Alessandro Benna  |  Lucia Compagnino
30 giugno 1960
La rivolta di Genova nelle parole di chi c'era

 

Il portuale

Paride Batini, entrato in porto giovanissimo come lavoratore occasionale e più volte eletto console della Compagnia Unica dei portuali, nel 1960 aveva 26 anni e partecipò a tutte le manifestazioni.

Come nacque la mobilitazione?

«Nacque già molto tempo prima del 30 giugno, settimane prima, e in modo del tutto spontaneo. Quando si diffuse la notizia che a Genova ci sarebbe stato questo congresso fascista, tutte le forze democratiche incominciarono a mobilitarsi. L’organizzazione della protesta non era in mano ad un partito o a un gruppo specifico, per tutta la città si diffondevano
gli inviti a mobilitarsi affinché fosse chiara l’opposizione di tutti alla decisione di tenere qui a Genova il congresso dell’MSI. Noi portuali dopo il lavoro ci fermavamo sempre in piazza Banchi a discutere.
(...) E via via che la data del congresso si avvicinava, il nostro coinvolgimento cresceva e gli incontri in piazza Banchi diventavano il punto di riferimento dell’intera giornata. (...) E spesso partivamo in corteo, con destinazioni che sceglievamo al momento. Ci furono molte scaramucce con la polizia, anche perché noi non sapevamo che si dovesse chiedere l’autorizzazione per fare un corteo, e i poliziotti a volte ci lasciavano passare, a volte volevano impedircelo.
Ma se è vero che ci comportavamo in maniera spontanea e magari ingenua dal punto di vista organizzativo, è altrettanto vero che avevamo, invece, ben chiara la nostra motivazione e il nostro obiettivo: non volevamo che il congresso si tenesse a Genova e avevamo tutte le intenzioni di far sentire la nostra protesta».

E arriviamo alla grande manifestazione del 30 giugno...

«Il 30 giugno era stato proclamato sciopero generale. Siamo scesi tutti in piazza e dopo il comizio è scattata una scintilla. C’era la famosa Celere di Padova, che era considerata una specie di corpo speciale ed era composta da picchiatori, e il loro capitano all’improvviso ha suonato la tromba e sono partiti i primi caroselli. Si è subito aperto un conflitto fortissimo.
Le camionette, lanciate alla massima velocità, ci venivano addosso fin sotto i portici per disperderci (...). I più giovani di noi non sapevano come comportarsi nel caos dei tafferugli, anch’io ero molto confuso e per fortuna (...) un amico del mio quartiere, che era stato un partigiano di montagna, si è preso cura di me e mi suggeriva come muovermi e dove nascondermi. (...) La guerriglia andò avanti fino al tardo pomeriggio e questi caroselli della polizia, che erano partiti alla grande contando sull’effetto sorpresa, piano piano hanno dovuto ridurre la velocità e l’intensità perché erano circondati da ogni parte, finché si sono dovuti fermare del tutto».




Il sindacalista

Giordano Bruschi, è stato uno dei protagonisti del giugno 1960. Già partigiano, all’epoca aveva 35 anni ed era segretario del sindacato dei marittimi e componente della commissione esecutiva della CGIL. Oggi, sempre molto impegnato, è un membro del comitato nazionale di Rifondazione Comunista.

Lei avvicina quei giorni lontani del giugno 1960 a quelli più recenti del G8, che hanno visto di nuovo Genova protagonista delle prime pagine...

«Sì perché nel Sessanta, così come oggi col movimento no global, ma senz’altro anche ai tempi della Resistenza e nel ‘68, ci fu l’azione congiunta di una vecchia generazione di militanti e di un movimento di giovani. E nella storia del nostro paese tutti i grandi passi avanti si sono compiuti in momenti di saldatura fra due generazioni. Il 30 giugno 1960 portò in piazza la forza operaia che aveva fatto la Resistenza, molto antifascista anche perché a Genova fra il ‘43 e il ‘45 si erano verificati episodi di una crudeltà inaudita, con stragi, fucilazioni e deportazioni, insieme ai giovani con le magliette a strisce - che erano un po’ la divisa, il simbolo della nuova generazione - i quali si affacciavano alla politica».

Cosa succedeva prima di quel giorno?

«La situazione politica italiana in quel periodo registrava una svolta a destra: il governo Tambroni era sostenuto dal voto determinante dei fascisti. Alcuni ministri democristiani non vollero mescolarsi con la destra e si dimisero, Tambroni che pur proveniva dalle file della sinistra democristiana, rimase. In cambio dell’appoggio fornito al governo, il Movimento Sociale, che era in cerca di legittimità, chiese di tenere il proprio congresso nazionale a Genova e scelse come Presidente proprio il "boia" Basile. Ovviamente era una provocazione per la città, medaglia d’oro alla Resistenza, che da quel Basile aveva patito violenza».

Lei era già in politica all’epoca?

«Facevo parte della commissione esecutiva della Cgil, l’organismo composto da 22 membri che decise lo sciopero per il 30 giugno 1960. Segretario della CGIL all’epoca era Bruno Pigna e vicesegretari erano Fulvio Cerofolini, uno dei protagonisti di quei giorni, e Giuseppe Sulas».

Cosa accadde?

«Il primo segnale di protesta risale al 2 giugno del 1960, nel bosco di Pannesi, dove si teneva tutti gli anni il raduno dei Partigiani in ricordo della Resistenza. In quell’occasione si sparse la voce inaccettabile: "Tornano i fascisti".
Il 5 giugno apparve su "l'Unità" una lettera accorata scritta da un partigiano operaio, Giulio Bana, deceduto un paio di anni fa, che era stato mio compagno di lavoro alla San Giorgio, una grande fabbrica di Sestri Ponente, e poi era stato licenziato nelle vicende dell’occupazione della fabbrica nel 1950. Egli scrisse un bellissimo appello per una mobilitazione, che fu raccolto in tutta la città, non solo nelle fabbriche (...)».

Poi ci fu il famoso comizio di Pertini...

«Sì, poi ci fu la grande manifestazione del 28 giugno col comizio di Sandro Pertini in piazza Della Vittoria. Nel frattempo il mio sindacato proponeva a Cisl e Uil un’azione antifascista unitaria, ma Cisl e Uil risposero di no, e noi dovemmo decidere da soli di fare uno sciopero che destava preoccupazione, anche nelle forze politiche e nello stesso partito comunista a Genova, perché si temevano moti violenti a seguito delle previste provocazioni.
Tambroni, per ricambiare i voti che gli venivano dai fascisti, disse che il congresso si sarebbe tenuto ad ogni costo e mobilitò i reparti di polizia più duri dell’epoca, in modo particolare il reparto Celere di Padova. Vennero da fuori a migliaia e migliaia e fu un’anteprima del G8 (abbiamo le foto, siccome c’erano dei cantieri a Piccapietra, la zona fu chiusa, allora non utilizzarono le grate o i container, ma filo spinato)»...




La femminista

Francesca Busso, nata nel 1926 e laureata in sociologia, si è sempre occupata di politica, come funzionario del Pci, consigliere comunale e regionale, assessore e vicepresidente del consiglio regionale. 

Quali questioni le stavano più a cuore?

«Le tematiche sociali e soprattutto il movimento delle donne, le quali all’epoca, all’interno del Partito Comunista, erano molto numerose e anche ben organizzate. C’erano le commissioni femminili, i gruppi delle donne e naturalmente c’era l’UDI (l’Unione Donne Italiane), che era nata nel periodo dell’antifascismo, nel 1943, e poi aveva continuato la sua attività in favore delle donne con rivendicazioni molto elementari e concrete, come quella diventata famosa del bicchiere di latte per i bambini, poi della mensa e del doposcuola.
Negli anni Sessanta si iniziò ad eleborare una politica che riguardava maggiormente i processi di emancipazione della donna, le possibilità nel mondo del lavoro e la parità salariale. Una delle prime battaglie è stata per una legge sulla tutela della
maternità».

Quale ruolo giocarono le donne nelle manifestazioni del giugno 1960?

«Le donne, che avevano già avuto modo di affermare concretamente il loro antifascismo alla fine della guerra, nel 1960 tornarono in piazza e costituirono anche un comitato unitario che si opponeva al congresso dell’Msi. Del resto la loro partecipazione non era certo una novità: nelle lotte operaie sono sempre state molto presenti. C’erano le mogli dei lavoratori che difendevano il posto del marito oppure le manifestazioni di sole donne davanti alla Prefettura, che cercavano di ottenere migliori condizioni di vita. Comunque dietro alla partecipazione così vasta al movimento del 30 giugno, oltre all’antifascismo, c’è anche un fattore sociale. L’Italia in quegli anni stava cambiando velocemente. (...) A Genova poi la trasformazione era stata più pesante che altrove, con la fine dell’industria di guerra e la perdita di centralità della città, che in quegli anni vede scomparire anche tutta una serie di industrie leggere, dove erano occupate molte donne. Chiude infatti una rete di aziende tessili, dell’abbigliamento, anche un’industria chimica come la Mira Lanza...

Cosa soprattutto vi spinse in piazza il 30 giugno?

«La partecipazione delle donne, insieme a quella dei lavoratori, che intervennero in massa, di tanti giovani, che portavano avanti anche le loro rivendicazioni, e di rappresentanti di tutti i ceti sociali, si spiega senz’altro con la motivazione profonda dell’antifascismo, il collante generale che ha portato tutta la popolazione in piazza. Il Movimento Sociale era visto come erede del fascismo e Genova certamente ricordava ancora le deportazioni e i disastri della guerra».

 


 

Torna alla pagina dei libri

Torna alla pagina principale