bye bye Baghdad
Luoghi, persone e storie
della pax americana
 

un libro di Fulvio Scaglione


Introduzione


Metà febbraio 2003 e nell’albergo Al Sadir, a quattro passi dalla piazza che sarebbe finita in mondovisione per l’abbattimento della statua di Saddam Hussein, si dormiva poco. Era Eid al Kabir, la grande festa islamica che chiude la stagione dei pellegrinaggi alla Mecca, ma anche il grande giorno delle varie Safija, Zina, Mariam. Arrivavano appena faceva buio in tutti gli alberghi di Baghdad, le famiglie più ricche nei grandi hotel dai nomi occidentali, le altre in quelli iracheni. Erano carichi di valigie perché la prima notte di nozze si passa così, fuori casa, la sposa seguita dalla suocera, lo sposo consigliato e incoraggiato da amici più dispersi e spaventati di lui. Safija e le altre emozionate e compunte, tutto intorno caroselli di tamburi e trombette, bambini strillanti e parenti danzanti, donne che lanciavano quel grido di lingua e di gola che può significare lutto o gioia, e venditori ambulanti di dolci e piccoli giocattoli. Eid al Kabir è anche stagione di matrimoni e faceva più che tenerezza vedere quelle coppie (lei in bianco con veletta e ricami barocchi, lui per lo più in orrido marrone) promettersi le più grandi speranze in ore in cui di speranza non se ne trovava più.
 
Eid al Kabir aveva portato con sé anche una riunione straordinaria dell’Assemblea Nazionale, lo pseudo-Parlamento iracheno, convocata per votare una legge che prevedeva la messa al bando di tutte le armi non convenzionali, cioè le armi chimiche o biologiche che da anni Saddam Hussein dichiarava, secondo estro del momento o necessità politica, di non avere, di avere in gran quantità, di aver già quasi del tutto eliminato. Un gesto forse importante ma giunto troppo tardi, un tentativo di “comprare” altro tempo, altre trattative, quando gli Usa già rinnegavano ogni tempo e qualunque trattativa.
 
Ma al di là, e anzi prima della politica, colpiva il volto contratto e distorto dal rancore di Sadun Hammadi, il presidente dell’Assemblea. Sembrava incredibile che un ometto piccolo, distinto, esperto e pure colto potesse dire, osannato dai deputati, cose come “l’Iraq sarà il cimitero degli americani”, “il nostro popolo diventerà un esercito di mujaheddin”, “ogni musulmano onesto abbraccerà la nostra causa”. Poi, certo, uno pensava che l’ombra lunga e nera di Saddam aveva coperto anche una classe dirigente di cui Hammadi era un esempio perfetto: lui che, pur essendo sciita, aveva accettato la carica di primo ministro proprio nei giorni del 1991 in cui il Rais, sotto l’occhio benevolmente distratto degli americani, massacrava gli sciiti in rivolta a Bassora, Najaf e Kerbala.
 
L’avevo anche incontrato e intervistato, Hammadi. Quando i missili Tomahawk cominciarono a spazzare Baghdad, il 19 marzo, Hammadi sarà corso in qualche bunker o in un luogo sicuro fuori città. Zina, una delle sposine incontrate all’Al Sadir, avrà invece guardato fuori dai vetri sperando che Allah tenesse d’occhio l’appartamentino di due stanze e un bagno che i genitori erano riusciti a trovare per lei e per il marito Ahmed nel quartiere di Khadimiya.
 
Delicatamente protetta dal suo velo bianco, nella prima notte di nozze, Zina non parlava con lo straniero. Riferiva il padre, il signor Tawfik, ingegnere civile, che infine trovava qualcosa da fare in una serata dominata dalle donne. “No, i prezzi delle case non sono calati, anche se gli americani minacciano di buttare giù tutto”, diceva: “Non so, forse nessuno crede davvero che possa succedere di nuovo. O forse sono speculazioni: se la tua casa resta in piedi e le altre no, aumenta di valore… Comunque sono bravi ragazzi, Ahmed è un meccanico con tanta voglia di lavorare, e meritano di avere qualcosa per cominciare una vita insieme. Non come me e mia moglie, che venivamo dal Nord e quando ci siamo trasferiti a Baghdad non avevamo proprio nulla”.
 
Chiesi all’ingegner Tawfik se era vero che, in caso di attacco, gli iracheni avrebbero combattuto casa per casa, come andava predicando la propaganda di regime. “Forse”, fu la risposta. No di certo, o almeno così parve a me, il senso delle sue parole. E di nuovo, dietro la sua faccia felice per l’occasione ma segnata dal tempo e dalle fatiche di una vita, si affacciava quella liscia e rabbiosa del presidente del Parlamento. Zina si alzò dalla poltrona nella hall, era tempo di un altro giro nel cortile tra i parenti in festa. Scostò appena la veletta. Disse “bye bye”, sorrise e se ne andò facendo frusciare l’abito.
 
Oggi tendo a credere che la voglia di scrivere questo libro abbia cominciato a germogliare quella sera, mentre dal letto guardavo il soffitto, ascoltavo trombette e tamburelli e mi chiedevo che cosa ci volesse, se coraggio o incoscienza, se scarso senso pratico o grande intelligenza, per sposarsi e metter su casa proprio alla vigilia di una guerra. Sappiamo com’è cominciata, com’è andata e com’è finita ma allora si poteva pensare, e infatti molti lo dicevano, di tutto: anche che gli americani avrebbero spianato Baghdad, anche che Saddam avrebbe usato i gas piuttosto che lasciar prendere la “sua” capitale.
 
Se fosse buona o no l’idea di sposarsi proprio allora, ho ancora qualche problema a deciderlo ma sono contento per Zina e Ahmed. E per me: che da giornalista, da estraneo, da curioso ho comunque partecipato a un momento speciale.


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