Diritto a comunicare e
sovranità popolare

 

un libro di
Enrico Giardino


prefazione
 

di Giuseppe Ferrara

Finalmente! È proprio il caso di dire. Era l’ora che qualcuno mettesse a fuoco, giuridicamente e teoricamente, la negletta materia del diritto comunicativo e, insieme, la fondamentale questione dell’accesso ai mezzi di comunicazione di massa. Materia non a caso negletta e questione non a caso mai affrontata nei punti nodali, sia perché chi è riuscito, con un vero e proprio golpe mediatico, a detenere quasi tutti i poteri comunicativi, se li è tenuti e se li tiene ben stretti; sia perché le forze politiche che da questi poteri sono risultate escluse possono solo recitare un sonoro mea culpa, mea maxima culpa (per aver sottovalutato ipocritamente il problema, prima; per averlo ridotto ad elemento di scambio in un gioco furbastro e bipartisan, poi).
Dopo la pubblicazione di questo libro non si potrà fare più finta di niente, come se la comunicazione non fosse un problema di fondo, uno dei cardini dello svolgimento della democrazia. Giardino aveva già messo in campo le sue idee nel ’91 (con un volume), nel ’95 (con un opuscolo di “Avvenimenti”), e con un sito Web (quello del FORUM DAC), ma una messa a fuoco così precisa e perentoria non l’aveva ancora raggiunta. Partendo dai principi della nostra costituzione, Giardino dimostra senza ombra di dubbio che “la comunicazione rappresenta un potere, anche istituzionale, che come tale deve essere disciplinato come gli altri tre poteri: Legislativo, Esecutivo e Giudiziario” (cap. 12), e fornisce tutti gli elementi che possano permettere di riempire questo vuoto legislativo, riproponendo tra l’altro la CARTA UNIVERSALE DEI DIRITTI COMUNICATIVI (in 45 articoli) che dovrebbe essere discussa e approvata come legge europea e nazionale. Senza una legge siffatta è facile toccare con mano come il nostro Paese si stia perversamente avvicinando ad un regime autoritario; infatti “la rappresentanza politica è ormai monopolio dei pochi leader che hanno danaro e visibilità mediatica quasi esclusiva”, per cui “la comunicazione politica è di fatto propaganda mediatica personalizzata che usa linguaggi e tecniche del marketing e delle pubbliche relazioni industriali”; in realtà si tratta di una situazione intollerabile che sovverte radicalmente la “nostra Carta Costituzionale” arrivando all’“usurpazione oligarchica dei fattori decisivi della democrazia” e, di fatto, ad annullare “la sovranità popolare” (cap. 9).

Un libro come questo arriva tempestivamente a colmare la penuria di studi specifici, di posizioni chiare sull’argomento; sicuramente contribuirà a diradare gli equivoci che in questi anni si sono affastellati sul rapporto tra informazione e media. Il critico cinematografico dell’“Unità” Alberto Crespi, per esempio, è convinto che essendo la tv oggi “centrale nella nostra vita” non permette più di realizzare film inchiesta come quelli di Rosi su Salvatore Giuliano (1961), “tempi in cui la tv non esisteva” (“L’Unità”, 13-03-02). Allora “la società italiana non era così bombardata da programmi-verità (o presunti tali) o da inchieste, né esistevano tre reti televisive private di proprietà del presidente del Consiglio, né la tv faceva da baby-sitter per i bambini o da tribunale ufficioso come succede ormai regolarmente a ‘Porta a porta’” (“L’Unità”, 03-04-02). Ergo: Crespi invita i suoi lettori a non andare a vedere un film come I banchieri di Dio, forte denuncia dei misfatti dei “poteri forti”, perché tanto ci ha già pensato la tv a bombardare di informazioni gli italiani. Demenziale.
Se c’è ancora qualcuno, come Crespi, che crede l’odierna informazione tv una forma di “inchiesta” veritiera (o presunta tale) legga il libro di Giardino ed eviterà di cadere in errori così madornali; si renderà conto che in tv non si assiste a un bombardamento di notizie ma a “una gigantesca manipolazione ‘informativa’ ed a una forte deriva autoritaria e oligarchica” (cap. 2). Il bello è che proprio “L’Unità”, che rappresenta un esperimento giornalistico geniale, svolge quotidianamente (persino in prima pagina) un’opera di demistificazione delle menzogne mediatiche.

Con questo non voglio dire che condivido tutte le posizioni di Giardino, anzi a volte mi infastidisce un po’, quando scende nei dettagli politici, un certo modo di ragionare che definirei a sciabolate, per esempio quando si schiera passionalmente a favore del per lo meno corrotto governo di Milosevic o definisce “fantoccio” il tribunale dell’Aja (nutro troppa stima per la Del Ponte).
Voglio però dire che, se la disamina sul discorso di fondo compiuta da Giardino è esatta, si può arrivare a conclusioni (e ad azioni) molto importanti per il destino di questo Paese. Per esempio sarà difficile continuare ad affermare, come si è spesso fatto anche a sinistra, che il Polo delle Libertà abbia vinto regolarmente le elezioni e che sia quindi giusto rispettarne il governo. Al contrario non è mai stato così chiaro, dopo aver letto questo libro, che la vergognosa usurpazione dei diritti comunicativi compiuta dall’assegnazione di tre reti alla Fininvest, operata da Craxi e confermata da Andreotti, La Malfa con la liberticida legge Mammì (oggi persino peggiorata dalla legge Gasparri) è stato un vero e proprio golpe istituzionale telefascista contro il quale tutte le forze democratiche si dovranno battere. Anche perché gli spazi di autonomia espressiva – e qui voglio portare la mia testimonianza di autore cinematografico – si vanno sempre più riducendo.
Come regista cinematografico e, raramente (non per mia scelta) televisivo, ho sempre praticato la mia attività nel senso di rottura del conformismo mediatico, pur riuscendo ad inserirmi abbastanza spesso nei canali ufficiali del sistema, cioè le sale cinematografiche ed i canali televisivi di Stato e privati. Naturalmente non ho disprezzato – anzi, privilegiato – gli sbocchi alternativi, come la distribuzione di film non solo attraverso l’ARCI e i sindacati (per esempio realizzando per l’unitario C.I.C.A., oggi scomparso, un lungometraggio documentario dal titolo programmatico La salute non si vende) ma anche attraverso la Lega delle Cooperative, i Circoli del Cinema, i centri culturali parrocchiali. In questa sempre molto faticosa conquista di sedi comunicative, a volte duramente ostacolata anche da interventi censori operati soprattutto dalle tv, dai proprietari di sale, da magistrati oscurantisti (per esempio vengo punito per aver osato mettere in scena a livello di massa i tradimenti subiti da Falcone o le “deviazioni”, il “patto scellerato” dei servizi segreti con la mafia) ho capito che la cosiddetta libertà d’espressione, sbandierata dalle democrazie occidentali, può concretizzarsi solo con una personale azione durissima di vero e proprio sfondamento, mettendo in conto come conseguenza ovvia l’emarginazione dalle fonti di lavoro (di governo in governo faccio sempre parte di liste di proscrizione) e le persecuzioni giudiziarie. Quanto a queste, nel ’77 sono stato condannato e censurato con un taglio , per aver “diffamato” con la mia pellicola Faccia di spia il quotidiano “Il Tempo”; recentemente, insieme alla sceneggiatrice Armenia Balducci, a causa del film su Giovanni Falcone, sono stato condannato tre volte per “offese all’onore” di Bruno Contrada (lo 007 al quale un primo giudizio ha assegnato 12 anni di carcere per associazione mafiosa) e di Vincenzo Geraci (il magistrato che nel CSM si adoperò per impedire a Falcone la sostituzione di Caponnetto, al punto che Borsellino lo definì “Giuda”, come conferma Alfredo Galasso nel volume La mafia politica).
Ebbene, se anche per merito di questo volume la CARTA UNIVERSALE DEI DIRITTI COMUNICATIVI divenisse una realtà legislativa, il sottoscritto non si sentirebbe indifeso ed emarginabile – come oggi si sente – e avrebbe certamente più garantiti ed estesi i confini di libertà espressiva.
Ritengo urgente ed essenziale che i contenuti di questo saggio vengano fatti propri da tutte le organizzazioni democratiche; perché è soprattutto su questo piano che bisogna battersi, oggi e nei prossimi anni, per la difesa e il rafforzamento della democrazia.


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