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"Europa in
movimento"
Monica Di Sisto e Alberto Zoratti
intervistano Serge Latouche
La presente
intervista, realizzata da Monica Di Sisto e Alberto Zoratti e pubblicata
all'interno del libro "Europa in movimento", è stata pubblicata dal quotidiano "Avvenire".
«Europa, guarda a Sud»
«Il Vecchio Continente deve riscoprire la sua originaria vocazione di ponte
verso il Mediterraneo»: a colloquio con il sociologo francese Serge Latouche.
«Può esistere una via allo sviluppo che rispetti le culture locali e l’ambiente.
In Africa crescono le economie informali e in Occidente forme alternative eque e
solidali»
Di Monica Di Sisto e Alberto Zoratti
Serge Latouche è un
professore di economia ma, in patria, ha sempre prodotto pensiero ai margini
dell’«accademia economica», perché ha sempre considerato prioritaria alla
«guerra dei numeri», la battaglia culturale. Un esempio: smascherare gli inganni
del linguaggio nascosti in espressioni quali «sviluppo sostenibile». Negli
ultimi due secoli infatti, ricorda Latouche, lo sviluppo è sempre stato
contrario all’idea di sostenibilità, perché ha imposto di sfruttare risorse
naturali e umane per trarne il massimo profitto. Oggi il vecchio concetto è
stato rivestito con una patina d’ecologia, che tranquillizza l’Occidente e
nasconde la lenta agonia del pianeta. Il «pensiero unico» del mercato annulla
perfino le identità nazionali: desideriamo gli stessi beni e quindi siamo tutti
uguali. La cura, secondo Latouche? Innanzitutto decolonizzare il nostro
immaginario dai miti del progresso, della scienza e della tecnica.
Professor Latouche, un’altra Europa è possibile?
«Come ho avuto modo di spiegare molte volte, fin dai miei primi scambi
intellettuali con l’Italia è stata posta con grande forza alla mia attenzione
l’opposizione Nord-Sud, e una presunta, possibile, alleanza tra il Meridione
italiano e il Sud del mondo. C’è chi invoca una sorta di "rivolta" del
Mezzogiorno, per evitare all’Europa i cascami nefasti della deriva americana,
quella "mercatizzazione" globale di cui è sintomo la "macdonaldizzazione"
inquietante ma, ahimè, molto avanzata dei nostri Paesi e dell’intero pianeta.
Penso, tuttavia, che questo più semplicemente sia soltanto uno dei retaggi di
quel terzomondismo tanto vitale in gran parte del dibattito culturale italiano.
L’Italia meridionale funzionerebbe, dunque, da "ponte" culturale verso la
Mitteleuropa, di un’Europa greco-latina, ma anche arabo-romana, a partire dalla
riva settentrionale del Mediterraneo. Alla costruzione dell’orizzonte
immaginario di quest’altra Europa, darebbe un forte contributo la Spagna, ma
anche il Portogallo, la Grecia, l’Albania, i Paesi della ex Jugoslavia come
anche parte della Francia. Potremmo dire no all’Europa degli euroburocrati,
delle Borse mondializzate, delle Banche centrali, dell’euro, dell’americanizzazione
forzata, nel nome dei valori mediterranei della convivialità, della tolleranza,
della famiglia, del tempo della vita e della morte. Tuttavia l’ho detto e lo
ripeto: a un’altra Europa, come a un’altra Italia non ci credo. Non credo
nemmeno che il combattimento di retroguardia sul cosiddetto "modello sociale
europeo" o sulla "tipicità" la rivitalizzeranno. Dal 1950, infatti, la ricchezza
del pianeta è aumentata dei sei volte, eppure il reddito medio degli abitanti di
oltre 100 Paesi del mondo è in piena regressione e così la loro speranza di
vita».
Ma esiste un’alternativa allo sviluppo nella direzione da lei indicata?
«L’alternativa non può certo nascere da un’improponibile marcia indietro, e
d’altronde non può formalizzarsi in una sorta di "pensiero unico". Il
doposviluppo è necessariamente plurale. Si tratta di cercare delle forme di
"fioritura" nelle quali il benessere materiale, distruttore dell’ambiente e dei
legami sociali, non sia una priorità. In altri termini si tratta di ricostruire,
di ritrovare nuove culture. Senza pregiudicare la ricchezza delle nuove
possibili declinazioni sociali, quando la creatività e l’ingegno umano si
saranno liberati dell’ipoteca economicista e sviluppistica, si possono fin da
subito identificare due forme dell’alternativa: la "decrescita conviviale" e la
localizzazione. Rispetto alla prima un dato sembra ormai acquisito: il nostro
sistema non si potrà autoriprodurre a lungo. Ci vuole tutta la fede degli
economisti classici per pensare che la scienza del futuro risolverà tutti i
problemi, e che la sostenibilità illimitata dalla natura attraverso le scoperte
tecnologiche sia concepibile. La riscoperta che la vera ricchezza risiede
nell’intessere relazioni sociali conviviali in un mondo sano, si può realizzare
con serenità nella frugalità, la sobrietà rispetto ai consumi materiali».
È possibile superare, esorcizzare il mercato come lo conosciamo?
«L’economia mondiale grazie alle istituzioni di Bretton Woods, ha cacciato dalle
campagne milioni e milioni di persone, ha distrutto il loro stile di vita
ancestrale, soppresso i loro mezzi di sussistenza, per gettarli e ammucchiarli
nelle bidonville e nelle periferie del Terzo Mondo: sono i "naufraghi dello
sviluppo". Queste persone sono condannate ad organizzarsi seguendo un’altra
logica. Esse debbono inventare, ed in alcuni casi effettivamente l’hanno fatto,
un altro sistema da capo. Io ho definito queste esperienze "economia informale".
Ma l’ambito del concetto di "informalità" che qui ci interessa, non è limitato
tanto a un’economia, quanto riguarda un’altra società. L’economico non ha
un’autonomia propria in quanto tale. Esso è dissolto, incorporato in una
dimensione sociale e, in particolare, nelle reti complesse che strutturano i
villaggi dell’Africa. È per questo che il termine "società vernacolari"
rappresenta meglio queste esperienze rispetto alla locuzione "economie
informali". Escluse dalle forme canoniche della modernità, la cittadinanza dello
Stato-Nazione, e dalla partecipazione al mercato nazionale e mondiale, persone
vivono, in effetti, grazie a reti di solidarietà molto spesso sostanziate da
donne. In queste reti possiamo individuare una forma concreta di decrescita
locale, anche se forzata».
Esistono,a suo avviso, sacche di resistenza efficace nella società civile e
altrove?
«In Europa, ma anche negli Stati Uniti e in Canada, si assiste ad alcuni
fenomeni nuovi, come la nascita di quelli che abbiamo definito come
"neo-agricoltori", "neo-artigiani", il fiorire, in questo contesto, di una
miriade di associazioni non esclusivamente a scopo di lucro: imprese
cooperative, comunità neo-rurali, banche del tempo. Oppure, i sistemi di scambio
locale, Lets nei Paesi anglosassoni o Sel in Francia, testimoniano di questa
creatività degli esclusi. Per quanto modeste siano queste esperienze, sono
portatrici di speranza. L’esplosione dei Sel in Francia, che sono passati da 2
nel 1995 alla diffusione capillare di oggi, rivela l’impatto della dissidenza.
Troviamo, inoltre, comitati di quartiere, banche etiche, forme mutualistiche, i
movimenti e le realtà del commercio equo solidale, le associazioni dei
consumatori e il consumo critico. Le ricadute economiche: sono esperienze
localissime,
non integrate, ma crescono al
margine dello sviluppo economico
e del mercato mondiale,
utilizzando fondi statali
o dell’Unione Europea, e
quindi sono destinate a sparire,
per la gran parte, o a fondersi,
presto o tardi, con il sistema
dominante. A quel
punto, infatti, perdono l’"anima",
e si relegano in una sorta
di Terzo settore funzionando
come un vero e proprio
micro-sviluppo". Ma se queste
esperienze innovative partecipassero
davvero al progetto di costruire una società altra, allora
potremmo parlare davvero di contro-sviluppo, addirittura di post-sviluppo,
perché ricalibrerebbero gli altri
e la collettività, nel tentativo di inventare
una nuova logica sociale, fondata
sulla ri-valorizzazione degli aspetti non economici
della vita, sul "dono", inteso
come impegno verso se stessi e basato
su nuovi rapporti sociali. Dobbiamo
fare, insomma, il contrario di
Penelope: tessere di notte quel tessuto
sociale che la mondializzazione e lo
sviluppo smagliano durante il giorno».
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CHI È
Mente dei «no global»,
Serge Latouche è considerato uno dei
punti di riferimento del
movimento dei «no global». È
professore emerito
dell’Università Paris XI. Tra le
sue opere ricordiamo
«L’occidentalizzazione del
mondo» (Bollati
Boringhieri,
1992), «Il pianeta
dei naufraghi»
(Bollati
Boringhieri, 1993)
e «Il mondo
ridotto a
mercato»
(Edizioni Lavoro,
1998). L’intervista che qui
pubblichiamo è tratta dal
volume «Europa in
movimento» di Monica Di
Sisto e Alberto Zoratti, appena
pubblicato da Fratelli Frilli
editori di Genova (tel. 010-3074224), che raccoglie
interventi e interviste sulla
globalizzazione. La prefazione
del volume è di Alex Zanotelli. |
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