La cuciniera genovese
ossia la vera maniera di cucinare alla genovese
 

di G.B. e Giovanni Ratto
ristampa della XVIII edizione


Prefazione


di Paolo Lingua

La pubblicazione del compendio La cuciniera genovese, con sottotitolo La Vera Maniera di cucinare alla genovese, frutto delle fatiche di Gio Batta Ratto e, per le edizioni successive alla III, del figlio Giovanni, per i tipi della storica tipografia dei «Fratelli Pagano», risale al 1863. Salvo scoperte ulteriori, frutto degli scavi e della fortuna di archeologi-bibliofili, è il primo saggio completo della cucina del territorio genovese. C’è anche chi opina che negli anni Quaranta del XIX secolo lo stesso Gio Batta Ratto potesse aver pubblicato un’operina, magari più smilza, sullo stesso argomento: ma mancano indicazioni, documenti e prove. Non ci resta che accettare l’edizione del 1863 come pietra miliare. Il volume, nella prima edizione, raccoglieva 481 ricette. Non tutte (anzi, solo una parte) potevano essere definite correttamente e filologicamente «genovesi». D’altro canto, se il titolo della raccolta poteva fuorviare un lettore meno attento, l’insistere sull’aggettivo «vera» (di qui il sospetto che ce ne fossero forse in giro altre «spurie») del sottotitolo – più onesto – precisava appunto la «maniera per cucinare»; ma c’era anche un’ulteriore spiegazione impressa nel frontespizio in grassetto: «ALL’USANZA DI GENOVA». Era annesso anche un glossario spicciolo dei termini dialettali, a cura del celebre Giovanni Casaccia, autore d’un ponderoso dizionario italiano-genovese, ancor oggi opera assai valida. Va tenuto presente che il testo, nel corso d’un secolo e mezzo, ha subito molte modificazioni in una ventina di edizioni: comunque, sempre nella prima edizione, appariva anche «L’Elenco di tutti i pesci del mercato di Genova, la loro stagione e qualità e il modo di cucinarli». C’era anche un curioso «ragguaglio dei pesi e delle misure antiche con il sistema decimale».
L’intento dei Ratto, padre e figlio, era chiaro: oltre a elencare le veraci ricette legate alla tradizione della città e, in parte, del suo immediato hinterland, si voleva mettere insieme una summa nella quale si poteva constatare «come» i genovesi avevano recepito quella tranche di cucina «universale» che in Italia (ma anche in tutta Europa) era ormai comunemente diffusa e veniva indicata, soprattutto nei ristoranti e negli alberghi d’un certo tono, come «internazionale», un termine che è rimasto d’uso comune per più d’un secolo e che ancora una trentina d’anni fa faceva parte del lessico abituale.
Due anni dopo l’uscita del libro di Gio Batta Ratto, Emanuele Rossi, livornese, di cui si sa poco ma che doveva essere una sorta di poligrafo, pubblicò a Livorno e successivamente a Milano per i tipi della «Bietti» una specie di clone, vale a dire La vera cuciniera genovese facile ed economica. Il testo conteneva ben 654 ricette e ormai ce n’erano fin troppe che tracimavano dal recinto virtuale della «genovesità».
Dobbiamo a una ricerca d’una quindicina d’anni fa condotta da Francesco Maria Semino il recupero di qualche notizia scarna su questi pionieri della pubblicistica gastronomica genovese. Abbiamo infatti un trafiletto pubblicitario che annuncia l’uscita del volume pubblicato il 21 gennaio 1864 sulla «Gazzetta di Genova», un giornale che apparteneva – diremmo oggi – allo stesso gruppo editoriale della tipografia dei «Fratelli Pagano», segno che il libro doveva essere uscito da poco, forse era una strenna del Natale 1863; costava 1,60 lire; ci volevano 4 lire per l’edizione rilegata e con carta pregiata. Dell’autore, il cui nome compare solo dopo la terza edizione come si apprende da un trafiletto pubblicitario apparso sulla solita «Gazzetta di Genova» il 24 aprile 1867, si apprende che era iscritto nelle liste elettorali cittadine (quindi godeva d’un certo censo) e che era stato direttore della Tipografia Gesignana dal 1838 al 1847. Del figlio Giovanni, che compare come co-autore nelle edizioni successive, sappiamo che a sua volta era iscritto nelle liste elettorali e che si occupò di editoria di spartiti musicali oltre che di generica attività di stampatore.

Anche di Emanuele Rossi non conosciamo molto: sembra però che il compilatore livornese fosse più acculturato dei suoi «rivali» genovesi (avrebbe anche scritto saggi filosofico-letterari, come ci informa Francesco Maria Semino) ma che, comunque, nel suo lavoro gastronomico su Genova facesse costante riferimento, come punto base per la sua ricerca, all’opera del Ratto. Il suo libro è più esteso e, semmai, anche più generico. È forse scritto meglio, in un italiano più forbito, ma non è di grande utilità a una rigorosa ricostruzione filologica sulle origini dell’organizzazione della tavola dei genovesi. Dovette comunque essere considerato un concorrente fastidioso se, il 24 aprile 1867, sempre sulla «Gazzetta di Genova», nel rilanciare la terza edizione della Cuciniera, compare un trafiletto nel quale si avverte che l’opera è «da non confondersi colla contraffazione edita in Livorno...». Si combatte, dunque, senza esclusione di colpi.

La pubblicazione seriale delle cuciniere – che ebbero un’immediata a vasta fortuna editoriale – non era certo una peculiarità dell’area geografica ligure. Anzi, per certi aspetti, Genova era in ritardo, soprattutto rispetto alle regioni dell’Italia settentrionale, dove opere del tutto simili avevano cominciato a essere diffuse sin dagli anni Venti del XIX secolo. Il fenomeno è tipicamente ottocentesco e si colloca in una precisa epoca storica, quella del romanticismo imperante, quando si allargarono gli studi etnografici sulla moda, sui costumi, sull’abbigliamento, sui comportamenti e anche sull’alimentazione (per non parlare della poesia, della musica e della danza a livello di folklore popolare) d’un determinato territorio con caratteristiche omogenee. Siamo nel pieno recupero di quanto attiene alle Nazioni o alle Patrie, magari oppresse e da liberare. Ma assistiamo altresì alla identificazione e alla valorizzazione delle «piccole patrie» destinate a dar vita alle patrie «maggiori».
L’esempio più conosciuto e vistoso di quell’epoca è la ricostruzione – letteraria, ma anche etnografico-folkloristica – dell’epopea della Scozia (una piccola patria, appunto, da rivalutare ma anche da riappacificare all’interno dell’impero britannico) a opera dello scrittore Walter Scott che arrivò addirittura a inventarsi di sana pianta i colori dei clan disegnati sui «tartan». Né va dimenticato che il coevo Nicolò Paganini fu un attento studioso e un geniale «recuperatore» di musiche popolari dell’area mediterraneo-provenzale.
C’è poi un’altra osservazione che non va dimenticata: l’assetto definitivo delle cucine del territorio è anche frutto, specialmente nelle grandi città, d’una curiosa ristrutturazione della collocazione e dell’arredo dello specifico vano della cucina stessa all’interno dell’abitazione, diventata ormai «appartamento». Tramonta, nell’urbanistica dei grandi centri – e Genova sul piano edilizio ne era già stata una antesignana nel Medioevo – l’uso di vivere in una villetta o in un rustico monofamiliare.
Per cui, nell’appartamento, talvolta angusto, nascono vani-cucina di dimensioni più modeste, con fuoco e forno racchiusi in scatole di ferro o di ghisa, all’interno delle quali si distribuisce la carbonella che alimenta i fornelli. Questi ultimi, a seconda di quel che si cuoce (o come si cuoce), sono di dimensioni differenziate. Gli attrezzi, gli utensili, il vasellame, ma soprattutto tegami, pentole, padelle e così via, assumono fogge differenti: e accanto al tradizionale coccio, aumenta la percentuale di oggetti in rame stagnato o in ferro. La confezione dei piatti assume quindi una diversa connotazione: in un certo senso i prodotti del territorio attorno alla grande città si riversano sulla tavola, anche perché il Settecento è anche l’epoca in cui l’agricoltura – siamo o no nel Secolo dei Lumi? – si arricchisce di coltivazioni intensive, frutto dell’evolversi della scienza agronomica (Parmantier è un riferimento che vale per tutti, dopo la rivoluzione colbertiana) e che modificano i gusti e le abitudini: basteranno, a questo punto, due esempi clamorosi, che segneranno il loro «boom» nei primi due decenni del XIX secolo, quali il pomodoro e la patata. Ma ogni alimento troverà un utilizzo differente a seconda del territorio: si pensi al diverso impiego del peperone «americano» nel Mezzogiorno d’Italia e in Piemonte. Oppure, nel campo dei legumi, sarà curioso assistere alla minuta presenza in ogni campo e in ogni orto (anche se il fenomeno era già iniziato, sia pure timidamente da un paio di secoli) del fagiolo, nelle diverse regioni italiane, mentre in Liguria, salvo alcune piccole enclaves dell’estremo ponente, resisteranno nel costume diffuso i ceci e le fave, sia freschi che secchi.
Si potrebbero citare infiniti esempi, ma il nocciolo della questione è che tra la seconda metà del XVIII secolo e il primo quarto del XIX si formano e soprattutto si «definiscono» le infinite cucine italiane. Né va dimenticato che essendo l’Italia divisa in infiniti stati e staterelli, la diffusione dei dazi finì per favorire una cucina autoctona e persino autarchica. E questo spiega perché le raccolte di ricette e i trattati del Basso Medioevo e del Rinascimento, indipendentemente dal luogo geografico d’origine, ci offrono invece una cucina (alta, ovviamente) senza confini geografici, se non per il reperimento di leccornie e specialità, decisamente cosmopolita, adatta all’uomo rinascimentale, cittadino del mondo.
Questo non toglie, perché in gastronomia le categorie assolute non valgono mai, che non esistessero piatti e alimenti che, da molto prima del collo di bottiglia del XVIII secolo, erano peculiari d’una regione o d’un territorio ristretto. La modifica settecentesca, comunque, è importante perché è l’epoca nella quale, per la prima volta, vino, olio, burro, grassi e altri prodotti «cambiano sapore» e soprattutto si adattano alla dimensione della cucina familiare. Precedentemente, soprattutto a partire dalla fine del XV secolo, quando decolla in Europa una sorta di «economia dei consumi» che scavalca la dimensione di sopravvivenza con lo stretto necessario, l’alta cucina, quella che poi viene codificata, tendeva all’universale, anche perché questa gastronomia era realizzata da una stretta conventicola di «grandi cuochi» che erano contesi dalle corti o dalle grandi famiglie continentali di alto censo con ingaggi non molto lontani da quelli dei nostri calciatori. C’era un tourbillon in qualche modo «globalizzato» che rendeva uniforme la tavola aristocratica.
Per questo, la profonda modificazione che inizia la sua rivoluzione nella seconda metà del XVIII secolo e la completa nei primi decenni del XIX secolo, è un fenomeno non soltanto sociale, ma anche politico lato sensu. I primi compilatori quindi non solo attinsero alle fonti sgrammaticate degli appunti dei nostri simpatici cuochi, quasi tutti semianalfabeti, ma anche alle memorie e alle tradizioni orali: tutto materiale frammentario e disperso che venne rimesso in ordine e, sovente, modificato, arricchito, nobilitato oppure inventato di sana pianta, alla maniera di Walter Scott.
È giusto quindi affermare che le prime «Cuciniere» italiane regionali sono autentici monumenta, degni ancor oggi di studio e di riflessione, anche perché sono l’unico documento organico, sia pure non completo, che mette insieme la frammentazione delle informazioni disperse dei secoli precedenti. Per la verità, il poeta vernacolo, Martin Piaggio, morto nel 1840, aveva lasciato un vasto poemetto, nel quale aveva enumerato con esasperata pignoleria tutti i piatti – popolari e aristocratici – della cucina genovese. Non è escluso che i Ratto abbiano usato i versi del celebre Scio Reggin-a per mettere a punto il loro compendio, ma nella Cuciniera ci sono alcuni piatti che clamorosamente non si trovano in Piaggio. Uno è il «cappon magro» che troviamo per la prima volta nel testo del 1863 (che sarà poi ancor più arricchito da Pellegrino Artusi), l’altro è addirittura il «pesto». Tanto è vero che non sono pochi gli studiosi più agguerriti, a cominciare dal «nostro» maestro, il professor Giovanni Rebora, che sostengono che il pesto sia una creazione – in via definitiva – della metà dell’Ottocento, un’evoluzione d’una salsa, forse di uso comune precedente, di aglio e basilico, cui è stato aggiunto il formaggio. Curiosamente, i Ratto indicano la quota casearia del pesto in un mix di parmigiano e formaggio d’Olanda (allora assai diffuso a Genova, per via di scambi commerciali storicamente privilegiati con i Paesi Bassi), successivamente sostituito con il pecorino sardo (o fresco o stagionato, a seconda dei gusti) in città e con la «prescinseua» nell’area del Levante e del Tigullio. L’aggiunta successiva di pinoli o noci (queste ultime sempre nel Levante) coincide con gli ultimi due decenni del XIX secolo, quando la singolare salsa verde era diventata (come la pizza Margherita a Napoli) l’emblema di Genova in cucina ed era presente su tutte le mense con una insistenza interclassista: Mons. Magnasco, portofinese, arcivescovo di Genova, aveva un debole per le trenette – nome di derivazione araba, come i «fidelini» – che esigeva quasi sempre sulla sua tavola il venerdì, giorno di digiuno, sovente seguite dallo stoccafisso bollito.
Dalla Cuciniera dei Ratto apprendiamo, indirettamente, le vere peculiarità di Genova in cucina, i tratti caratterizzanti della sua filosofia a tavola. Intanto basterebbe riflettere sulla ricetta originaria dei ravioli, così profondamente diversa da quelle dei vicini piemontesi ed emiliani, dominate dalla presenza massiccia nel ripieno della carne. Il raviolo genovese, che va racchiuso in una sfoglia con poche uova, presenta un equilibrio alchemico tra il nucleo «formaggio, uova, noce moscata», il nucleo «boraxe, persa, erbette di stagione» e il nucleo delle «carni». Ma all’interno delle carni noi troviamo la vitella, il vitellone dalla cottura estenuata, la poca salsiccia, nonché la schiera infinita di filoni, animelle, poppa, cervella. Il piatto è complesso e può essere condito preferibilmente, al di là dell’alternativa del classico sugo di funghi (porcini secchi, quasi sempre), con un leggero «tocco», frutto dei succhi di quella cottura estenuata della carne che s’è immolata per il ripieno. Lo stesso «tocco» che arricchisce in extremis alcuni piatti peculiari: il riso «arrosto», la zuppa di trippe «alla sbira», le lussureggianti «tomaxelle».
La cucina dei genovesi s’è formata, nel corso della storia, grazie a continui innesti esterni, frutto degli scambi e dei traffici nel Mediterraneo. L’agricoltura autoctona (se non quella d’orto, dal momento che era troppo limitata l’estensione di quella cosiddetta di campo) l’ha influenzata assai poco. Il vegetale che può essere considerato, in qualche misura, un simbolo e un mito non è frutto di coltivazione, ma di germinazione spontanea: il fungo. Il fungo è la quintessenza della trasversalità interclassista dei genovesi di città.
Come dunque s’è detto poco sopra, la cucina dei genovesi ha subito, nel corso della storia, dall’epoca delle Crociate dell’espansione verso Oriente (contestuale a quella verso il Mediterraneo occidentale), una complessa stratificazione gastronomica, conseguenza di incroci, importazioni, sintesi di elementi mediterranei o comunque di merci di cui il Mediterraneo è stato il filo conduttore: semi oleosi (pinoli, mandorle, pistacchio, sempre presenti in piatti sia dolci, sia salati), spezie (di cui resta soltanto la presenza, irrisoria, del pepe e quella un po’ più consistente della noce moscata) sino allo zucchero di cui i genovesi conservarono il monopolio sino a un secolo fa.
La pentola o il tegame della signora aristocratico-borghese di Genova si riempiono di prodotti trovati al mercato-emporio, sovente giunti in città in misura maggiore sulla galea piuttosto che sul carro tirato da cavalli o da buoi. Così in quella cucina quei prodotti eterogenei vengono piegati al «gusto del posto» e subiscono complesse e sempre più raffinate manipolazioni. È il caso clamoroso della pasta, fresca e secca, che a Genova diventa produzione seriale di artigianato organizzato in corporazioni sin dal Basso Medioevo, grazie alla mediazione degli Arabi, con diversi secoli di anticipo su Napoli e grazie anche al monopolio (poi porto franco) del frumento. Certo, se si scava nei nostri costumi ancestrali troviamo la farinata e i pesci salati, abitudine alimentare bimillenaria, ma se vogliamo capire la reale natura del fenomeno evolutivo della tavola, dobbiamo capire il ruolo del lungo «collo di bottiglia» che va dalla fine del XVII secolo sino alle prime due decadi del XIX secolo. In questo segmento di tempo e di spazio si realizzano tutte le modificazioni del gusto e prendono forma i piatti che cominciano decisamente ad assomigliare a quanto oggi soddisfa ancora le nostre papille gustative. Nasce la cucina «regionale» che contribuirà a formare la federazione degli «stati uniti delle gastronomie italiane», un fenomeno, quindi, di consolidamento di gusti e di abitudini alimentari storicamente più recente di quanto non si possa immaginare. È sostanzialmente vero, quindi, l’assioma secondo il quale lo spartiacque tra la vecchia e la moderna gastronomia è l’opera di Careme, demiurgo del nostro gusto contemporaneo.

Ecco perché, tirando le fila dei nostri sommari ragionamenti, riteniamo sia opportuno ancora una volta ristampare La vera cuciniera genovese, 18ª edizione, più per il suo valore di testimonianza storica che di manuale operativo sul piano pratico. È l’occasione per una riflessione certamente antropologica, ma anche politica, per «capirci», sia pure osservando noi stessi e il nostro mondo attraverso il filtro del tramato ordito d’una tovaglia di Fiandra o del riflesso immillante del cristallo molato dei calici e dei vetri ora dorati ora «arrubinati» delle bottiglie.


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