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Il 1848 e le
cinque giornate di Milano
di
Antonoio Monti
Prefazione
Alla testa del corteo che nel pomeriggio
del 18 marzo 1848, fra un tripudio di bandiere e di coccarde tricolori e fra gli
evviva a Pio IX e all’Italia, si recava al palazzo del Governo in via Monforte,
si notava un giovane abate, chiamato G. B. Zaffaroni. Era uno di quei chierici
del Seminario che frequentavano i corsi di teologia ed erano alla vigilia di
ricevere gli Ordini Sacri.
In una sosta del corteo il giovane abate notò una bellissima signora che da un
balcone gli faceva cenno di salire. Lo Zaffaroni volò al primo piano e la
signora, che seppe poi essere la Contessa Suardi, gli diede un pugnale, e gli
disse: «Va’ e ferisci l’oppressore che oltraggia la bella Italia nostra!». Poi
lo baciò in fronte e lo accomiatò. Il giovane abate riprese il suo posto nel
corteo.
Arrivato questo davanti al Palazzo del Governo, dove un gigantesco soldato
austriaco ostruiva l’ingresso minacciando col fucile, lo Zaffaroni con un balzo
felino aggredì il gigante e gli piantò il pugnale nel cuore. Il bacio della
patriota aveva infiammato il cuore del giovane già votato alla patria.
Il primo sangue versato dal soldato austriaco inebriò la folla, e la
dimostrazione, da pacifica che sembrava voler essere, si cambiò in una delle più
sanguinose rivolte, che la storia ricordi, secondo le disposizioni impartite il
giorno prima dal Comitato Segreto. Centinaia di barricate poche ore dopo
coprivano Milano, e il Maresciallo Radetzky, facendo sparare le artiglierie dai
torrioni del Castello, ne sentiva il rombo quasi soffocato dal tragico suono
delle campane a martello delle 200 chiese di Milano.
Sembrerebbe una scena pensata dalla fervida fantasia dell’autore di un film «quarantottesco»,
mentre non è che pura, documentata realtà1.
Fra i patrioti che formavano la testa del corteo c’era, accanto all’Arcivescovo
Romilli scortato dai trombettieri municipali, un signore sulla cinquantina,
dalla figura caratteristica di pedagogo o professore; era il dott. Angelo Fava,
noto educatore dei fratelli Dandolo. Intorno a lui era un gruppo di giovani
delle migliori famiglie di Milano, educati in quell’Istituto Boselli2
che era fucina di patriottismo e di cui la guerra ha completamente distrutte le
tracce, benché non sia passato che qualche decennio da quando si era fuso, prima
con l’Istituto Bognetti e poi col Collegio Calchi-Taeggi. Quei giovani si
chiamavano Luciano Manara, Emilio Morosini, Enrico ed Emilio Dandolo, Lodovico
Mancini... Erano fra loro due sacerdoti: il barnabita Alessandro Piantoni e Don
Carlo Sacchi.
Quest’ultimo poche ore prima, nella Chiesa di S. Bartolomeo, aveva impartito a
quei giovani l’assoluzione come in articulo mortis; il Padre Piantoni li aveva
impegnati a combattere contro gli Austriaci, e non li lasciò neppure quando la
lotta si accese accanita sulle barricate.
La rivoluzione delle Cinque Giornate scoppiò esattamente tre secoli dopo il
magnanimo tentativo del lucchese Francesco Burlamacchi, che nel 1548 fu
decapitato nel cortilone del Castello di Milano, colpevole di aver cospirato per
abbattere i troni italiani al tempo di Carlo V; liberando l’Italia dagli
stranieri, egli voleva impiantarvi delle repubbliche. Era un ideale allora da
pochi inteso e da nessuno seguito. Ma quale traccia lasciò nel futuro
d’Italia!...
Cantò di lui Giosué Carducci nell’Ode «Alla Casa di Savoia»:
E fu primo Burlamacchi,
Dato a morte e pur non vinto,
Contro il fato e Carlo Quinto,
Il futuro ad attestar.
Questo volume è essenzialmente un volume
di ricerche storiche sugli avvenimenti del 1848, condotte su preziosi documenti
inediti che ci hanno permesso di rifare la storia delle Cinque Giornate
all’infuori d’ogni influenza retorica e di ogni amplificazione partigiana, senza
che per questo le Cinque Giornate appaiano meno grandiose. Abbiamo anche potuto
sfatare più di una leggenda, come quella dell’armistizio chiesto da Radetzky, e
di aggiungere molti fatti nuovi che tutti concorrono a provare come il ’48 sia
nella storia d’Italia l’anno in cui il passato e l’avvenire furono congiunti
mediante il nesso della libertà e della indipendenza, frutto in parte della
educazione data da Giuseppe Mazzini alle nuove generazioni, in parte della
collaborazione della Casa di Savoia3,
nonché della audacia con cui alcuni uomini della nobiltà e della borghesia
seppero preparare la rivoluzione con un abile lavorio clandestino durato qualche
anno.
Una delle cose finora discusse era l’esistenza di un Comitato Segreto che
avrebbe preparato la rivoluzione; si faceva perfino dell’ironia affermando che
un comitato non esisteva e che il movimento scoppiò quasi per generazione
spontanea in un popolo a lungo conculcato. Ma anche questo mito va ora ripudiato
alla luce dei nuovi documenti.
Il Comitato Segreto effettivamente esisteva, si divise in decurie e in centri di
preparazione e fu pronto a trasformare la dimostrazione pacifica del 18 marzo
nella rivolta, di cui erano stati preordinati i capi, le armi, le posizioni.
Noi Milanesi abbiamo il culto, la fierezza, la poesia delle nostre Cinque
Giornate. Qualche volta, come accade spesso a chi si sente l’erede di un nome
onorato da magnanime imprese, siamo perfino portati a pensare d’essere stati noi
gli iniziatori del patrio Risorgimento, il che non corrisponde alla verità.
Ma quale fascino ha ancora per noi questo benedetto Quarantotto!.... Tutte le
volte che passiamo dalla piazza del Duomo il nostro occhio corre alla guglia
maggiore dove la Madonnina sfavilla rutilante nell’azzurro del cielo, o ci
sembra di vederle sventolare accanto la bandiera tricolore, portatavi con grande
ardimento da luigi Torelli nel pomeriggio del 20 marzo, un’ora dopo che era
stata respinta la proposta d’armistizio, presentata all’insaputa di Radetzky da
un suo ufficiale disertore o fellone4.
Quando svoltiamo l’angolo di via degli Orefici, ci par di dover subito imboccare
la contrada dei Mercanti d’Oro e, giunti ai gradini del tempio, ci par di
riudire il curioso dialogo svoltosi fra Giuseppe Piolti de Bianchi e la
sentinella croata sull’imbrunire del 19 marzo:
– Ti venir chì!
– Venir chì ti!
–
Ti venir chì!
– Venir chì ti!
dialogo troncato dalle fucilate del croato che
inseguivano il patriota fra i portici del Rebecchino.
Molti ricorderanno,
in occasione del prossimo Centenario delle Cinque Giornate, le grandi
celebrazioni del Cinquantenario, – fatte in Milano nel marzo 1898, due mesi dopo
funestate da gravi fatti di sangue.
Nel ’98 eravamo ragazzi e davamo la nostra
ammirazione ai pochi veterani del ’48, tutti oltrepassanti la settantina. Li
chiamavamo i «Bersaglier de la Signora» perché in via della Signora, al
Verziere, c’era il Luogo Pio Trivulzio, ricovero dei vecchi. Il popolo li
satireggiava bonariamente con la parola
milavottcentvoltessindree
quando
intervenivano ai cortei col loro cappello alla calabrese, ornato della coccarda,
molti anche in camicia rossa, col berretto ammaccato messo di traverso
sull’occhio destro, coi pantaloni grigi serrati nelle uosa. Trascinavano la
stanca persona, che si raddrizzava come per una magica scossa al suono della
«Bella Gigogin», del «Si scopron le tombe», e del «Suona la tromba, ondeggiano».
Avremmo data, noi ragazzi, la nostra vita, per impedire che quei veterani
scomparissero ad uno ad uno, seguiti al Camposanto dai compagni superstiti e
dalla bandiera del Comizio dei Veterani Lombardi.
Passeranno anche le
celebrazioni del Centenario, si chiuderanno le cateratte dei discorsi coi quali
gli oratori dei vari partiti cercheranno di rivendicare al proprio partito il
maggior merito delle Cinque Giornate, e rimarranno soltanto dei volumi che
avranno forse la vita di pochi mesi e poi andranno ad alimentare l’insaziabile
voracità dei topi che la fanno da padroni nelle biblioteche.
Che fare?
Tutto è
cambiato della Milano del Quarantotto. Anche gli ultimi ricordi toponomastici
sono stati in questi anni cancellati dagli entusiasti della «grande Melano», pei
quali il «Quarantotto» milanese ò soltanto quello riassunto nell’espressione
«l’è un quarantott», cioè un’epoca di confusione e di disordine.
Da quel
momentaneo, apparente disordine è però nata l’Italia libera, voluta da Dio.
Milano, 30 novembre 1947
Note
1 Si veda a p. 45.
2 Il Direttore Antonio Boselli fu una delle prime vittime delle Cinque Giornate, ucciso il 18 marzo nei
pressi del suo Istituto in Via dei Bossi.
3 B. CROCE, Lettera in data 7 novembre
1947, nella «Gazzetta del Popolo».
4 Vedasi il cap. IV.
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