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Alfa e Beta
Cosa c'entrano Berlusconi e Dell'Utri
con la stagione delle bombe 1992-93?
un libro di Simone Falanca
Prefazione
di Nicola Tranfaglia
1. – L’Italia vive un periodo buio
come pochi nella sua storia recente giacché sono al potere persone ed
organizzazioni che hanno avuto – secondo quanto emerge con chiarezza da numerose
sentenze, come quelle della Corte di Assise di Firenze sugli attentati ai
Georgofili del 1993 e quella della Corte di Appello di Caltanissetta sulle
stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992, in parte pubblicate in questo
saggio di Simone Falanca – rapporti continuativi e frequenti con capi e
luogotenenti della maggiore organizzazione mafiosa del nostro paese, l’antica
Cosa Nostra.
A questo si aggiunge il silenzio massiccio dei mezzi di comunicazione di massa
che hanno mostrato un’attenzione distratta e intermittente a quei processi e
hanno sistematicamente taciuto le responsabilità che emergono da quelle
istruttorie sui rapporti tra mafia e politica.
Si è compiuto in dieci anni un processo unico in Europa e nel mondo come ha, di
recente, notato il direttore de “l’Unità” Furio Colombo in un suo editoriale del
2 novembre 2003.
In tutto il mondo, infatti, dall’America Latina all’Europa (e particolarmente in
Francia e Germania) capi di partito e probabili candidati presidenziali sono
sotto accusa per vicende di tangenti e di compromissioni in affari poco puliti,
ma la differenza tra quei paesi e l’Italia sta nell’atteggiamento delle classi
dirigenti e dell’opinione pubblica che appaiono concordi nel deplorare quello
che accade e chiedere con successo che le personalità compromesse si mettano da
parte e non partecipino più alla lotta per il potere.
In Italia, invece, l’ascesa al potere e al controllo, pressoché completo, delle
comunicazioni di massa, televisive e giornalistiche, del personaggio Silvio
Berlusconi, già criticato per le modalità di accumulazione della sua fortuna
imprenditoriale grazie ad amicizie politiche ed oscuri rapporti con persone e
organizzazioni poco raccomandabili, ha determinato una situazione che si
configura come una vera e propria dittatura mediatica, rispetto alla quale
persino il Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, è stato indotto a segnalare
in un messaggio alle Camere – che è rimasto non a caso l’unico finora del suo
settennato – l’anormalità della situazione che regola i mezzi di comunicazione e
la stessa informazione nel nostro paese rispetto all’articolo 21 della
Costituzione repubblicana e a tutti i principi di pluralismo che caratterizzano
la Carta del 1948.
L’unica risposta che è venuta, in oltre un anno, dalla maggioranza parlamentare
e dal Governo che fanno capo all’attuale presidente del Consiglio Berlusconi, è
stato il varo del disegno di legge Gasparri per il riassetto del sistema
radiotelevisivo, che sta per essere approvato in maniera definitiva dal
Parlamento e che condurrà, senza dubbio alcuno, al consolidarsi dell’attuale
oligopolio televisivo con l’aggravante della depressione delle risorse
pubblicitarie per la Rai e l’ulteriore espansione di Mediaset e, dunque, del
potere mediatico detenuto, insieme con il controllo della pubblicità
complessiva, dall’uomo di Arcore.
Non c’è dunque da sperare, almeno in tempi brevi e a meno di un improbabile
crollo della maggioranza raccolta intorno alla Casa delle Libertà, che le cose
possano cambiare e che gli italiani riacquistino il proprio elementare diritto
all’informazione, pur facendo esso parte di quelli fondamentali stabiliti dal
dettato costituzionale.
2. – Di qui l’importanza, e vorrei
dire la necessità, di libri come quelli che pubblicano documenti giudiziari di
straordinario rilievo per la nostra cultura politica, espropriata dai mezzi di
comunicazione di massa, condizionati in un modo o nell’altro dal dominio
mediatico di cui abbiamo parlato.
E vale la pena spiegare fin dalla prefazione di che cosa si tratta, in modo tale
che i lettori del libro possano rendersi conto sia di quel che viene loro
abitualmente sottratto, sia dei problemi che emergono da documenti pubblici
scomparsi dalla circolazione in men che non si dica o addirittura completamente
ignorati dai pochissimi che hanno accesso, per altra via, agli atti giudiziari.
Il primo punto da sottolineare riguarda il momento in cui Cosa Nostra decide
l’assassinio del giudice Paolo Borsellino, due mesi dopo la strage di Capaci in
cui è stato assassinato con la moglie e gli agenti di scorta il giudice Giovanni
Falcone.
Il giudice per le indagini preliminari Giovanbattista De Tona, che stende a
Caltanissetta la sentenza di archiviazione nel processo contro Berlusconi e
Dell’Utri come mandanti della strage di Capaci, ricostruendo le precedenti
indagini ritiene di aver accertato che Cosa Nostra, dopo aver deciso di
eliminare i suoi nemici storici Falcone e Borsellino, cerca di avviare
trattative con lo Stato.
Proprio da questa decisione scaturisce “l’accelerazione dell’attentato a Paolo
Borsellino, il cui motivo rimane oscuro”.
De Tona giunge nel maggio 2002 a una decisione favorevole all’archiviazione
basata soprattutto sulla valutazione secondo la quale le dichiarazioni dei due
più importanti collaboratori di giustizia – Filippo Cancemi reggente di Porta
Nuova e Giovanni Brusca reggente di San Giuseppe Jato – sarebbero
“contrastanti”, ma una simile valutazione è, a sua volta, in netto disaccordo
con la sentenza di appello della strage di Capaci nella quale il collegio
giudicante scrisse che quelle dichiarazioni erano “convergenti” e con l’opinione
del pubblico ministero Luca Tescaroli che aveva seguito sia le indagini per la
strage di Capaci sia quelle per la strage di via D’Amelio ed era giunto alla
conclusione che quelle dichiarazioni si integravano a vicenda.
Peraltro, proprio nella sentenza di archiviazione, il gip De Tona ha ordinato la
trasmissione degli atti all’accusa per “una nuova indagine diversa da quella
fino adesso perseguita” e aggiunge che “lasciando al pm le valutazioni di sua
competenza in ordine all’utilità di tali dati per individuare eventuali
ulteriori piste investigative, rivela che tali accertati rapporti di società
facenti capo al gruppo Fininvest con personaggi in varia posizione collegati
all’organizzazione Cosa Nostra, costituiscono dati oggettivi che rendono
quantomeno non del tutto implausibili né peregrine le ricostruzioni offerte dai
diversi collaboratori di giustizia, esaminate nel presente procedimento, in base
alle dichiarazioni dei quali si è ricavato che gli odierni indagati erano
considerati facilmente contattabili dal gruppo criminale”.
Se a questi elementi che suscitano, o dovrebbero suscitare (ma non c’è stata
finora nessuna reazione) allarme nella politica italiana e imbarazzo in persone
che oggi siedono in Parlamento e, nel caso di Berlusconi, presiedono addirittura
il Governo della Repubblica, si aggiunge l’appello che uno dei più noti
capimafia, cognato di Totò Riina, Leoluca Bagarella, rinchiuso nel carcere di
Ascoli Piceno, si rivolge pubblicamente allo Stato chiedendo conto di promesse
non mantenute con un appello “agli avvocati delle regioni meridionali che ora
siedono negli scranni parlamentari a nome di tutti i detenuti stanchi di essere
strumentalizzati, vessati, umiliati e usati come merce di scambio”, il lettore
ha un quadro più chiaro della torbida situazione che caratterizza i rapporti tra
Cosa Nostra e una parte almeno del mondo politico nel nostro paese.
3. – D’altra parte quello che
induce a pensare che la verità sia ancora lontana da emergere dai processi e
dalle indagini già conclusi e da quelli ancora in corso (come quelli che
riguardano gli attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano e gli interrogatori
di un collaboratore di giustizia come Nino Giuffrè, che sta procedendo su una
strada assai simile a quella già percorsa da Cancemi e da Brusca), è il fatto
che proprio i corleonesi erano decisi ad aprire una trattativa con settori del
mondo politico disposti a giungere a un nuovo accordo con Cosa Nostra.
Tracce di una simile trattativa sono emerse in questi anni e sono all’origine di
misteri ancora non risolti come quelli che riguardano la cattura di Totò Riina e
la misteriosa pulizia della sua casa dopo l’arresto.
Non tutto, insomma, è stato chiarito né a livello storico né a quello
giudiziario degli ultimi anni e in particolare di quello che è seguito alle
stragi di Capaci e di via D’Amelio e agli attentati compiuti da Cosa Nostra
fuori del suo territorio di abituale influenza in un momento assai critico della
crisi politica italiana.
C’è ancora da attendere, con tutta evidenza, la conclusione di alcuni processi
non soltanto a Palermo ma, a giudicare dalla situazione attuale e dalla
presenza, a livello di affari e della vita economica, delle associazioni mafiose
e in particolare di Cosa Nostra, si deve constatare che, mutata la strategia
rispetto allo Stato e ai suoi rappresentanti, la mafia prosegue la sua attività.
Ha dunque trovato referenti diversi da quelli che, a suo avviso, l’avevano
tradita (l’assassinio di Salvo Lima nella primavera del 1992 è il segno più
chiaro di una simile scelta) e che avevano fatto promesse impegnative nella
direzione di una lotta assai meno decisa contro la penetrazione mafiosa nella
società siciliana e italiana.
È questo il problema che emerge con chiarezza da una ricerca chiara e rigorosa
come quella che qui viene pubblicata.
C’è per fortuna ancora un’Italia civile e democratica che lavora alla ricerca
della verità in maniera limpida e disinteressata, al di là del clamore di tanti
giornali e tante televisioni, ma anche di molti intellettuali, che si comportano
in maniera servile nei confronti di un Governo così fortemente inquinato da
ombre pesanti, tutt’altro che dissolte.
Novembre 2003
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