I classici e la donna

 

La donna, nella storia della civiltà occidentale, è sempre stata subordinata all'uomo: le differenze tra i due sessi hanno portato il maschio a prevalere e ad occupare un posto privilegiato nella società. La donna fin dall'antichità, è sempre stata considerata un essere inferiore e si è evoluta in una società sostanzialmente misogina, oppressa dalle convenzioni sociali. Molte credenze, molti pregiudizi, che sussistono ancora oggi nell'immaginario collettivo, hanno origine molto lontana e sono stati influenzati persino dal pensiero dei classici.

Basti pensare all'opinione che Giovenale e Petronio si sono fatti delle donne. Uno attraverso le sue satire, l'altro con il suo Satyricon, mostrano il ritratto di una donna ingannatrice, malvagia, padrona: un ritratto che è difficile oggi come allora considerare "realistico ". Nel Medioevo la vita e l'immagine della donna fu invece fortemente influenzata e determinata dalla presenza della Chiesa.

 

Giovenale e Petronio

 

Tra gli autori classici, se ne possono individuare due che raffigurarono le donne come esseri ingannatrici e di facili costumi seguendo uno stereotipo tramandato dal periodo della Roma arcaica.

Il primo è Caio Petronio.

Quest’autore è identificabile in un personaggio, Gaio Petronio, elegantiae arbiter della corte neroniana, di cui parla Tacito nel libro XVI degli Annali, sostenendo che Petronio: "trascorreva le giornate dormendo, le notti, invece le dedicava alle necessità ed ai piaceri della vita". Costui, proconsole in Bitinia e consul suffectus, fu un raffinato gaudente, accolto tra i favoriti di Nerone come maestro di dissolutezze, finché cadde in disgrazia dell'imperatore per le accuse del prefetto del pretorio Sofonio Tigellino, il quale insinuò che egli avesse rapporti amichevoli con uno dei capi della congiura dei Pisoni. Per evitare la condanna, Petronio si uccise.

La sua fine, descritta mirabilmente da Tacito, ci dà l'esatta misura del suo carattere: con superiore, signorile distacco dalla vita, Petronio si svenò e attese la morte conversando con gli amici. Né per testamento adulò Nerone come facevano i condannati, ma tracciò in uno scritto un quadro della corrotta corte neroniana e lo inviò all'imperatore.

La sua più grande opera è il "Satyricon" in cui raffigura il mondo decadente della Roma imperiale, soprattutto il sottofondo umile e laido che fermenta sotto gli orpelli della ricchezza e della potenza, attraverso la rielaborazione parodica di  motivi e spunti della tradizione greca), giunto a noi frammentario (squarci del XV e XVI libro).

Non si conosce pertanto l'estensione e neppure la trama dell'intera opera, che assai probabilmente non costituiva una narrazione continua, ma una raccolta di libri su argomenti vari e.che può essere collegata ai romanzi picareschi, d'avventura e d'amore, di stampo ellenistico, ma con caratteristiche singolari, che ne fanno un vero capolavoro d'arte. La commistione degli stili e dei linguaggi serve a caratterizzare realisticamente le diverse fisionomie culturali dei personaggi rappresentati e costituisce la principale peculiarità dell'arte di Petronio, oltre a fornire testimonianza viva della lingua latina parlata.

Protagonisti sono due giovani: Encolpio (che narra in prima persona), Ascilto (suo amante), cui si accompagnano successivamente Gitone (un giovane e grossolano mariuolo) e il poeta Eumolpo. Su un semplice canovaccio s'inseriscono numerosi episodi, racconti e divagazioni, secondo l'uso delle novelle milesie, con forte carica erotica.

Un accostamento formale può anche essere fatto con la satira menippea, componimento bizzarro e misto di prosa e di poesia: due lunghi brani poetici nel testo a noi giunto riguardano la presa di Troia (parodia di Seneca?) e la guerra civile tra Cesare e Pompeo (in concorrenza con Lucano). Una realtà tendenzialmente bassa e volgare è rappresentata dall'autore con un misto ineguagliabile di realismo e di caricatura, la trivialità è decantata da uno spirito raffinatissimo e in ciò l'opera si stacca nettamente dalle tradizioni precedenti. In contrasto con lo stoicismo della società del suo tempo, Petronio è un epicureo scettico, privo di idealità, osservatore disincantato dei suoi simili.

Alieno da ogni retorica, usa uno stile crudo di rara efficacia. C'è della complessità barocca nella struttura dell'opera e nella sua scrittura, ma anche una grande forza di creazione che ne fa uno dei maggiori capolavori della letteratura latina in prosa.

Le intricate peripezie, raccontate in prima persona da Encolpio, si svolgono in una città greca dell'Italia meridionale sullo sfondo di una composita realtà sociale e di scenari continuamente diversi.  L'episodio più completo e noto è la Cena di Trimalcione, che prende il nome dal padrone di casa, un liberto ricchissimo e volgare, i cui commensali disquisiscono liberamente sul destino degli uomini, sulla fortuna e sulla morte. Per la vastità e profondità della concezione realistica e per la spregiudicata libertà dell'osservazione, l'autore del Satyricon si rivela come uno degli ingegni più originali della letteratura antica. L'opera ispirò l'omonimo film (1969) del regista Federico Fellini.

 

Il titolo dell'opera, che è una forma del genitivo plurale greco della parola Satyrikà (che sottintenderebbe libri: quindi, Satyricon libri starebbe a significare “Libri di argomento satirico”), alluderebbe, oltre che alla materia trattata, soprattutto alla struttura dell'opera, che si collega alla Satira Menippea sia per la mescolanza di prosa e poesia che per la grande varietà di toni e d'argomenti; infatti sono presenti tutti i possibili registri linguistici, dai più elevati a quelli prettamente popolari.

Un’altra fonte proviene sicuramente da Aristide di Mileto: cinque novelle milesie sono presenti nel Satyricon, tra cui il brano della matrona di Efeso, che compare anche tra le favole di Fedro, il quale inserisce alla fine del racconto una riflessione morale, assente in Petronio.

La storia viene raccontata da Encolpio ai suoi amici durante la loro prigionia sulla nave di Lica e narra di una donna famosa per la sua pudicizia ("Matrona quaedam in Ephesi tam notae erat pudicitiae") che alla morte del marito impazzì dal dolore e dopo essersi battuta il petto e strappata i capelli decise di seguire il marito nella tomba insieme con una fedelissima ancella per lasciarsi morire di fame piangendo e vegliando la salma del consorte. Un soldato che si trovava nel cimitero per sorvegliare i corpi di due banditi, che erano stati fatti crocifiggere dal governatore, in modo da evitare che i parenti non portassero via i cadaveri per seppellirli, sentendo la matrona piangere e lamentarsi scese nella tomba per consolarla.

La convinse facilmente a mangiare, ma non solo: " il soldato mosse pure all'assalto della pudicizia di lei " (isdem etiam pudicitiam eius aggrassus est).

Così i due, diventati amanti, si rifugiavano ogni notte nella tomba del marito della matrona e quando un giorno i genitori di uno dei due crocifissi, accortisi che la vigilanza era stata allentata, portarono via il corpo del figlio per seppellirlo di nascosto, mentre il guardiano era con la matrona, la "casta donna" non “meno misericordiosa che pudica”, non si fece problemi a prendere il corpo del marito e a crocifiggerlo per non far passare dei guai al nuovo amante.

Infatti ella sostenne: “Gli dei non permettano che io assista nello stesso tempo ai funerali dei due uomini a me più diletti. Preferisco appendere un morto che uccidere un vivo”.

 

Il secondo autore è Decimo Giunio Giovenale, nato intorno al 60 ad Aquino, vicino a Frosinone;

egli seguì gli studi di grammatica e di retorica, fu conferenziere e avvocato, con poca fortuna, e costretto a cercare l'appoggio dei ricchi.

Cominciò a scrivere piuttosto tardi dopo la morte di Domiziano, ma prendendo di mira i misfatti avvenuti proprio durante  il regno di quest’ultimo, dimostrando una prudenza eccessiva rispetto agli autori coevi, come Marziale, che criticava invece i costumi ed i difetti dei propri contemporanei, pur nascondendo con pseudonimi il nome dei propri bersagli.

 Giovenale pubblicò le sue satire sotto Traiano e Adriano. Pare abbia compiuto un viaggio in Egitto dove, secondo un'antica biografia, sarebbe stato relegato col pretesto del comando di una guarnigione militare e là sarebbe morto.

Tranne i ricordi di lui negli epigrammi del suo amico Marziale, non è menzionato da nessun altro scrittore fino al sec. IV. Giovenale si dedicò a un antico genere letterario romano, quello della satira, coltivato già da Lucilio, da Orazio e da Persio, ma con insolita acredine. Scrisse 16 satire, in esametri, di diversa estensione (dai 130 versi della dodicesima ai 661 della sesta) e divise in 5 libri, che constano ognuno circa 800 versi. Nella prima satira, che serve da introduzione all'intera raccolta, Giovenale dichiara che il poeta non può tacere di fronte allo spettacolo della corruzione dell'Urbe, ma per mancanza di libertà nel suo tempo, egli attaccherà solo i morti.

 Sono poi da ricordare la quarta, descrizione grottesca di un consiglio imperiale convocato da Domiziano (grande bersaglio della satira di Giovenale) per discutere sul modo di cucinare un grosso rombo pescato nell'Adriatico; la decima, contro la follia umana, che spinge tutti ad invocare dei beni vani, quali le ricchezze o la gloria, e così a consumare nel nulla la propria vita.

Nelle ultime satire si nota invece un tono più smorzato, con interventi della riflessione filosofica e di temi retorici; la sedicesima, sui vantaggi della vita militare, è frammentaria.

Elementi essenziali, e contrastanti, della satira di Giovenale sono da un lato l'impeto dei suoi attacchi, dall'altro l'influsso della scuola, per cui convivono in lui, con un'ispirazione sincera, i luoghi comuni della discussione filosofico-morale e gli artifici della retorica. La polemica sociale ha in questo autore una grande estensione, con spunti contro i ricchi, i vanitosi, gli avari, i libertini. Ne deriva una visione pessimistica e opprimente del mondo.

Come ogni poeta satirico, Giovenale è un nostalgico dei tempi antichi, ma il suo rigorismo sembra doverlo rendere scontento di qualunque imperfezione della natura umana. I vizi trovano in lui un descrittore e un fustigatore potente.

La sua poesia ha una rara forza di rappresentazione, con una fantasia grandiosa e insieme con grande concretezza; il suo stile è rapido, efficace con l'uso di poche parole, di frasi concise, molte delle quali sono diventate proverbiali. Anche i versi sono costruiti con durezza per esprimere questo mondo chiuso e insieme lo sdegno costante del poeta. Per il carattere moraleggiante e il tono violento la poesia di Giovenale ebbe un grande influsso nel Medioevo e fu poi ripresa nelle età successive come modello della satira pungente e corrosiva.

 

 Secondo Marziale, che si basa sulla precedente tradizione satirica, gli accadimenti a cui ci si riferisce devono riferirsi alla vita quotidiana, mentre Giovenale sfruttando accorgimenti retorici enfatizza i casi presi in esame, come nella sua sesta satira, dove si scaglia contro le donne, sfruttando il pretesto di mettere in guardia un suo amico, Pontico, che deve sposarsi. Egli dipinge a tinte fosche l'universo femminile, popolato di figure in cui dominano il vizio e la perversione, giungendo a consigliare a Pontico di suicidarsi piuttosto che sposarsi.

La sua è una rassegna impietosa e improbabile di donne avide, meschine, egoiste, affamate di sesso, infedeli, avvelenatrici, assassine. Secondo Giovenale le donne non hanno più pudicizia sin dalla fine dell’età dell’oro; anche Messalina ogni notte lasciava il palazzo reale per recarsi in un lupanare.

Così l’autore comincia la sua descrizione di tutti i difetti che rendono sgradevoli le donne, dall’eccessiva cultura, che le spinge a parlare greco, a discutere circa l’Eneide, o a correggere “un’amica ignorante per errori che il marito non rileverebbe”, all’amore per lo sport, al sadismo della matrona crudele (ella chiede al marito di far crocifiggere un servo solo allo scopo di soddisfare il proprio piacere), alla natura passionale: quella di Eppia, la moglie di un senatore, che, priva di ogni controllo scappa con un gladiatore, non tanto per la sua bellezza e la sua forza, visto che egli aveva "molti sfregi sul volto, una grossa protuberanza in mezzo al naso tutta scorticata dall'almo, e un occhio continuamente in lacrime per un fastidioso malanno" ("..praeterea in multa facie deformia, cirrus attritus galea, mediisque in naribus ingens gibbus, et acre malum semper stillantis ocelli"), quanto perchè era un gladiatore ("Sed gladiator erat!").

Giovenale ritiene che tutti questi comportamenti siano ignobili rispetto a quelli previsti dai costumi antichi. Infatti un tempo le donne si limitavano a rimanere chiuse in casa a tessere la lana e a compiere i lavori domestici, completamente sottomesse al marito e prive di una qualsiasi cultura e di interessi propri.

 

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