allucinante e magica, fa da sfondo anche ai
volumi successivi (tra i quali Cenere, 1904; L'edera, 1906; Colombi e
sparvieri, 1912; la raccolta di novelle Chiaroscuro, 1912). Il
successivo romanzo, Canne
al vento (1913), denuncia l'ineluttabile fragilità dell'uomo travolto da
una sorte cieca e spietata, mentre La madre (1920)
scandaglia la relazione fra un sacerdote e sua madre. Già Cenere, da cui fu tratto nel 1916 un film
interpretato da Eleonora Duse, aveva affrontato il tema di un rapporto filiale.
Scrisse anche due testi teatrali, L'edera (1912) e La grazia (1921).
Non si
mosse dall'Italia fino al 1926, anno in cui si recò a Stoccolma per ricevere il
Premio Nobel.
Il
premio coronava un'attività letteraria che ormai comprendeva anche: Il nostro padrone e Sino al confine (1910); Marianna Sirca (1915); L'incendio nell'uliveto (1918); Il segreto dell'uomo solitario (1921) e inoltre varie
raccolte di novelle che aveva via via pubblicato su quotidiani e riviste. Anche
quando era ormai stremata da un tumore, scrisse Annalena Bilsini e Il
vecchio e il fanciullo, che sono tra i suoi ultimi romanzi e che
segnano una crisi e senza dubbio un cedimento. Ma lavorava frattanto al suo
libro autobiografico, Cosima, il
capolavoro, che uscì postumo.
Morì a Roma il 15 agosto 1936.
Nelle opere di Grazia Deledda una tematica ricorrente è l'amara
consapevolezza dell'ineluttabilità del destino. Una straordinaria consonanza
fra personaggi e luoghi, fra lo stato d'animo dei protagonisti e la terra sarda
presentata in veste mitica è un altro tratto distintivo della sua narrativa,
che è stata accostata talora al verismo e talora al decadentismo, ma in realtà
sfugge a una catalogazione precisa e merita un posto a sé nella nostra
letteratura.
Molto discussi dai critici
sono la collocazione storica della Deledda, tra verismo e decadentismo, e il
giudizio di valore sulla sua produzione. Si deve a Croce una decisa stroncatura
della scrittrice, considerata autrice di romanzi di “letteratura amena”. La
Deledda fu invece apprezzata dai critici del decadentismo, come Emilio Cecchi,
che ravvisò nella sua opera “un'aura d'incantesimo”, e da Attilio Momigliano
che la isolò sia dal decadentismo sia dal verismo per darle un posto a sé nella
nostra letteratura e accostarla ai grandi romanzieri russi. La critica più
recente ha riconosciuto la componente veristica dell'arte della (ma si tratta
di un verismo privo della poetica dell'impersonalità e dell'impegno sociale) e
insieme ha constatato la presenza di una problematica spirituale e di un
lirismo che rientrano nella sensibilità decadente. Per il teatro la Deledda
adattò (1909), in collaborazione con C. Antona Traversi, il romanzo L'edera. Di
un altro romanzo, Cenere, il regista F. Mari realizzò (1916) un film
interpretato da Eleonora Duse.
IL CINEMA
DELEDDIANO
La Deledda oltre a collaborare con i giornali - tra i quali Il Corriere della Sera, il più famoso quotidiano italiano - e riviste, punto di riferimento per la nascente "cultura femminile", fu amica di importanti critici e uomini di cultura influentissimi come Emilio Cecchi; la scrittrice si confrontò spesso con il teatro, per il quale, oltre a ridurre L'Edera, e a concedere i diritti di riduzione per varie novelle (ad esempio Di notte, che, con il titolo La grazia, che passò prima nel teatro musicale, poi, nel 1929, al cinema) scrisse anche dei testi originali (Odio Vince, A sinistra), poi rappresentati con successo. Questa preferenza per la scena può anche essere indicativa di quella diffidenza nei confronti del potere del cinema di ridurre o annullare l'identità degli autori dei testi: difatti il teatro, secondo l'opinione generale, era ancora un'arte con un suo pubblico di un certo livello culturale e non già il prodotto di un’industria mercantile e quasi sempre indirizzata ad un consumo indifferenziato e incolto.
Queste contraddittorie chiusure nei confronti del cinema, queste
preferenze per modelli extra letterari che salvaguardino una certa fama di
"purezza" e "nobiltà" e, nello stesso tempo, facciano
risaltare in primo piano la figura dell'artista creatore e non della
"macchina", sono poi confermati proprio dalle uniche vicende che, a
tutt'oggi, provano il suo coinvolgimento diretto nel cinema dell'epoca. Il
primo caso è ovviamente Cenere (1916), primo e più famoso film deleddiano.
La Deledda si limitò a cedere i diritti e ad approvare
preventivamente la scelta della Duse - abbastanza meditata, al punto che i
produttori tentarono in tutti i modi di dissuaderla, non credendo al
"valore cinematografico" del romanzo -di sceneggiare il suo romanzo.
Ribadì spesso, attraverso una corrispondenza epistolare con l'attrice, che l'autrice
del film (e dunque la responsabile artistica dell'operazione), era ormai la
Duse e che Cenere in quanto film non poteva più appartenerle, sebbene fosse
certa che l'arte della grande attrice non avrebbe guastato, per così dire, il
suo romanzo anzi l'avrebbe "vivificato" attraverso una luce nuova.
Non sembra che la Deledda abbia mai letto la sceneggiatura
originale della Duse; é comunque documentato che si sottrasse spesso agli
incontri con la Duse, che, al contrario era ansiosa di ricevere, per così dire,
la "benedizione" della scrittrice, cui si deve, secondo le
testimonianze dell'epoca, semplicemente il suggerimento di girare il film in
alcuni villaggi delle Alpi Apuane, dove si erano stabilite, qualche anno prima
,delle comunità di pastori sardi. Infatti, essendo in piena guerra, era stata
scartata immediatamente la possibilità di girare direttamente nell'isola. Altri
contributi diretti da parte della Deledda non sono noti, ma è altresì
significativo che, per la stessa documentazione sulla Sardegna, sui suoi
"usi e costumi", la Duse si rivolse ad altri consulenti sardi.
Negli stessi mesi in cui si svolgevano i preparativi per
Cenere, la Deledda era impegnata in una trattativa con una casa di produzione
commerciale per un "soggetto sardo", di cui fa cenno in una lettera
alla stessa Duse, annunciando appunto il suo elegante e nobile disinteresse per
la produzione di Cenere (avrà lo stesso atteggiamento a film concluso, dopo
averlo visto in anteprima a Torino). Questo soggetto è certamente Scenario sardo
per il cinema, ritrovato dallo storico Fernando Cordova. E' un soggetto molto
sviluppato, narrativamente complesso, che racconta la storia di un amore
disperato tra una ragazza, promessa sposa ad un ricco possidente, ed un povero
pastore, latitante per una accusa ingiusta. Nel proseguo della storia abbiamo
un sequestro di persona, un lieto fine molto poco deleddiano (ma molto
cinematografico) e, sullo sfondo, paesaggi aspri, feste campestri, sagre,
questuanti, cavalieri e processioni religiose. Per questo soggetto la
scrittrice chiese tremila lire di compenso - una cifra di tutto rispetto - ed
una percentuale sugli incassi. La trattativa non andò in porto, non sappiamo se
per le richieste eccessive della Deledda o perché lo scritto non incontrò il
gradimento dei produttori.
Il film Cenere
non fu affatto un successo, uscendo in ritardo nelle sale italiane e con scarsi
esiti sia fra il pubblico, che fra i giornalisti ed i critici. Insomma
l'investimento contemporaneo sulla Deledda e sulla Duse non andò affatto bene
in termini di mercato e il prodotto nè subi le conseguenze anche in termini
culturali, di rilevanza artistica. Eppure, in questo film
"incompleto", l'ancora di salvezza è proprio la recitazione della
Duse. Una serie di quadri con una recitazione misuratissima, contrastante con
il gesticolare degli altri attori, in particolare Febo Mari. Quadri peraltro
ambientati con una efficacia anche antropologica che fece colpo sul grande
storico George Sadoul, il quale, in compagnia di altri critici, arrivò a riconoscervi
la Sardegna e le pendici del Gennargentu, mentre sul piano narrativo, il film è
fortemente carente. - Vi sono molte ipotesi sul perché la pellicola fece fiasco
anche al botteghino, nonostante la fama della Duse. La prima e più valida è che
la Duse abbia costruito una sceneggiatura del tutto inconsueta per i canoni
dell'epoca, essendo poco interessata alle facili scorciatoie del melodramma che
ben si prestavano ad alcuni sviluppi del romanzo, in particolare alla vicende
romane e cagliaritana di Anania, il figlio di Rosalia, del tutto assenti nella
versione "breve" del film e presente con due sole scene, relative
agli studi di Anania, in quella "lunga". L'Ambrosio film non accettò
il rischio e affiancò all'attrice, l'attore regista Febo Mari, in funzione di
"frenatore" e controllore degli impeti "realisti" e
sperimentali.
Altro aspetto negativo rispetto allo stile recitativo
apprezzato in quel periodo fu certamente l'impossibilità della Duse - già
avanti in età - di prestarsi ad una interpretazione divistica del suo
personaggio, del resto rifiutata anche concettualmente per fedeltà ad un
romanzo la cui protagonista era quasi una vagabonda, una mendicante e non
un’”eroina" del melodramma che mette al mondo un figlio del peccato, con
tutti gli annessi e i connessi del genere (successo della donna, agnizione
finale, riconciliazione). "Mi metta in ombra..." ripeteva spesso la
Duse all'operatore, e la frase è diventata quasi un marchio per una recitazione
fissata in pose statiche, senza primi piani, senza il "gesticolare"
teatrale che dominava il cinema dell'epoca.
Infine, considerando l'oggettiva o la virtuale appartenenza
del film ad una corrente "verista" o "realista" del cinema
italiano, si deve dire che questa fu prevalentemente urbana o piccolo borghese
e mai periferica e rurale, in sintonia con il pubblico prevalente delle città e
con la sua cultura.
Forse il film avrebbe funzionato egregiamente in termini
commerciali, ribaltandone l'assunto drammaturgico e narrativo; non già uno
sguardo sulla tragedia della madre, ma sulla formazione borghese di Anania,
presente comunque nel romanzo e la Duse avrebbe assunto la funzione di grande
caratterista ai margini dell'opera, come cornice "realistica". Ma, a
questo punto, tutto si ribalta: che senso avrebbe avuto chiamare la Duse e
mettere in immagini il romanzo della Deledda?
Volendo salvare l'opera - che ha comunque dei grandi momenti
cinematografici - la si potrebbe definire un grande esperimento fallito che
svela i ritardi tematici e espressivi del cinema italiano e, ancora una volta,
mostra la difficoltà di conciliare letteratura e immagini in movimento.
Ovviamente, per quando riguarda la possibilità di imporsi come modello,
contribuendo a fissare dei canoni espressivi, o almeno lo sviluppo di un filone
tematico di una certa importanza, Cenere resta un film isolatissimo, con una
storia a se stante.
E' probabile che sia stato salvato dall'oblio solo dalla
presenza della Duse, ovvero dall'unica testimonianza cinematografica della
grande attrice italiana.
Fin dal titolo del romanzo
emergono i temi fondamentali di questo ed altri scritti dell’autrice:
l’ineluttabilità del destino cui non ci si può ribellare e che piega le persone
come se fossero anch’esse fragili canne al vento (proprio le canne rivelano ad
Efix che chi non si piega oggi al fato, lo farà domani, e posdomani si
spezzerà) a causa della natura debole dell’uomo nei confronti del male
unificando la concezione religiosa greco-romana, dove le Moire, che erano
superiori anche agli dei(impossibilitati anch’essi a sottrarsi al proprio
destino), decidevano le sorti del mondo intero, filando, tessendo e tagliando
il filo del destino di tutti i mortali, con la visione del mondo cattolica,
pervasa dall’idea di peccato, tanto più se si considera che il libro è
ambientato in un paese piccolo dove tutti criticano e giudicano i comportamenti
altrui, un luogo dunque dove bisogna vivere tenendo presenti certe regole, in
parte ricavate anch’esse da precetti religiosi. .
Nel romanzo vi è una costante
presenza religiosa, che coinvolge tutti i personaggi, sebbene in modo diverso:
per alcuni la partecipazione al rito è solo formale, mentre la partecipazione
di Efix al culto è più profonda e sentita intimamente. Il suo cattolicesimo
però, al pari di quello degli altri compaesani, è intriso dalle antiche
superstizioni pagane, sopravvissute ai secoli. Le donne non filano il giovedì
sera, temendo la Giobiana, Efix appende al muro una falce
contro i vampiri, la vecchia Pottoi si rifiuta di lasciare la
casa vuota, poiché ha paura che vi si
possa insediare un folletto. L’idea su cui si basa il romanzo, e cioè il
fatto che non sia possibile sottrarsi al proprio destino riecheggia le credenze
classiche, dove le Moire, filando, tessendo e tagliando il filo della vita
umana, decidevano le sorti dell’umanità e neanche gli dei erano in grado di
modificare il Fato.
Tre sono i personaggi
principali di quest’opera: Efix, Noemi e Giacinto; anche se
il protagonista in senso assoluto è senz’altro Efix, e proprio a quest’ultimo
sono, infatti, dedicate l’apertura e la chiusura del libro. Ha un grande amore
per i fiori e spesso ne ha uno tra le mani: da questo atteggiamento si possono
desumere il suo rispetto ed il suo amore per la natura, nonché la capacità di
Efix di sentirsi un tutt’uno con essa, canone questo che la Deledda aveva
certamente ricavato dalle letture di stampo romantico, come il Werther.
Tuttavia, la scrittrice
predilige una visione del mondo di tipo decadente, scegliendo come valori
l’amore nei confronti della famiglia, della casa e delle piccole cose e non
l’esaltazione del titanismo della natura, che viene descritta o nei suoi
aspetti più rassicuranti, o come popolata da creature mitiche (ad esempio le janas, una sorta di piccole fate; i nuraghi
sono chiamati appunto domu de janas, case
delle fate ), che possono essere
benevole o scortesi nei confronti delle persone e rappresentano una sorta di
divinità minori.
Descrivendo questa Sardegna
ancora impregnata dalle antiche tradizioni e riportando solo marginalmente
degli avvenimenti storici che siano in grado di identificare l’epoca in cui il
libro si svolge, la Deledda diviene voce di una terra senza tempo, distaccata
dal continente e dalla sua cultura e nei cui abitanti predominano i sentimenti
forti dell’amore e del dolore.
Per espiare il crimine,
dettato dalla passione verso la giovane padrona, commesso ai danni di don Zame,
delitto che ha permesso sì la liberazione di Lia, ma che causa danni notevoli
alla famiglia Pintor, Efix diventerà il sostegno economico della famiglia,
giungendo ad incarnare un sostituto della figura paterna nei confronti del
nipote delle sorelle Pintor.
Giacinto non s’intende di cose
di campagna, avendo un retroterra più urbano, fatto esemplificato anche dalla
sua scelta di utilizzare la bicicletta e non il cavallo. Appare nel complesso
un personaggio poco realista, poco concreto e che non è in grado di trarre dai
propri insuccessi quegli insegnamenti che potrebbero renderlo più saggio. Solo
con Grixenda riesce ad avere un rapporto la cui umanità e il cui sentimento
riescono a prevalere sulle differenze sociali, probabilmente perché egli non fa
parte della società del paese e non ne condivide i pregiudizi e le usanze.
La figura meglio delineata tra
le sorelle Pintor è quella di Noemi, in cui giocano ruoli contrastanti alcuni
sentimenti come l’orgoglio e il desiderio di rapporti umani, l’asprezza e la
nobiltà d'animo.
Anche il suo rapporto verso
Giacinto è uno strano connubio di amore materno e di desiderio e lo stesso matrimonio
con don Predu non è vissuto con entusiasmo ma quasi come una forma di dispetto.
Le problematiche sociali, che
erano fondamentali nei romanzi naturalisti e veristi (che la Deledda conosceva;
ella aveva infatti tradotto Eugenie Grandet di Balzac in italiano), qui
compaiono relegate in secondo piano rispetto ai temi sentimentali: l’usura, che
affliggerà anche la famiglia Pintor a causa di Giacinto, la malaria, la scarsa
industrializzazione, e il banditismo (che diventerà poi il tema centrale di “Marianna
Sirca”) sono rappresentati come ovattati e scissi da una dimensione effettiva
per divenire parte di un mondo fiabesco ed irreale.