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Adíos muchachos
Una memoria della rivoluzione sandinista
un libro di Sergio Ramírez
Introduzione
Todo se quemó en el tiempo. Todo se
quemó allá lejos.
Joaquín Pasos, Canto de guerra de las cosas
Nel 1999 il trionfo della rivoluzione
sandinista ha compiuto vent’anni, è già passato, però si alza ancora come una
marea tumultuosa ai piedi della mia finestra, mi stordisce e mi commuove. Da
allora, niente è stato più lo stesso per me. E mi trovo ad affrontare la
maturità pieno di ricordi che sempre tornano con questa marea, dicendomi che se
fossi nato un poco prima, o un poco dopo in questo secolo delle chimere, l’avrei
perduta. E come chi si sveglia da un incubo, mi rendo conto che non l’ho persa.
È lì, in tutta la sua maestà, in tutta la sua gloria e la sua miseria, le sue
angosce nella mia mente, e le sue allegrie. Come io l’ho vissuta, e non come mi
raccontarono che fu.
Bernal Díaz del Castillo scrisse già anziano i suoi ricordi di soldato nel suo
ritiro di Santiago di Guatemala perché qualcun altro voleva raccontare la sua
vita. Francisco López de Gómara, che non fu mai protagonista delle imprese della
conquista del Messico, aveva appena pubblicato la sua Historia general de las
Indias, scritta a Valladolid; e allora Díaz del Castillo, per amor proprio,
si mise a comporre la sua Historia verdadera de la conquista de la Nueva
España.
Non ho imbracciato armi nella rivoluzione, non ho mai portato l’uniforme
militare, e nemmeno mi trovo al punto di essere dimenticato per vecchiaia, e
nessuno mi sta disputando con un altro libro i fatti vissuti. E più, la
rivoluzione è rimasta senza cronisti in questo fine secolo di sogni spezzati,
dopo che ne ebbe tanti negli anni nei quali commuoveva il mondo. Solo io
conservo nella mia biblioteca più di cinquecento libri scritti in quegli anni,
in tutte le lingue. E al contrario di Bernal, è precisamente per l’eccesso di
oblio che scrivo questo libro.
Un oblio ingiusto. Nelle liste di avvenimenti che si fanno oggi del Ventesimo
secolo, manca la rivoluzione sandinista. Perché si perse e non cambiò in fin dei
conti la storia, come noi credevamo che l’avrebbe cambiata, o perché oggi a
molti sembra che non ne valse la pena, un impegno che si trasformò in una grande
frustrazione ed in una formidabile disillusione. O perché fu prevaricata. Ne
valse la pena, in fin dei conti?
La rivoluzione sandinista fu l’utopia distribuita. E così, come segnò una
generazione di nicaraguensi che la rese possibile e la sostenne con le armi, ci
fu anche una generazione nel mondo che trovò in essa una ragione per vivere e
per credere, che nell’ora della guerra dei Contra e dell’embargo degli Stati
Uniti combatté per difenderla dall’Europa, dagli Stati Uniti, dal Canada,
dall’America Latina, promuovendo comitati di solidarietà, raccogliendo denaro,
medicine, utensili scolastici, attrezzi agricoli, scrivendo sui giornali,
raccogliendo firme, facendo pressioni sui parlamentari, organizzando marce.
Gente da tutte le parti venne in Nicaragua a fare di tutto, in un’operazione di
solidarietà che ha un paragone solo con quella che provocò la causa della
Repubblica durante gli anni della guerra civile spagnola, e ci furono
nordamericani, francesi, belgi, che persero la vita, assassinati dai Contra,
mentre si dedicavano a costruire scuole, a mietere i raccolti, curare,
insegnare, nel profondo del Nicaragua rurale durante la guerra. La rivoluzione
sandinista alterò i parametri delle relazioni internazionali della Guerra
Fredda, e al convertirsi nel tema focale della politica estera degli Stati Uniti
durante la presidenza imperiale di Reagan, creò un’immensa solidarietà mondiale
che aiutava a difendere David da Golia.
Alla fine di un secolo poco eroico, vale la pena ricordare che la rivoluzione
sandinista fu il culmine di un’epoca di ribellione ed il trionfo di una serie di
ideali e sentimenti condivisi da una generazione che rifiutò l’imperialismo ed
ebbe fede nel socialismo e nei movimenti di liberazione nazionale, Ben Bella,
Lumumba, Ho Chi Minh, Che Guevara, Fidel Castro; una generazione che assistette
al trionfo della rivoluzione cubana e alla fine del colonialismo in Africa ed in
Indocina, e protestò nelle piazze contro la guerra del Vietnam; la generazione
che lesse I condannati della terra di Frantz Fanon ed Ascolta, yankee!
di Stuart Mill, ed allo stesso tempo gli scrittori del boom, tutti di sinistra,
allora; la generazione dei capelli lunghi e dei sandali, di Woodstock e dei
Beatles; quella della rivolta nelle strade di Parigi nel maggio 1968 e della
strage di Tlatelolco; quella che vide Allende resistere nel palazzo della Moneda
e pianse per le mani tagliate a Víctor Jara e trovò, infine, in Nicaragua, una
vendetta ai sogni perduti in Cile e anche più in là, ai sogni della Repubblica
spagnola, ricevuti in eredità. Era la sinistra. Un’epoca che fu anche un’epica.
E per tutto un decennio, la rivoluzione trasformò in Nicaragua i sentimenti e
cambiò la maniera di vedere il mondo ed il paese stesso, perché creò
un’ambizione di identità; ritoccò i valori, la condotta degli individui, le
relazioni sociali, i legami famigliari, le abitudini; creò una nuova cultura
quotidiana; cambiò anche il linguaggio e la maniera di vestirsi ed aprì,
soprattutto per i giovani, uno spazio colossale di partecipazione, dando un
senso storico alla rottura generazionale con il passato.
Però molti di coloro che lottarono per conquistare il potere prima e per
difenderlo dopo, i giovani della generazione della rivoluzione, si videro alla
fine doppiamente frustrati, non per la perdita delle elezioni - che sarebbe
potuto convertirsi in un male riparabile se, in fin dei conti, perdere
appartiene ai parametri della democrazia - ma perché la sconfitta elettorale
portò con sé il crollo dei principi etici che sostenevano la rivoluzione, e nel
cuore, molti di quei giovani iniziarono a vedere se stessi come la generazione
perduta, nati nella disillusione, nello scetticismo e nel rancore. Il mondo
cambiava alla fine degli anni Ottanta, sprofondava tutto l’apparato degli
ideali, venivano deposte tutte le chimere. Però, in Nicaragua era fatto a pezzi
il primo modello reale di cambiamento che il paese avesse mai vissuto, la sua
prima possibilità di un futuro a portata di mano.
Perché non era stata solo la rivoluzione vista dal potere che cercava di creare
un nuovo ordine con decreti e misure, ma della rivoluzione che si teneva tra la
gente, una volta che le dighe erano state rotte ed una nuova forma di vivere e
di sentire si faceva possibile. Fu un fenomeno dalla portata istantanea, una
forza trasformatrice che straboccò su tutti, riempì spazi che per secoli erano
rimasti vuoti e creò l’illusione del futuro, l’idea che tutto, senza eccezioni,
diventava possibile, realizzabile, con un disprezzo assoluto del passato. Una
marea, un lampo.
Oggi la rivoluzione rimane per molti, dentro e fuori il Nicaragua, tra le
nostalgie della vita passata ed i vecchi ricordi, e si evoca come si evocano gli
amori perduti; però non è più una ragione di vita. A volte, in casa di amici
all’estero, in mezzo ad una cena tra brindisi, suona come un omaggio a me dovuto
- e a loro stessi - la musica di quei tempi, le canzoni rivoluzionarie di Carlos
Mejía Godoy che ascolto con una tristezza oppressiva, con un sentimento di
quello che cercai e non riuscii a trovare, però che continua vivo nella mia
vita, e che temo, mentre il tempo avanza, di non trovare mai.
La rivoluzione non ha portato la giustizia anelata dagli oppressi, e non ha
potuto creare ricchezza o sviluppo; però, ha lasciato come suo miglior frutto la
democrazia, determinata nel 1990 con il riconoscimento della sconfitta
elettorale e che come paradosso della storia è la sua eredità più visibile,
anche se non la proposta più entusiasmante; e gli altri frutti che continuano
lì, inavvertiti, sotto la valanga della déb‰cle che seppellì anche i sogni
etici, sogni che, non ho dubbi, torneranno prima o poi ad alimentare un’altra
generazione che avrà appreso gli errori, le debolezze e le falsificazioni del
passato.
Io ero lì. E, come Dickens nel primo capitolo di Storia di due città,
continuo a credere che: “fu il migliore dei tempi, fu il peggiore dei tempi; fu
tempo di sapienza, fu tempo di pazzia; fu un’epoca di fede, fu un’epoca di
incredulità; fu una stagione di fulgore, fu una stagione di tenebre; fu la
primavera della speranza, fu l’inverno della disperazione”.
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