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Europa in
movimento - a cura di Alberto Zoratti e Monica Di Sisto
Periferie d'Europa e società civile
Intervista a Don Luigi Ciotti
Luigi Ciotti
nasce a Pieve di Cadore, emigra con la famiglia a Torino nel 1950. Nel 1966
promuove un gruppo di impegno giovanile, che prenderà in seguito il nome di
Gruppo Abele, intervenendo su numerose realtà segnate dall’emarginazione. Ciotti
nel 1972 viene ordinato sacerdote: come parrocchia, gli viene affidata “la
strada”. Nel 1982, contribuisce alla costituzione del Coordinamento nazionale
delle comunità di accoglienza (CNCA), nel 1986 partecipa alla fondazione della
Lega italiana per la lotta all’aids (LILA), nel corso degli anni Novanta
intensifica l’opera di contrasto al potere mafioso dando vita al mensile “Narcomafie”,
e, nel 1995, a “Libera-Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, un network
che coordina oggi oltre 700 associazioni e gruppi sia locali che nazionali.
L’Unione europea è ad una svolta: la caduta del muro di Berlino nel 1989 e
l’esplosione della mondializzazione le impongono di riposizionarsi nel mondo e
al suo interno. Nel mondo, per non essere periferia suddita dell’impero
statunitense e per intrecciare rapporti di partenariato attivo con le periferie
del mondo ricco a cui l’Unione appartiene. Al suo interno, per portare al centro
quelle che furono prima le periferie del dissolto impero sovietico e che sono
diventate poi e ancora sono le periferie dell’attuale Europa dei quindici. Ma
un’altra periferia guarda l’Europa e preme per entrarvi: la periferia
dell’immigrazione, la definisce Luigi Ciotti, prete di strada, come ama
definirsi, fondatore del Gruppo Abele, di quella che già è tra di noi e di
quella che a questo spazio di benessere e di diritti guarda con speranza. A
questa periferia l’Europa di oggi, ma più precisamente i singoli Stati che la
compongono e che in materia detengono competenze e responsabilità, offre un
volto poco accogliente, quando non addirittura minaccioso.
Dalle periferie delle nostre città, quale Europa si vede?
A caldo verrebbe da dire che dalle nostre periferie di Europa se ne vede poca.
Fa schermo il degrado urbano, il disagio della vita quotidiana, la violenza che
si sente nell’aria, insomma tutta la difficoltà del mestiere di vivere. In
alcuni casi, purtroppo rari, affiora qualche segno di un’Europa che interviene
con le poche risorse di cui dispone per contribuire a riqualificare qualche
territorio e a sperimentare nuovi luoghi di convivenza. Come Gruppo Abele ci
apprestiamo a contribuire ad una di queste sperimentazioni in un quartiere
importante di Torino nel quadro del progetto urbano. Ma al di là di queste prime
impressioni visive e di queste micro-sperimentazioni, il tema del rapporto delle
periferie con l’Europa merita altri approfondimenti. E prima ancora un
chiarimento. Di quale Europa stiamo parlando? Di quella che si progetta a
Bruxelles o di quella che si contrasta, magari per poi usarla, a Roma? Oppure
parliamo dell’Europa che è già largamente presente tra noi con i suoi cittadini
che hanno anticipato i tempi dell’allargamento ad est e già oggi vivono e
lavorano tra noi? E anche a proposito di periferie bisogna intendersi.
Perché il mondo è tutto un pullulare di periferie rispetto ad un centro dove noi
pensiamo di trovarci. È periferia d’Europa, ohimè quanto lontana, il continente
africano, è periferia per la nostra cultura eurocentrica grande parte del mondo.
Salvo scoprirci noi, quando soffiano i venti di guerra, periferia di Washington
autoproclamatosi centro del mondo, insofferente oggi delle periferie
mediorientali, ieri di quelle cubane e poi latino-americane e poi domani chissà
che cosa ancora…
Cosa resta, oggi, dell’Europa dei popoli?
Una piccola Europa che porta oggi il nome di Unione Europea con i suoi quindici
Paesi che nel giro di pochissimi anni diventeranno una trentina. Uno spazio
territoriale tutto sommato modesto se guardato sulla carta del mondo, con una
popolazione di tutto rispetto se rapportata al mondo occidentale ma che
impallidisce a fronte dei numeri della Cina o dell’India… Una regione ricca,
diciamo anche opulenta, dotata ancora di un modello sociale ispirato alla
coesione e alla solidarietà, costruita per garantire la pace al suo interno, per
questo nacque l’Unione all’indomani della seconda guerra mondiale, e per essere
presidio di diritti in un mondo largamente ispirato alla priorità del mercato e
al darwinismo sociale…
E tuttavia questa Europa, con le sue tradizioni culturali risultato di grandi
migrazioni che ne hanno fatto la ricchezza, non può essere una fortezza. Non
glielo permette il suo modello di democrazia, ma non glielo consente nemmeno il
contesto economico in cui è costretta a vivere. Un contesto fatto di una grave
crisi demografica, di carenze crescenti del suo mercato del lavoro (si veda
l’esempio sempre più drammatico della carenza di personale infermieristico) e
questo nel quadro di interdipendenze crescenti con gli altri Paesi del mondo cui
ci obbligano le dinamiche della mondializzazione. Insomma, l’Europa-fortezza non
è né possibile né conveniente: meglio cercare che subire nuovi rapporti con le
periferie, meglio accogliere che escludere.
Proprio in Europa si ha l’impressione che la politica abbia tradito chi fa
più fatica…
L’impressione è fondata, anche se il fenomeno non è né recente né un’esclusiva
dell’Europa. Anzi… è di qualche tempo fa un rapporto agghiacciante sulla povertà
negli usa e sulla diffusione della precarietà anche tra i lavoratori. Strati
sempre più ampi di questi ultimi non raggiungono redditi sufficienti per campare
dignitosamente, né possono trovare tutela in un sistema di protezione sociale
minimalista (in particolare per chi non può permettersi costosissime pensioni
private) senza parlare della sanità pubblica praticamente inesistente.
Ma torniamo all’Europa: da sempre la politica e quindi il potere ha avuto
rapporti difficili con chi fa fatica. Nella logica di scambio che guida la
politica, molti, troppi sono ossessionati dal ritorno immediato, quello della
prossima scadenza elettorale e non hanno il tempo di costruire sviluppo e
sostenere processi di inclusione complessi e che esigono investimenti sul lungo
periodo. E allora è più facile e apparentemente più redditizio destinare
risorse, spesso residuali, all’assistenza o ad interventi emergenziali.
Nell’Europa del dopoguerra ha fatto argine a questa deriva della politica
clientelare la costruzione di un welfare fortemente strutturato e la difesa di
un modello sociale fondato su una cultura dei diritti della persona, sulla
concertazione tra le parti, su una rete sviluppata di servizi pubblici
universali (e cioè, in principio, accessibili a tutti). Ma oggi in Europa questo
modello sociale è fortemente sotto pressione e assistiamo ad una progressiva
erosione dei diritti su cui si fonda.
È il caso del sistema di protezione sociale cui si fanno mancare le risorse
necessarie, della concertazione sociale spesso ridotta se non addirittura
sospesa (come accade oggi in Italia), dei servizi che da pubblici diventano
privati e da universali diventano accessibili, a prezzo di mercato, a pochi
privilegiati. Ma cosÏ facendo la politica non solo tradisce la sempre più ampia
fascia dei deboli, ma prima ancora tradisce se stessa e la sua originaria
vocazione a perseguire il bene comune piuttosto che a proteggere interessi
individuali o di corporazione. Questo, in misura diversa, è quanto avviene in
molti Paesi dell’Unione.
Ma l’Unione europea, in quanto realtà sovranazionale è complice di questo
tradimento della politica?
Mi sembra corretto rispondere che in parte lo subisce e in parte lo contrasta.
Lo subisce in tutte quelle materie in cui vi è una competenza esclusiva dei
singoli stati (ad esempio in materia di sicurezza e, in larghissima parte, di
immigrazione o ancora di protezione sociale) che di questi comportamenti debbono
assumere l’intera responsabilità. Ma all’Unione Europea vanno anche riconosciute
iniziative di contrasto di queste derive nazionali: lo ha fatto in materia di
immigrazione a proposito delle condizioni per l’integrazione o in materia di
asilo (in contrasto con la legge barbara di Bossi e Fini), lo sta facendo con
una difesa coerente del modello sociale europeo per quelle parti che le
competono, tenta di farlo con la proposta di trasferire alla responsabilità
sovranazionale pezzi della politica fiscale e del sistema del welfare… Ma
appunto sono tentativi, magari generosi, in una stagione in cui urgono
risultati.
Che contributo puà dare la società civile al raggiungimento di miglioramenti
concreti per la qualità della vita dei cittadini del mondo?
Il primo contributo la società civile lo deve dare a se stessa organizzandosi
più efficacemente e assumendo maggiori responsabilità non solo a livello
locale/nazionale ma anche a livello europeo/internazionale. Le battaglie che si
combattono in ordine sparso sono perse in anticipo, figurarsi poi se si
sbagliano anche di avversari! Nel contesto della mondializzazione si è assistito
ad un risveglio vigoroso della società civile e ad un avvio di prima
articolazione a livello internazionale: Porto Alegre ne è stato il luogo simbolo
e i prossimi appuntamenti dei Forum sociali continentali hanno per tutti noi un
significato importante. E non solo perché testimoniano della non episodicità di
Porto Alegre e delle molte altre mobilitazioni avvenute finora, ma anche perché
riconoscono uno spazio specifico al nostro continente e quindi al ruolo
peculiare che potrebbe sviluppare nelle dinamiche della mondializzazione. A
partire da una prima considerazione: per la società civile il territorio locale,
su cui è radicata e a cui deve la sua legittimità di attore sociale, è
inadeguato per affrontare i complessi problemi della democrazia della
partecipazione e dell’esclusione che si generano a livello mondiale. Nello
stesso tempo, l’orizzonte mondiale sfugge largamente oggi, e sarà cosÏ ancora a
lungo, alla capacità di presa di interlocuzione della società civile nella sua
fragile articolazione attuale. In questa situazione il quadro europeo, con le
sue peculiarità interne e con la sua apertura all’esterno può costituire uno
spazio più adeguato che non il livello locale/nazionale e tuttavia ambizioso
rispetto ad una dimensione internazionale. A patto di intendersi da una parte su
cosa sia l’Europa cui ci riferiamo e dall’altra su cosa s’intenda con società
civile europea. L’Europa cui ci riferiamo non è la sola Unione europea dei
quindici Paesi e domani dei trenta organizzati istituzionalmente. Noi ci
riferiamo all’insieme del continente europeo (ad esempio ex Jugoslavia compresa)
che tutto ha vocazione a riunirsi un giorno nella nostra casa comune. Come pure
già fin d’ora noi consideriamo cittadini europei quanti giunti qui da altri
Paesi da noi risiedono e con noi lavorano.
E le istituzioni europee? Possono contribuire e in quale misura?
Questo riferimento ad un’Europa ampia ed accogliente, non ci deve impedire di
avere un’interlocuzione strutturata con l’Unione Europea e le sue istituzioni,
in particolare la Commissione e il Parlamento in questa stagione favorevole che
vede, in seno alla Convenzione, la preparazione di un progetto di Costituzione
Europea.
Con la Commissione che nel suo recente Libro bianco sulla “Governance” ha fatto
un largo spazio al ruolo della società civile per una futura grande Europa dove
il principio di solidarietà sia declinato non solo verticalmente (tra autonomie
locali, Stato nazionale ed Unione Europea), ma anche orizzontalmente tra poteri
pubblici, parti sociali e società civile. Con il Parlamento che è luogo
istituzionalmente deputato alla formazione della volontà generale attraverso
l’ascolto, tra l’altro, della società civile. Bisognerà riflettere con calma e
lucidità sui rapporti delicati e sempre più difficili tra la società civile ed i
partiti e questo, evidentemente, non solo a livello europeo. In questa
interlocuzione con la Commissione e il Parlamento, la società civile dovrà
resistere agli inevitabili tentativi di istituzionalizzazione. E per almeno due
ordini di ragioni: da una parte per salvaguardare la propria sopravvivenza e il
suo futuro sviluppo (si sa, il potere è cannibale …) e dall’altra per essere
stimolo libero ed efficace per le istituzioni. In un caso come nell’altro per
alimentare la democrazia. Per far questo, la società civile non dovrà rinunciare
a fare politica nella forma che le è propria, sul percorso che va
dall’indignazione alla proposta, dalla critica alla cooperazione. Ma restando,
fermamente e senza collusioni, società civile.
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