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Bacci Pagano
Una storia da carruggi
di Bruno Morchio
Capitolo primo
Notte di luna
L’uomo delle Affissioni Comunali sputa per
terra e si forbisce con l’avambraccio libero, il sinistro. Col braccio destro
regge il secchio della colla e stringe sotto l’ascella un lungo rotolo di carta.
Mugugna qualcosa, forse impreca contro quella smisurata gigantografia che si
appresta ad incollare al cartellone con maestria da attacchino professionista.
Posa il secchio e torna verso il furgoncino posteggiato in doppia fila. L’aria è
pungente e nuvole di vapore esalano dal suo respiro. Afferra la pennellessa a
rullo dal manico telescopico. Stenta a farla uscire dal deretano aperto del
furgoncino e impreca di nuovo. Intanto, una falce di luna dondola nella gelida
notte di dicembre sopra le luminarie natalizie e sopra gli alberi mutilati e
spogli di corso Carbonara, nel silenzio.
Con una manovra che rivela tutto il suo mestiere intinge la pennellessa nella
colla e la fa scivolare sotto un manifesto della gigantografia, quello in alto a
sinistra. Un colpo preciso ed è disteso sul cartellone come un tappeto.
CINQUE PALLOT
Io assomiglio a un pappagallo sul trespolo mentre lo osservo appollaiato sulla
mia Vespa. La Vespa, una vecchia 200 PX color amaranto, sta in equilibrio sul
cavalletto, davanti a un grazioso palazzotto del primo novecento dal quale prima
o poi uscirà la graziosa fidanzata del mio cliente.
Un altro colpo da maestro e un’altra porzione va a segno. Il secondo sesto da
sinistra.
TOLE PER RIPUL
Ora l’attacchino sputa di nuovo e molla la pennellessa nel secchio. Si passa una
mano sul collo e osserva compiaciuto il lavoro fatto. Sembra pronto a ripartire,
invece infila una mano nella tasca del piumone nero e ne cava fuori una
sigaretta. La accende, tira due profonde boccate e la lascia penzolare a un
angolo della bocca. Il rullo si impenna di nuovo e come per magìa la fila
superiore di manifesti è distesa sul cartellone.
IRE L’ITALIA
Lui torna a guardare in alto e ora sembra sorpreso. Non è la perfetta geometria
della gigantografia a farlo trasalire, ma quello che ci sta scritto dentro.
CINQUE PALLOTTOLE PER RIPULIRE L’ITALIA
La sigaretta gli si impenna tra le labbra e una fregola si impadronisce della
sua perizia manuale. In un lampo la terna sottostante si allinea a quella di
sopra e il manifesto può urlare al mondo la sua abominevole bestemmia.
VOTATE I CINQUE SIGNORI A CUI DESTINARE LE PRIME CINQUE PALLOTTOLE DELLA NOSTRA
CARABINA DI PRECISIONE. AL RESTO PENSEREMO NOI.
Segue una fotografia di cinque grosse pallottole in fila come birilli del
bowling.
TELEFONATE AL NUMERO 800121314. RADIO BABA YAGA
Nel silenzio si sente un portone scattare. Stretta nella sua pelliccia, la
bionda fidanzata del mio cliente esce sulla strada. Un frettoloso picchiettare
di tacchi nella notte la porta fino alla sua Morris posteggiata sotto gli alberi
nudi, come nuda è stata sicuramente lei fino a pochi minuti fa. La Morris fa una
mossetta col suo culo radente terra, arretra appena in una breve retromarcia e
parte a tutta birra. Do una pedalata e metto in moto la Vespa, la faccio
scattare sul cavalletto e le corro dietro all’impazzata. La gigantografia resta
lì, davanti alla bocca spalancata dell’uomo delle Affissioni Comunali, col suo
urlo muto a squarciare il silenzio e il sonno dei benpensanti di Castelletto.
Trovare un posteggio all’una di notte in
via Fereggiano è come fare tredici al Totocalcio. E infatti la trafelata
fidanzata del mio cliente finì col lasciare la Morris davanti ai contenitori
della rumenta, dopo essersi prudentemente accertata che gli addetti alla
Nettezza Urbana li avessero già svuotati. Va bene rischiare una multa per
divieto di sosta. Ma uscire la mattina e non trovarsi più la macchina sotto casa
sarebbe stato un pedaggio troppo salato da pagare. Anche se quelle ore d’amore
rubate alla notte fossero state da tripudio dei sensi... In ogni caso, prima di
sistemare la Morris e uscirne in tutta fretta con le chiavi dell’auto strette in
una mano e quelle di casa già pronte nell’altra, dovette girare un po’ a vuoto.
Giusto il tempo di inforcare la Vespa sul cavalletto e di presentarmi davanti
alla portiera della sua Mini agitando davanti al suo naso un biglietto da
visita. Sopra c’erano stampati il mio nome, la fumosa qualifica di investigatore
privato, il mio indirizzo, i numeri telefonici e quello della licenza
all’esercizio della professione di ficcanaso.
«Non abbia paura, signorina Montello. Sono un investigatore privato e non voglio
farle alcun male».
Afferrò il biglietto e lo scrutò come se fosse un misterioso incunabolo.
«Come fa a sapere come mi chiamo?».
La sua voce era rauca. Dolcemente rauca.
«È una storia complicata. Se mi dà cinque minuti provo a spiegarle tutto».
Mi guardò con due occhioni neri da cui la passione degli amplessi aveva deterso
quasi ogni traccia di trucco. Appena una bava di ombretto sulle palpebre,
spalancate in una espressione di totale sbigottimento.
«Cinque minuti? Qui? A quest’ora?».
«E dove se no?».
Avrei potuto riprendere l’ultimo interrogativo e domandare: «Quando allora?».
Ma la prospettiva di continuare quella conversazione dentro casa, togliendomi
dal gelo della strada che da oltre due ore mi mordeva le orecchie, suonava molto
più allettante.
«Cosa vuole da me?».
«Solamente parlarle. A sposarla ci penserà il suo fidanzato, il dottor Gustavo
Camillo Pellegrini».
«Come fa a...?».
La perspicace fidanzata del mio cliente aveva capito tutto. La frase si incagliò
su quella pronta intuizione facendo naufragare la residua speranza d’essere
incorsa in uno spiacevole equivoco.
«Dunque non si fida di me! Mi ha chiesto di sposarlo e mi fa pedinare da uno
scagnozzo!».
La guardai con una faccia che si sforzava di mantenersi seria a dispetto delle
circostanze. Esitò un attimo, poi di colpo scoppiò a ridere, a ridere a
crepapelle. Il volto le si riempì di lacrime in un crescendo di esilaranti
singulti. I suoi sghignazzi come fiotti di champagne si propagarono nel silenzio
di via Fereggiano, mentre lei si teneva la pancia, piegata e ansimante in mezzo
alla strada deserta. Rideva, rideva. Contagiosa. Anch’io non riuscii a
trattenermi e cominciai a fare altrettanto. Tutti e due ridevamo, e sembravamo
due pazzi sotto la luna. In quella concitazione la pelliccia di visone,
probabilmente un regalo di Gustavo Camillo, si aprì lasciando sbocciare sotto il
maglione un seno di tutto rispetto. Appena riuscì a ricomporsi, mi guardò con
una complicità da vera bagascia di razza.
«Vuole salire un momento? Le preparo qualcosa di caldo».
Un trilocale truccato da appartamentino piccolo borghese in un grigio palazzone
da ringhiera proletaria dell’anteguerra. Entrando, col conforto di un teporino
da bagno caldo, mi assalì un vago effluvio di incenso. Ma fu subito sopraffatto
dall’aggressivo profumo sprigionato dalla pelle e dalla pelliccia
dell’inquilina, vero succedaneo di un primitivo feromone sessuale perdutosi con
l’evoluzione della specie. L’esuberante fidanzata del mio cliente gettò la
pelliccia sul fratino del soggiorno e mi invitò ad accomodarmi sul divano.
Quindi sparì nel proscenio della casa. La sentivo trafficare in cucina, poi fare
diverse abluzioni nel bagno e infine la vidi scivolare nella stanza da letto,
dalla quale sbucò fuori con addosso una vestaglia di ciniglia a fiori che le
arrivava fino ai delicati piedini da Cenerentola, calzati in due puffose
pantofole rosa. Si infilò nuovamente nella cucina e finalmente ne uscì con un
vassoio e sopra due tazze fumanti e una zuccheriera di finta porcellana inglese.
Il tutto faceva magnificamente pendant con l’odore di incenso e col decoroso
arredo piccolo borghese di quell’appartamentino di commessa dei grandi magazzini
che, a suo modo, si apprestava a fare il salto della quaglia. Dalle stalle alle
stelle. Fragranti, confortevoli, dignitosissime stalle. Ma il patrimonio del
futuro sposo ammontava a qualche centinaio di milioni di euro, il che costituiva
sempre una certa differenza. Sapevo poco di lei. Ma abbastanza da accettare
l’idea che qualche merito le andava riconosciuto. Aveva schiodato da un
impenitente celibato e da una fanciullezza protratta fino al limite dei
quaranta, oltre il quale qualunque ragazzone comincia a impensierire anche la
sua mamma, un compìto dottore commercialista rimasto folgorato dai suoi occhioni
neri, dal suo seno esplosivo e dal succedaneo del feromone che, una sera di
luglio, lo aveva assalito e rapito con la violenza di un tifone dei Tropici. In
una affollata discoteca della Riviera.
Posò il vassoio sul tavolino e si sedette sul divano vicino a me. Accavallò le
gambe e la vestaglia scivolò giù, scoprendo una coscia compatta e bianca come il
latte. Un rapido guizzo della mano subito la coprì. Mentre si chinava per
versare lo zucchero nelle tazze, dalla scollatura aperta trasparirono due
imponenti mammelle finalmente libere dal castigo del reggipetto.
«Questa tisana me l’ha consigliata il mio omeopata. È buona e rilassa».
La sua voce raschiava, come un’unghia che gratta una calza di nylon. Sorseggiava
piano e soffiava sulla sua tisana bollente. I suoi occhioni neri mi guardavano
da sopra la tazza con l’espressione di una bambina presa con le mani nella
marmellata.
«Mi perdoni se l’ho spaventata. Mi chiamo Bacci Pagano e sono un investigatore
privato».
«Piacere. Alma Montello», rispose allungandomi la mano.
«Commessa ai magazzini Coin», dissi sfiorandole appena le dita coi miei
polpastrelli.
«Sa anche questo?».
«Sì. E so che in primavera sposerà il dottor Gustavo Camillo Pellegrini. Il
rampollo di una famiglia che gli lascerà una dote miliardaria».
«Sì, il ventuno di marzo. All’equinozio. Gustavo Camillo ha voluto così. Dice
che porta bene».
«Auguri».
Fece spallucce.
«Ma adesso ha scoperto tutto».
«Aspetti. Non è proprio così. Indagare sulla sua fedeltà in amore non rientra
nel mio lavoro».
Sul viso incorniciato dai finti boccoli tinti di biondo lo stupore sbocciò
fresco come una rosa. Gli occhi senza più trucco e le labbra senza rossetto si
illuminarono d’una gioia inattesa.
«Vuol dire che... Non mi ha pedinato per sapere se ho un amante?».
«Certo che no. Gli affari di corna mi fanno schifo e cerco di occuparmene meno
che posso».
«E allora perché?».
«Voglio solo sapere con chi ha trascorso la serata».
«Non è la stessa cosa?». «Neanche per idea. A me interessa conoscere il nome.
Quel che avete fatto riguarda solo voi due. Tutt’al più, il suo futuro sposo».
«Perché, non è stato lui a ingaggiarla?».
«No. Lui non sa niente, anche se sono pagato coi suoi soldi».
«Mi scusi ma proprio non capisco».
«Non importa. Mi faccia quel nome».
«Se lo scordi. O lei mi spiega tutto oppure...».
«È sicura di essere nella posizione più adatta per porre delle condizioni?».
«Mi sta forse ricattando?».
«Se vuole metterla così. Coraggio, signorina, fuori quel nome. Mi risparmi la
fatica di andare a far domande in quel palazzotto di corso Carbonara. Sa come
vanno a finire queste cose, cominciano a girare certe voci. Genova è un grande
paese».
«Scommetto che è stata la madre di Gustavo Camillo ad assoldarla. Quella brutta
strega...».
«Diciamo che è stata la finanziaria Pellegrini Co. I miei clienti temono che
lei, senza saperlo, intrattenga amicizie e conoscenze con personaggi della più
pericolosa concorrenza. Così mi hanno assoldato per vegliare sui propri
interessi senza creare problemi al vostro... come posso chiamarlo? Idillio
d’amore?».
«E Gustavo Camillo non sa niente?».
«Se proprio insiste lo informiamo».
«No no, per carità».
Ora fui io a fare spallucce. Alma posò la tazza vuota e con le braccia allungate
tra le gambe cominciò a raccontare, imbarazzata.
«È una storia vecchia. È cominciata quando frequentavo l’istituto professionale.
Alberto ci insegnava diritto commerciale e faceva girare la testa a tutte le
ragazzine della scuola. Andavamo pazze per i suoi baffetti biondi. Io già allora
ero abbastanza... vistosa, lui mi ha messo gli occhi addosso e siamo diventati
amanti. Sì amanti, perché lui non è certo il tipo che si fidanza con una
commessa. Ci vedevamo, facevamo l’amore, lui giurava eterno amore e prometteva
di telefonarmi il giorno dopo e invece per due settimane non si faceva più
sentire. È andata avanti così per anni. E dura ancora, perché non nego che a me
Alberto continua a piacermi. Anche se adesso ci vediamo raramente. Forse una
volta al mese».
«Alberto e poi?».
Un attimo di esitazione. Gli occhi cercano un punto del soffitto dove si possa
saltare nel vuoto senza farsi male.
«Alberto Losurdo».
«Naturalmente sa tutto di lei e di Gustavo Camillo».
«Sicuro».
«E non le ha mai chiesto niente degli affari della famiglia?».
«Se anche fosse, io non so niente dei loro affari...».
«Meglio così. Il problema è che presto le chiederà di passargli informazioni
dettagliate. Se lei non lo farà, magari la minaccerà di spifferare tutto a
Gustavo Camillo. Vede in che brutto pasticcio si è cacciata, signorina
Montello?».
La preoccupazione diventa panico e i suoi occhioni neri si fanno lucidi. Implora
aiuto, ma non solo. Si capisce che dietro l’apprensione per il futuro c’è
l’amarezza del passato e del presente. Dunque Alberto non la cerca più perché
lei è Alma Montello, la studentessa più vistosa dell’istituto professionale.
Provo a tranquillizzarla.
«Ma a tutto c’è rimedio. Troveremo una via di uscita».
Un sussulto di spavento.
«Non lo ucciderete mica?».
«Per chi mi ha preso? Io sono un investigatore privato, non un killer. Anche
Losurdo ha i suoi punti deboli. Useremo quelli per neutralizzarlo».
Un sospiro di sollievo. Allora provo a consolarla perché, effettivamente,
vistosa è vistosa.
«Stia pure tranquilla, Gustavo Camillo la condurrà all’altare ignaro come un
bambino. E vivrete per sempre felici e contenti».
«Dice davvero?».
Allungo una mano e col dorso le accarezzo una guancia.
«Sa che la sua tisana è davvero buona? E rilassa».
Sento il suo impercettibile irrigidirsi, ma la mia mano non si muove. Resta
sospesa per aria, farfalla vogliosa e smarrita, sfiorando la pelle morbida della
sua guancia. I grandi occhi neri mi guardano con desolata tenerezza.
«No, la prego...».
Con un gesto lento lento la sua mano si porta sulla mia e la spinge lontano.
Mi lascio avvolgere da un malinconico languore e penso che, dopo tanto freddo,
non mi prenderò nemmeno gli avanzi lasciati da quel figlio di puttana di Alberto
Losurdo.
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