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Europa in
movimento - a cura di Alberto Zoratti e Monica Di Sisto
Limite dello sviluppo, risorsa per l'Europa
Intervista a Wolfgang
Sachs
Wolfgang Sachs è ricercatore presso il Wuppertal Institut per il clima,
l'ambiente e l'energia. Ha ultimamente pubblicato "Ambiente e giustizia sociale.
I limiti della globalizzazione" (Ed. Riuniti, 2002) e curato "Il Jo'burg Memo:
Ecologia - il nuovo colore della giustizia", ed. Fondazione Heinrich Boell (EMI,
2002).
Non c'è un solo modo di
costruire la società mondiale, così come non c'è stato un solo modo di costruire
le nazioni. Wolfgang Sachs, studi di teologia e scienze sociali a Monaco di
Baviera, dal 1993 Senior Fellow all'Università di Wuppertal per il clima,
l'ambiente e l'energia, ha avuto modo di ricordarcelo alla vigilia del Summit
mondiale sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg. L'assetto della società
globale, i suoi ideali, i suoi vincitori e perdenti saranno frutto di prolungati
confronti e lotte di potere. La connettività mondiale, tuttavia, non esige
necessariamente il dominio neoliberale, lo spazio transnazionale in costruzione
può e deve essere modellato su valori di giustizia e di sostenibilità, che
prendano il sopravvento sull'efficienza economica. Non un concetto astratto,
sostiene lo studioso, ma il tentativo concreto di consolidare i diritti dei
popoli alle loro risorse, attraverso il valore del limite. Svolta radicale,
questa, che comporta precise responsabilità dell'Europa.
Professor Sachs, che cosa significa "limite dello sviluppo" e quali sono le
responsabilità che comporta l'introduzione di questo criterio per l'Europa?
Per prima cosa bisogna capire meglio che cosa è lo sviluppo. Intendo per
sviluppo quell'andamento convenzionale che utilizza sempre più risorse della
natura - materiali ed energia - per produrre ricchezza. I limiti, invece, sono
limiti biofisici. Voglio dire che negli ultimi venti-trent'anni si è rivelata in
molti modi la finitezza della biosfera, nonostante il fatto che solo una
minoranza della popolazione globale abbia usufruito dei frutti del progresso.
Quindi, da una prospettiva ecologica, lo sviluppo né può essere esteso nello
spazio, vuol dire globalizzato a tutti i popoli, ma nemmeno può essere mantenuto
attraverso il tempo, cioè non potrebbe andare avanti sempre così. E' quindi in
questo senso che ritengo si possa parlare dei "limiti dello sviluppo". Non credo
che la politica europea abbia accettato, assorbito l'esperienza storica dei
limiti biofisici dello sviluppo. Quello che ha concepito sono piuttosto delle
difficoltà collaterali. Certo, gli Stati membri hanno riconosciuto che ci sono
problemi ambientali (rifiuti, riscaldamento della terra, eccetera), però tutto
sommato li vedono questi problemi come incidenti che si possono risolvere
camminando, correndo, competendo, quindi non li considerano un vincolo serio che
ci costringe a ripensare i modelli oltreché l'idea stessa dello sviluppo.
Quali sono i punti più critici in questo momento della condizione ambientale
globale?
In un certo senso si può osservare una doppia crisi ecologica nel mondo. Da un
lato c'è quella che noi, i paesi OCSE, conosciamo bene, che è la crisi delle
risorse fossili. Per duecento anni abbiamo alimentato la crescita trasformando
la terra in miniera e trasportando i materiali che erano sepolti nella terra
dalla litosfera all'atmosfera. Il problema più grave è certamente l'effetto
serra e il riscaldamento della terra, che non è una minaccia del futuro, ma già
una minaccia del presente.
D'altro canto, però, noi tendiamo a perdere di vista la seconda crisi ecologica:
quella delle risorse viventi, le risorse biotiche come le foreste, il suolo, la
pesca, l'acqua. Questa grave difficoltà per noi è meno visibile, perché certo il
Nord del mondo vive ad una certa distanza dalla natura. La crisi delle risorse
viventi colpisce molto più il sud del mondo, anche perché il 30% dell'umanità
vive direttamente dalla natura, e questo 30% in gran parte vive al Sud, non va
al supermercato per comprare patate, materiali per costruzione, ma, ad esempio,
coltiva i campi, prende nelle foreste la legna o le piante medicinali e così
via. Questi popoli hanno bisogno della natura, dei prati, delle acque, dei
fiumi, dei boschi per la sopravvivenza quotidiana ed ecco perché questa seconda
crisi ecologica è molto intrecciata con i problemi di sopravvivenza, povertà, di
dignità umana in senso lato.
Qual è l'attenzione delle politiche europee per la difesa e la tutela
dell'ambiente?
Anche questa domanda contiene due risposte. E', a mio avviso, da apprezzare che
la politica ambientale in sede europea sia abbastanza articolata, in particolare
che abbia più o meno accettato come strategia principale, per quanto mi risulta,
quella della ecoefficienza, cioè l'idea che sarà possibile creare un valore
economico con sempre meno input di materiali ed energie, con tutto ciò che
questo comporta come conseguenza nella produzione di energia, nell'agricoltura,
nella promozione di tecnologie e così via. Gli esperti dell'ambiente a livello
europeo, tuttavia, non determinano le politiche europee. Faccio un esempio molto
significativo: anche l'Italia riceve fondi strutturali europei, che in alcuni
casi appoggiano esperienze molto interessanti, come la trasformazione ecologica
dell'agricoltura, però questi esempi positivi vengono surclassati da tanti altri
progetti in cui succede esattamente il contrario, esperienze in cui si può quasi
dire che, anche, ad esempio, nel Sud d'Italia, ovunque ci sia distruzione
ecologica è molto probabile che siano coinvolti i fondi della comunità europea.
Cosa vuol dire? Che non c'è una politica ambientale orizzontale, nella quale
l'ambiente sia diventato una pietra angolare per tutte le politiche, quelle del
traffico come quelle dell'agricoltura, quelle dell'economia come quelle degli
affari esteri. In altri termini, le politiche ambientali europee, per quanto
siano, ammettiamolo, interessanti, sono più o meno tutte imprigionate in un
compartimento specializzato, e non riescono a diventare veramente un imperativo
che vale per tutte le politiche.
Quali sono, a suo avviso, i percorsi più urgenti da intraprendere da parte
delle istituzioni europee per affrontare le emergenze che abbiamo evidenziato?
Rivolgendo lo sguardo all'interno dell'Europa, direi, come già nel passato, che
l'asse delle politiche contro l'effetto serra è quella principale perché vuole
anche dire, in termini diversi, avvicinarsi ad una transizione verso economie
post-fossili. Ad esempio, dov'è molto più difficile farlo, ma dove anche
l'Europa era mancante in un modo spaventoso, sono le politiche dei trasporti.
Basta guardare la costruzione di autostrade, o la libertà pazzesca che è stata
data allo sviluppo del traffico aereo, per capire quanto le parole valgono
niente rispetto alle dinamiche della realtà. Anche gli europei sono stati
impotenti nel contraddire e nel frenare queste tendenza.
D'altro canto, in agricoltura qualcosa si sta muovendo nel senso di ri-orientare
il sistema dei sussidi da un appoggio al volume di produzione verso un appoggio
per i contadini stessi. In questo cambiamento di prospettiva c'entra anche un
appoggio alla riduzione degli sprechi. In quanto ecologia vuol dire ridurre
l'inquinamento acustico, nocivo, e tossico, cioè il degrado delle acque, del
suolo e dell'aria, non ci sono dubbi: l'Europa ha fatto tanto progresso – a
prescindere per il momento dal fatto che una parte della produzione inquinatrice
si sia traslocata ai paesi del sud.. Rimangono solo tasche di un certo
sottosviluppo come in Italia, in Grecia, in Portogallo dove non si riesce ad
eliminare l'inquinamento dell'aria delle città. Tuttavia, un'economia pulita non
è per forza un'economia sostenibile. Anche un'economia pulita può essere vorace
di risorse. Sostenibilità è una cosa diversa: vuol dire avere un economia che
funziona, che dà sussistenza ma anche dignità e confort alla gente, con un
volume molto ridotto di energie e di materiali. E in questo senso siamo tutti
all'inizio.
Per quanto riguarda il ruolo internazionale d'Europa ho trovato molto felice la
reazione europea dopo la sconfitta subita al summit di Johannesburg per quanto
riguarda le politiche delle energie rinnovabili. La proposta dell'Europa di
assicurare il15% della produzione primaria con energie rinnovabili entro il 2010
è stata respinta dagli USA, dall'Australia e anche dal G77. L'iniziativa presa
all'indomani del voto contrario è stata di prendere atto del non raggiungimento
di un accordo globale, ma di provvedere comunque con un'iniziativa comune per la
promozione delle energie rinnovabili nel mondo. Al momento stesso avevano già
aderito una quindicina di paesi e mi dicono che oggi come oggi sono 70 i Paesi
che nel mondo si sono dichiarati interessati alla cosa. Perché dico che è stata
una scelta felice? Noi dobbiamo fare i conti con il fatto che siamo di fronte ad
un potere mondiale che si rifiuta d'essere parte di qualsiasi politica di
cooperazione e di coordinamento. Per questo motivo nei prossimi anni non c'è da
aspettarsi che ci sia una possibilità d'accordi globali. Anzi, per spingere
questa domanda sull'agenda delle priorità politiche ci dovremo porre sicuramente
il problema di come sarà possibile contenere gli americani. Come una volta c'era
il contenimento del comunismo, ora è necessaria una politica di contenimento
dell' "americanismo", o, meglio, del "bushismo". Questa realtà cambia, secondo
me, le regole del mondo, cambia anche le esigenze delle politiche. Sono tanti a
non aver capito che, per raggiungere un risultato soddisfacente in ambito
ambientale, non si tratta di coccolare e motivare gli americani, ma di capire
che la loro politica esplicita si sostanzia nel fare a meno della cooperazione
con gli altri paesi. L'Europa c'è ed ha un'opportunità storica: farsi motore di
accordi, di reti di cooperazione sub-globali e di invitare, in particolare, quei
partner del Sud che sono interessati a forme di cooperazione, ad andare avanti
insieme sulla strada della sostenibilità.
Ma i movimenti di base, sociali ed ambientalisti, quale ruolo possono giocare
e quali sono quali sono secondo lei i passi necessari che debbono compiere per
facilitare questo processo?
Sul piano delle attività, mi sembra che i movimenti, soprattutto i cosiddetti
"new global", corrano il rischio di non prestare abbastanza attenzione alle
iniziative locali di base, in particolare a quelle che non sono così facilmente
mobilitabili da parte di un partito o un programma politico. Esperienze come
quella della città di Padova, dove una rete di associazioni sta rinaturalizzando
un fiume che è stato pavimentato 20-30 anni fa, o altri tentativi di agricoltura
ecologica che pure ci sono anche in Italia, ma che non sono espressivamente o
esplicitamente politiche nel senso convenzionale, e che puntano piuttosto al
miglioramento della propria situazione di vita o all'innovazione dell'apparato
di produzione sono in effetti trascurate. Le spinte partitiche, che ci sono, le
spinte anche dogmatistiche che ci sono cercano di imporsi su di esse, di
sovradeterminarle.
Dal punto di vista programmatico, e in parte mi ricollego a ciò che ho già
sostenuto, direi che la dimensione ambientale, almeno finora, manca
clamorosamente dal mainstream dei "no-global". Credo che questi gruppi non
abbiano ancora capito che è necessario pensare la giustizia in modo diverso
anche solamente rispetto a 30 anni fa, quindi non si può pensare o parlare di
giustizia nel mondo senza, allo stesso tempo, parlare di ecologia. Se leggi in
questa chiave The Economist, il giornale del mercato internazionale, e in
parallelo Le Monde Diplomatique, che invece cerca di seguire il dibattito
culturale alternativo in atto, ti accorgi che non sono poi così tanto diversi:
ne l'uno ne l'altro mostra gran che di devi consapevolezza ecologica. Ritengo
davvero inquietante la comunanza tra l'ideologia dominante e il mainstream
no-global, perché condividono entrambi una filosofia se non "produttivista",
certamente "sviluppista". Dobbiamo prioritariamente, dunque, fare i conti con lo
"sviluppismo", e integrare nel nostro orizzonte culturale la prospettiva
dell'ambiente, che vuol dire come vivere dignitosamente e con giustizia,
all'interno dei limiti della biosfera. C'è ancora molto lavoro programmatico da
fare.
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