Sos contos de foghile
I racconti del focolare

fiabe e leggende della Sardegna
raccolte da
Francesco Enna


I generi di fiabe raccolte nel libro:
Contos, Contascias, Paristorias

Sos contos de foghile (I racconti del focolare)
Quando si va nei paesi della Sardegna alla ricerca di racconti popolari e si chiede genericamente di ascoltare Contos o Paristorias, spesso si ottengono soltanto risposte evasive o addirittura sorrisetti ironici, come se si richiedesse di riaprire discorsi che appartengono ad un mondo ormai sepolto o, al limite, circoscritto all’età infantile. Ma se si chiede di raccontare Contos de foghile, allora il discorso cambia, perché in tal caso non è il genere narrativo in sé che entra in discussione, ma soprattutto un’ambientazione ben nota: è “il tempo del racconto” che ritorna.
Tutto incominciava dopo il tramonto, ti dicono, al rientro dal lavoro. E la dimensione temporale sembra trasferirsi in un’epoca remota, che è poi l’età preindustriale di sessanta/settanta anni fa, ma che sembra già appartenere ai miti dell’infanzia. Dopo una cena frugale, ci si sedeva sugli sgabelli di ferula o di sughero attorno al focolare (su foghile fattu de battor predas: il focolare delle antiche “pinnette”, fatto di quattro pietre al centro della stanza), e in tempi più recenti attorno al caminetto (sa ziminera), e qui si incominciava a parlare, ad ascoltare e a fissare i ricordi d’una giornata quasi sempre monotona e faticosa. Era una sosta necessaria prima del riposo vero e proprio: e si parlava di tutto. I Contos erano telegiornale, spazio pubblicitario e spettacolo serale insieme. Ma con in più quel senso vivo di partecipazione umana che oggi il piccolo schermo ha reso ormai quasi sterile.
I Contos de foghile di questo primo capitolo sono stati registrati interamente a Orani, un piccolo centro della Barbagia, in casa del signor Giovanni Maria Meloni, che all’epoca (primi anni Settanta) aveva già novant’anni, ma li portava ancora bene e soprattutto mostrava di avere ancora una memoria di ferro.
Era presente alla registrazione dei Contos anche la signora Maddalena Deriu di Macomer, una simpatica signora di ottant’anni, che si è ben inserita nella narrazione con alcune efficaci leggendine sulle janas e due vere “perle”: Sa Paristoria de Maria Giusta (che in questa edizione abbiamo preferito inserire nel capitolo delle Paristorias, a chiusura dell’intera raccolta, come autentico cammeo finale), cronaca cantata di un antichissimo sacrificio dell’acqua, e due brevi storie sul Geronticidio, l’antico rito dell’uccisione dei vecchi, testimoniato in Sardegna da molti studiosi.
In genere, gli informatori intervistati si sforzano di ripescare faticosamente dalla memoria aneddoti, fiabe e leggende, senza preoccuparsi di seguire un vero e proprio filo conduttore. Il nostro informatore di Orani, invece, parla a ruota libera, senza pause né intoppi. Sa già che cosa vogliamo, perché un comune conoscente lo ha messo al corrente del nostro arrivo, ed è evidente che ha avuto modo di preparare un discorso pertinente e di ricreare l’ambientazione necessaria: inconsciamente sta rievocando per il nostro microfono l’atmosfera tipica d’un’autentica serata attorno al focolare: a su ’ochile, con la “f” inziale aspirata, secondo una caratteristica fonetica del dialetto oranese, che noi rispetteremo nelle prime storie, seguendo una trascrizione fonologica, per ritornare poi alla trascrizione etimologica più corretta nel resto della narrazione.
I racconti che seguono hanno lo scopo dichiarato di “tenere svegli i bambini”, in quanto i veri destinatari di quelle storie sono proprio loro, i bambini. Infatti, è questo il momento in cui all’esempio delle azioni assimilate nell’arco della giornata segue l’esempio della parola, che consente di assimilare il “modello culturale” del gruppo da parte dei suoi componenti più giovani.
L’obiettivo finale del narratore esperto, in sostanza, in una serata attorno al focolare, non sono i piccoli jests umoristici dei primi racconti o le fiabe che seguono, ma le ultime due storie realistiche, quelle sul balente Boreddu Zoroddu di Orotelli, che compie imprese significative, reagendo alle razzie di altri balentes, vendicando l’onore della propria famiglia e comportandosi in ogni momento da “vero uomo”; in una parola assumendo in sé tutti i valori del gruppo sociale a cui appartiene e in cui i bambini dovranno identificarsi.

Sos contos de foghile
Sos contos de (fo)ochile sun custos.
Anticamente b'aìat una cochina chi aiat su 'ochile mesu mesu, compostu de battor predas. Sicché, a sero (f)acchiana su 'occu cudane, sa famiglia s'inghiriabat su 'occu e tanto contabana contos pro 'acchere istare ischidos sos pitizinnos.
Su sero, prima de andare a dormire, sa mere 'e sa domo cucuzabat su 'occu chin sa chisina, chi a s'incras la ponian in d'unu rezipiente, proite custa serbiat pro su bucatu.

 

I racconti del focolare
I racconti del focolare sono questi.
Anticamente (nelle case) c’era una cucina con il focolare al centro, composto di quattro pietre. Così, di sera si accendeva il fuoco, tutta la famiglia si sedeva attorno al focolare e si raccontavano storie per tenere svegli i bambini.
Sul tardi, prima d’andare a dormire, la padrona di casa ricopriva la brace con della cenere, che il mattino dopo veniva conservata in un recipiente, perché doveva servire a fare il bucato

 

Sos contos de jannile (I racconti sulla soglia di casa)
Oltre a su foghile, luogo principe deputato alla narrazione dei Contos, esistevano nel corso dell’anno anche altri momenti e occasioni di racconto, con l’obiettivo di mantenere intatti i contorni della memoria collettiva.
Ad esempio, durante le interminabili nottate delle Novene delle feste religiose, all’interno delle cumbessias (le casette che contornavano le piccole chiese di campagna, dentro cui pernottavano i pellegrini), sas mastras ’e contascias, le maestre di fiabe (talvolta persino “ingaggiate” dall’esterno), davano fondo a tutte le loro conoscenze fiabesche e leggendarie per intrattenere amici e ospiti. Ma anche durante le pause serali degli incontri collettivi per la raccolta del grano e dell’uva, oppure durante s’ispuligadura, la spigolatura del granturco, fiabe e leggende contribuivano a rendere meno monotona la ripetitività dei gesti d’una dura giornata di lavoro.
Altre occasioni di racconto, legate questa volta a oscuri e primordiali motivi di esorcizzazione delle forze del male, erano le veglie per i parenti defunti, le notti trascorse a far bollire in grandi paioli comunitari panni sporchi e lenzuola e persino i momenti di cottura del pane nei forni, di primo mattino. In questi casi, le fiabe da sole non bastavano a tenere lontane le oscure forze maligne che impedivano all’anima del morto di lasciare il corpo, oppure all’acqua bollente di disinfettare i panni o al lievito di gonfiare il pane. Occorrevano allora storie molto più “forti”: contos di vivi e di morti, storie di Purgatorio e di anime dannate, racconti orrorifici di scheletri e di morti viventi che nessuno doveva interrompere, per non scatenare la reazione dei sospettosissimi spiriti della notte. Era la magia della parola contro l’atavica paura del buio. E c’erano, infine, i Contos de jannile, i racconti della soglia di casa, il limen dei latini (il liminargiu, appunto, dei campidanesi).
I racconti della soglia rispondevano ad una precisa necessità di più ampia socializzazione dei Contos, giacché si rivolgevano verso l’esterno dell’abitazione, direttamente sulla stradina o sul “patio”, la piazzetta in stile spagnolo che metteva in relazione fra loro tutte le case del vicinato; oppure all’interno de sa lolla, l’ampio cortile interno che, nel Campidanese, costituiva (e in parte costituisce ancora oggi) lo spazio di relazione privilegiato dei diversi nuclei d’una grande famiglia patriarcale.
Sedute direttamente sulla soglia di casa, oppure su sediette di sughero o di ferula, collocate quasi frontalmente l’una con l’altra, le comari del vicinato cucivano o sferruzzavano continuamente, oppure tessevano e arrotolavano con gesti immutabili il filo di lana lungo e forte attorno alla rocca. E tra uno scambio di informazioni usuali e di cortesie, tra un pettegolezzo e l’altro, infilavano anche brevi racconti, facezie, barzellette, aneddoti divertenti, ma anche memorie di vecchie tragedie o di salaci commedie, per far trascorrere le lunghe ore dei pomeriggi assolati, così da raggiungere senza noia le prime ombre del crepuscolo.
«Ma d’inverno – raccontava la signora Maddalena Deriu di Macomer – se dalla valle saliva il Maestrale, già dall’imbrunire ci si chiudeva in casa, perché sos bentoso sun diaulos, i venti son diavoli». E ai diavoli non bisogna dare alcun appiglio di contatto, neppure di tipo narrativo. «Invece, quando la sera era chiara o piovigginava appena (fit rosinande), si stava sulla soglia di casa fino ad ora tarda. E allora sì che i capi di lana sul fuso venivano lunghi e forti!».
Non a caso, dunque, per l’apertura di questo capitolo abbiamo scelto la favola della morte di Comare Cabixeta (Lucertola): storiella iterativa, che racconta di una lucertola che dimentica sul fuoco una casseruola con l’uovo da friggere, scatenando le illazioni delle comari del vicinato, che la danno per morta e l’annunciano a tutto il paese con doloroso pettegolio.
 

Contascias e Contados (Fiabe semplici e complesse)
In questo capitolo abbiamo raccolto un numero piuttosto consistente di “Fiabe di magia”, le cosiddette Contascias o Contados in Logudorese e Campidanese (nella parlata catalana di Alghero sono invece chiamate Rundalias). Il termine Contascia ha già in sé una sorta di significazione affettiva, perché principalmente destinata all’infanzia, anche se gli adulti, nelle particolari situazioni comunitarie in cui venivano raccontate, non ne disdegnavano l’ascolto. Nel Logudoro, i narratori di fiabe più famosi venivano chiamati Mastru ’e constascias (Maestro di fiabe) e godevano di particolare considerazione, tanto da meritare, in alcuni casi, dei veri e propri compensi, sia pure in natura.
Nell’insieme, le fiabe di questa raccolta non divergono molto dai tipi, temi e fiabemi conosciuti in tutto il mondo. In pratica se ne distaccano un poco alcune di quelle a struttura semplificata, come Martineddu Ifferradu, che lascia intravedere sviluppi molto più complessi, del genere L’Ammazzadraghi, e Il Gatto Mammone, del tipo Sorella buona e sorella maleducata, ma solo per via dell’insolito personaggio magico che le dà il titolo. Altre fiabe non molto diffuse altrove, sono La bambola Caterinetta (del tipo La bambola di pasta) e Bellupeldomine, di difficile classificazione.
Ciò che caratterizza maggiormente le contascias sarde sono: l’ambientazione, facilmente individuabile, anche se mancano quasi del tutto le descrizioni (ma questa è una caratteristica “planetaria” delle fiabe vere e proprie), una certa “asciuttezza” di narrazione e soprattutto la prevalenza dell’elemento femminile tra i personaggi principali. Non a caso, quasi tutte le protagoniste si chiamano “Maria” o “Mariedda”, che è poi uno dei nomi più diffusi, in Sardegna come altrove, ma anche quello più facilmente identificabile come “eroina”. Le nostre eroine si chiamano, infatti: Maria Intaulada (Pelle d’Asino), Maria Chisjnera (Cenerentola), Maria ’e su Buscu (una Biancaneve che se la vede con 12 banditi e non con 7 nani), Maria Bella ’e s’appiu (Petrosinella) eccetera. E la loro struttura non differisce di molto da quella delle fiabe omologhe conosciute in tutto il mondo.
Rispetto alla prima edizione, anche in questo capitolo abbiamo inserito alcune fiabe in Campidanese (Maria Intaulda e La bella che sposò Lusbè), la cui assenza, data la loro vasta diffusione in Sardegna, rischiava di sminuire un poco il “valore” della nostra raccolta. Naturalmente, un po’ per compensazione ma soprattutto per ragioni di sintesi, abbiamo preferito eliminare alcune delle fiabe di quella edizione che non ci sono mai sembrate molto significative, vuoi per carenze narrative o, più semplicemente, per eccesso di contaminazioni e di sovrapposizioni di motivi.
Fra le altre fiabe, si fanno preferire: per vivacità di esposizione, Don Giuanninu Infurradu (un Gatto/Volpe senza stivali) e Bellubeldomine, particolarmente avvolta in un clima magico da superstizione popolare.
 

Contos de birbantes e de maccos (Storie di furbi e di sciocchi)
Le storie dei furbi e degli sciocchi hanno sempre avuto un grande successo presso qualunque uditorio, durante le serate attorno al focolare. Basti pensare al ciclo medievale del contadino Bertoldo, che si fa beffe quasi impunemente di re e regine, le cui avventure hanno un illustre precedente nella vita avventurosa e sfortunata del grande favolista Esopo (VI secolo a.C.); oppure agli incredibili scherzi dei personaggi buontemponi delle novelle del Boccaccio: facezie e novelle di vario genere, a cavallo tra fiaba e aneddoto.
Questo genere di storie comprende soprattutto racconti aneddotici e persino barzellette, il cui compito principale è quello di tenere su di morale l’uditorio, per prepararlo all’ascolto delle fiabe vere e proprie e alle paristorias.
Il repertorio di per sé è ricchissimo, perché varia dalle singole avventure di personaggi del tipo “Giuffà” a vere e proprie saghe incentrate su “eroi” facilmente identificabili in manigoldi e profittatori dell’ingenuità di alcune popolazioni, i cui abitanti vengono descritti come dei semplicioni facili da raggirare, come capita, ad esempio, nella saga di Mussingallone (Monsiù Gallone): personaggio quasi storico (forse un ex ufficiale napoleonico oppure un alto funzionario piemontese), il quale approfitta dell’ingenuità degli abitanti del paese di Lodè, nella Barbagia, per campare a sbafo. Oppure il giovane Pisigulu (Ficcanaso), alle prese con dei fratelli egoisti e molto stupidi, che si lasciano gabbare con facilità.
Naturalmente, i racconti dei furbi e degli sciocchi possono essere inseriti facilmente anche nel genere fiabesco e in quello leggendario, perché si prestano benissimo anche in funzione di prologo a storie più complesse. Ne sono un esempio, in questa raccolta, la fiaba de Sa mula cagainari (Contascias e Contados) e alcune leggende sui diavoli gabbati, come ad esempio Sant’Antoni de su fogu, oltre alle innumerevoli leggendine su Gesù e San Pietro, che in questa raccolta abbiamo preferito comprendere nell’ultimo capitolo, quello delle cosiddette Paristorias (Leggende).
 

Paristorias (Miti e leggende)
Per uno di quei bizzarri capricci del destino, che si diverte spesso a mescolare le carte della storia, mentre nel resto dell’Europa impazzava il Medioevo, la Sardegna entrò in una sorta di limbo epocale molto simile ad un Rinascimento anticipato, magari un po’ povero ma anche alquanto sereno e un po’ misterioso, se non addirittura magico.
Era accaduto, infatti, che la dominazione araba sui mari del Mediterraneo, intorno al 700 d.C., aveva reso impossibili i già precari contatti con l’Impero Romano d’Oriente, quello bizantino, di cui la nostra isola era una delle province più lontane e periferiche. Non solo: mentre in Sicilia gli arabi si erano insediati più o meno stabilmente, in Sardegna, terra di rapina, avevano mandato, invece, i loro pirati, ad assaltare porti, massacrare pescatori e catturare schiavi, costringendo i sardi a tenersi lontani dalle coste e a chiudersi ancora di più nel proprio isolamento.
Col passare del tempo, mentre lungo le coste le antiche terre già bonificate dal lavoro ridiventavano paludi e vi si scatenava il biblico flagello della malaria, nessuno si preoccupò di avvertire la Sardegna – sempre più isola nell’isola – che tutto era finito, che gli antichi padroni l’avevano abbandonata a se stessa, che si poteva far a meno del “Codice Giustinianeo”, che l’imperatore Costantino non era più il tredicesimo apostolo di Cristo e che, di lì a qualche millennio, non sarebbe stato più nemmeno santo.
Ma la cosa più straordinaria fu che nessuno avvertì i suoi “giudici” – e cioè i viceré dell’Impero, un po’ magistrati e gabellieri, oltre che imperscrutabili detentori di poteri misteriosi provenienti da un mondo lontano – che non rappresentavano che se stessi. Ed essi, i giudici, abituati da sempre a far da sé, ad autoreplicarsi senza attendere i ricambi, continuarono imperterriti ad amministrare la giustizia, ad impartire antiche e rassicuranti disposizioni, ad organizzare in maniera sempre uguale la vita nei loro “giudicati” per altri tre o quattro secoli (un terzo di millennio!).
Rinchiusi nel loro barbarico isolamento, quasi dimenticati dal resto del mondo, i sardi ricostituirono la loro silenziosa civiltà, fatta di piccoli villaggi senza tempo, quasi irraggiungibili fra loro e pure comunicanti attraverso gli stessi riti e le stesse antichissime regole non scritte, con la supervisione di questi straordinari giudici, forse sempre gli stessi, immortali custodi di una mitica “Avalon” del Mediterraneo che nessuno cercava più.
Fino a quando i nuovi pirati delle Repubbliche marinare e, soprattutto, i detentori di nuovi poteri imperiali, sui cui confini “non tramontava mai il sole”, non scoprirono nuovamente la Sardegna e vi importarono il Medioevo.
Da quel remoto e affascinante periodo storico ci viene la parola Paristòria, dal greco-bizantino Paristorìa, nel senso di falsa narratio (Wagner, D.E.S. II), ma anche, diciamo noi, di “para-historia”: “quasi storia”, insomma, che insaporisce e arricchisce i fatti storici veri e propri.
Storia e Paristoria, ad esempio, accompagnarono da sempre le imprese di Donna Eleonora, l’ultima grande Giudicessa, eroina dalla spada incantata e dagli oscuri poteri taumaturgici, capace di conquistare castelli e di sconfiggere la Morte. Ma Storia e Paristoria s’incrociano anche nei riti e nei miti come quelli collegati all’“Ardia” (Guardia) di San Costantino, imperatore e tredicesimo apostolo di Gesù (secondo la mitografia bizantina), che ancora oggi non sa nemmeno di non essere più un santo.
Per questa e per altre ragioni ci è sembrato giusto coniugare il termine Paristorias con i miti e le leggende, piuttosto che con le fiabe o, come suggerisce il Wagner, con “favole e frottole”.
In questo capitolo abbiamo riunito sia le leggende di santi e di diavoli, che arricchiscono di sana paura le serate attorno al focolare, sia le cosiddette local traditions, cioè le microleggende delle minuscole janas (abitatrici delle tombe rupestri di origine preistorica) e delle numerose streghe che affollavano l’immaginario dei nostri antenati.


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