Le genovesi
Streghe, sante, prostitute, schiave, muse ed eroine
 
di Luca Ponte


Primo capitolo. Dalla leggenda alla storia

Tutte le donne diventano simili alle loro madri, è quella la loro tragedia.
L’uomo no, ecco la tragedia sua.

Oscar Wilde

La dea dalle belle trecce
Poco fa ho messo le mani avanti, dicendo come facilmente avrei potuto attirarmi qualche antipatia. Ma non è colpa mia se la più antica fra le figure femminili liguri il cui nome sia entrato a fare parte della storia è una strega. O meglio: strega e non solo, essendo le sue doti di ammaliatrice non attribuibili soltanto alle arti magiche. Avrete già capito che sto parlando di Circe, “la dea dalle belle trecce”, colei che incantò Ulisse. Euripide, il drammaturgo vissuto nel V secolo a.C., in un verso de Le Troiane dice infatti espressamente che la maga è ligure. Lo ricordano anche Martini e Gori ne La Liguria e la sua anima, insieme con il fatto che le voci greche ligus e ligues traducono sia ligure che stridulo e melodioso (tanto che c’è stato chi ha voluto dedurne che fossero, i liguri, un popolo di cantori). La fama di Circe, il cui nome, secondo alcuni, viene dal greco kirkos, che significa falco, rapace (ma indicherebbe anche l’ambra, pietra assai preziosa presso i nostri progenitori), è legata soprattutto all’Odissea, oltreché alle Metamorfosi di Ovidio ed alle Argonautiche di Apollodoro (il quale ne darebbe una visione più obiettiva rispetto ad Omero, influenzato dalla civiltà patriarcale achea), ma numerosissimi sono gli autori che, in ogni tempo, hanno parlato di lei. “Dea o donna mortale, non riuscimmo a capire”, fa dire Omero agli uomini di Ulisse, i quali la vedono per la prima volta sotto le spoglie d’una giovane e bella tessitrice che canta con voce soave, intenta a tessere una grande tela. Evidentemente, par loro tutt’altro che una strega. L’episodio narrato da Omero è ben noto: Ulisse arriva nell’isola Eea, ove sorge un palazzo incantato circondato da giardini e custodito da lupi e leoni addomesticati, in realtà uomini così trasformati dalla maga. Penetrati nel palazzo in avanscoperta, i compagni di Ulisse sono mutati dalla maga in maiali, ma lui si salva, grazie alle proprietà di un’erba indicatagli da Mercurio, prontamente invocato dall’eroe. Circe tenta di trasformarlo, ma non riesce: è la prima volta che le accade, e lui il primo uomo a resisterle: come succede in queste cose, ella si innamora di lui, rendendolo, in un certo modo, vulnerabile ad un altro tipo di magia, quella più grande di tutte: l’amore. Ulisse, divenuto il suo amante, persuade Circe a ridare la forma originale ai suoi compagni e rimane con lei per oltre un anno, risolvendosi a riprendere il viaggio soltanto dopo le insistenze dei compagni. Molti amori finiscono bruscamente, con l’una che manda l’altro “all’inferno”: Circe lo fa in maniera letterale, pur per una buona causa: spedisce infatti Ulisse nell’Ade a interrogare Tiresia, l’indovino, il quale lo avverte che Poseidone, il re del mare, gli è avverso. Circe inoltre gli rivela le difficoltà che avrebbe ancora incontrato prima di giungere in patria.
Storia e leggenda, nelle epoche remote, vanno a braccetto, e sovente sono la stessa cosa; non è, forse, la leggenda, la storia dei tempi remoti organizzata in una forma che le consenta la sopravvivenza orale. Fra le tante ipotesi che sono state fatte (fra le quali, i numerosi figli che sarebbero nati dall’amore fra la maga e Ulisse), certo è che l’isola Eea fu identificata nell’estremità del promontorio del Circeo (da lei il nome), che culmina col rilievo omonimo (541 metri) e che si conosce essere stato, in epoche lontane, un’isola. E in una delle tante grotte marine che si trovano alla sua base, furono ritrovati resti umani risalenti a tempi remoti, oltreché un cerchio di pietre al centro del quale era posto un cranio, ciò che ha fatto supporre l’esistenza di rituali magici.
Ma chi è, dunque, Circe, identificata quando con Marica, dea italica del Minturno, quando con Calipso, la ninfa che trattenne Ulisse per sette anni nell’isola di Ogigia? “Qual è dunque la maga che cambia in porci i suoi adoratori e i cui incanti sono distrutti dal momento in cui essa pure è soggiogata dall’amore? È la cortigiana antica, la donna senza amore che assorbe ed avvilisce tutto ciò che avvicina. Circe è la donna viziosa che affascina e degrada gli amanti. Ci sono infatti donne il cui amore degrada le anime, mostri di bellezza senza cuore”. Così Elifas Lévi nella sua Storia della magia, in una visione tutt’altro che celestiale. Zolla riconosce in lei quella figura femminile mitica, sia dea o sacerdotessa, presente in tutte le culture, dalla tibetana alla celtica, cui gli eroi di turno strappano i poteri (forse anche un modo per sottolineare il passaggio, in età remote, al patriarcato: si veda, in proposito, il saggio di Bachofen citato nella bibliografia). Ma la letteratura su Circe, considerata nelle ottiche più diverse, è molto ampia e non si può che ad essa rimandare. Ricorderò solo ch’ella morì per mano di Telemaco, figlio di Ulisse.
A questa figura estremamente affascinante di “iniziata” e amante, sembra davvero far, per dir così, da contraltare, in tempi altrettanto remoti, un’altra donna ligure della quale la memoria ha conservato il nome.

Le nozze di Gyptis
Aristotele narra che la foce del Rodano era abitata dai liguri Segobrigi. Il loro re, Nanno, aveva una figlia in età da marito, Gyptis, e organizzò secondo l’usanza un banchetto nuziale durante il quale ella avrebbe scelto il proprio sposo. Ma seguiamo il racconto com’è riportato da Bernardini ne La preistoria in Liguria:

Un gruppo di coloni greci di Focea, guidati dai giovani e forti capi Simos e Protis e accompagnati dalla nobile matrona di Efeso Aristarché, incaricata di portare l’immagine della Dea Madre, come le era stato comandato in sogno dalla dea Artemide, approdarono nel tratto orientale del golfo del Leone, territorio abitato dai liguri Segobrigi. Proprio in quel giorno il loro re Nanno aveva deciso di celebrare le nozze della figlia Gyptis (o Petta, come la nomina Aristotele). La tradizione voleva che la fanciulla scegliesse liberamente il proprio sposo tra i convitati, segno dell’evidente considerazione di cui godeva la donna nella società del tempo. I capi dei nuovi arrivati, in quanto ospiti, furono invitati a prendere parte al banchetto. Nel momento cruciale della cerimonia, il re Nanno chiese alla figlia, secondo il costume, di porgere l’acqua al giovane che sarebbe divenuto suo sposo: e la scelta cadde sul giovane Protis. Il re dei liguri Segobrigi assegnò allora alla coppia la terra per fondare una nuova città, Marsiglia. Alla morte di Nanno, Marsiglia era già grande e prospera. Il successore, Comano, fratello di Gyptis, cercò d’impadronirsene con uno stratagemma, ma fu scoperto a causa delle rivelazioni di una donna ligure della famiglia reale, abituale amante di un giovane greco. Comano, vinto, perì con settemila dei suoi uomini. Il capo dei Liguri eletto subito dopo, certo Catumando, in séguito ad una visione abbandonò i propositi di vendetta e stipulò una pace definitiva coi Focesi di Marsiglia, che divenne città potente e ricca, porto principale dei commerci verso l’interno della Gallia.

Naturalmente, la leggenda è confermata storicamente dall’effettiva presenza focese in Liguria e da quanto si sa dei traffici commerciali del tempo. In quanto al periodo in cui essa nacque, ci si può solo aiutare riferendoci alla presunta data di fondazione di Marsiglia, che si ritiene avvenuta intorno al 600 a.C., anche se tale data è solo indicativa a andrebbe probabilmente spostata all’indietro. In ogni caso, nel racconto sono molti gli elementi degni di nota, sottolineati, del resto, dallo stesso Bernardini, sì che mi pare corretto riportare direttamente le sue parole: “Dal racconto si ricavano alcuni elementi di valutazione assai interessanti sui costumi di vita degli antichi Liguri. Il senso dell’ospitalità è sacro nell’invito che re Nanno rivolge ai nuovi venuti, uno dei quali sposerà la figlia: evidentemente non tutti i liguri erano rozzi e feroci come una certa letteratura cercava di far credere! Il grado di emancipazione femminile, anche se nel nostro caso si tratta della figlia del re, appare spiccato: è la donna che sceglie lo sposo e non viceversa, senza imposizione né opposizione paterna: una situazione davvero idilliaca. L’episodio che precede la sconfitta di Comano rivela poi una sorprendente libertà sessuale da parte delle donne liguri del tempo”.
Se Circe e Gyptis sono due personaggi che stanno a metà fra storia e leggenda, c’è un brano che, restando in epoche remote, fa invece parte della storia ufficiale. In verità esso è ben noto e sovente citato dagli autori che si sono occupati dei trascorsi del nostro popolo e, pur facendo probabilmente parte di quella “certa letteratura” cui si riferisce Bernardini, rende una preziosa testimonianza sulla natura ed il carattere delle nostre donne. Il brano è tratto dalla Biblioteca storica (libro V, parte XVI) di Diodoro Siculo, vissuto nel I secolo a.C.:

(I liguri) abitano un suolo aspro ed affatto sterile: e vivono una vita dura e miserabile tra le fatiche e la molestia continua di pubblici lavori. Perciocché essendo il loro paese montuoso e pieno di alberi, gli uni di essi tutto quanto il giorno impiegano in tagliar legname, a ciò adoperando forti e pesanti scuri; altri, che vogliono coltivare la terra, debbono occuparsi in rompere sassi, poiché tanto è arido il suolo che cogli strumenti non si può levare una zolla, che con essa non si levino sassi. Però, quantunque abbiano a lottare con tante sciagure, a forza di ostinato lavoro superano la natura; sebbene di tante fatiche sostenute, appena poi traggano uno scarso frutto: e l’esercizio continuo e il parchissimo nutrimento rendono macilenti ma nervosi i loro corpi. Hanno essi compagne nelle fatiche le loro donne, le quali al pari degli uomini prendono parte in quei lavori. Essi poi si danno spesso alla cacciagione, e trovando quantità di selvaggiume, con esso si risarciscono della mancanza di biade; e quindi viene, che scorrendo per le loro montagne coperte di neve, ed assuefacendosi a praticare poi più difficili luoghi delle boscaglie, indurano i loro corpi, e ne fortificano i muscoli mirabilmente. Alcuni di loro per la carestia de’ viveri bevono acqua, e vivono di carni di animali domestici e selvatici, e s’empiono la pancia di erbaggi che ivi nascono; così che la loro terra, che pure gli dèi amano, è inaccessibile a Cerere e a Bacco. Costoro la notte dormono nella campagna; e assai di rado in alcune vili baracche o piccoli tuguri; e per lo più in rupi scavate, e in caverne fatte dalla natura, che possono offrir loro il comodo di tenerli al coperto. E in simil maniera hanno tutte le altre cose, tenendo appunto l’antico e misero modo di vita; e per dir tutto in breve, in cotesto paese le donne hanno la robustezza e la bravura degli uomini, e gli uomini quella delle fiere; perciò si afferma, che nelle guerre assai spesso il più valoroso de’ Galli, quando viensi a singolar certame, resta battuto e morto dal gracile ligure. I liguri hanno un’armatura più leggera di quella dei romani: servonsi di uno scudo bislungo alla foggia dei galli, e colla cintura si tengono stretta ed alzata la tunica: portano anche pelli di fiere; ed usano di una spada mediocre. Alcuni però avendo praticato coi romani, cangiarono l’antica forma delle armi, imitando gli usi dei dominanti. Essi sono arditi e forti, non solo in guerra, ma negli altri pericolosi casi della vita. Navigano eziandio per cagione di negozi pel mare di Sardegna e di Libia, spontaneamente esponendosi a pericoli estremi; si servono a ciò di schifi più piccoli delle barchette volgari; né sono pratici del comodo di altre navi; e ciò che fa meraviglia, si è che non temono di sostenere i rischi gravissimi delle tempeste.

Noterete certamente una bella differenza fra i costumi dei liguri di re Nanno con la società appena descritta, che si riferisce, per giunta, a parecchi secoli dopo! Ho da sempre condiviso anch’io questa sorpresa non trovando per nulla accettabile la frettolosa spiegazione per la quale si tratta di due tribù diverse, sempre più distanziatesi, anche culturalmente, nel corso dei secoli. Al riguardo ho espresso alcune considerazioni, in un libro di prossima pubblicazione. A proposito di “certa letteratura”, romanocentrica, cui si accennava prima, così si esprime Gaetano Poggi sugli scrittori romani e sul loro “campione”, Livio, nel volume Genova, XXVI secoli di storia:

(Livio) fu scrittore parziale per eccellenza, perché non aveva altro scopo che di decantare le imprese di Roma, e di seppellir nell’ombra la storia nazionale dei vinti. I liguri per gli scrittori romani non erano che tribù di barbari, gente strana, irreperibile, che non compariva che per fare imboscate, uomini che abitavano nelle caverne, che vivevano con nulla, che vestivano pelli e somigliavano a belve.

Se non ci deve sorprendere l’atteggiamento dei Romani, comune a tutti (o quasi) i popoli vincitori, lascia invece assai perplessi quello di taluni “dotti” di oggi che tale atteggiamento sembrano avere ereditato. Qui, comunque, mi preme sottolineare il carattere della donna ligure così come emerge da quanto abbiamo veduto fino ad ora. Vi parrà una mera forzatura, eppure ugualmente vi invito a riflettere e a tenere a mente, andando oltre, come questi pochi elementi che sono emersi abbiano una valenza che guarda già ben al di là di quelle epoche remote. Circe è una sciamana, una strega, antesignana d’una tradizione che troverà, nelle bàzzure nostrane, un grande sviluppo, conoscendo purtroppo episodi anche altamente drammatici, durante i processi inquisitori. Insieme, ella è una donna dalla forte personalità: la magia con la quale ammalia Ulisse è l’amore, e, quando questo non basta più a tenere legato a sé l’eroe, ella sa farsi da parte, tornando ad essere indipendente e, rovescio della medaglia, sola.

Corsa scopre un’isola
Esempio di grande emancipazione, oltreché di apertura e libertà dei costumi, sono Gyptis e le donne del suo tempo. Gyptis, aggiungerei, è anche il chiaro esempio di come la donna (ma l’uomo, pure) ligure abbia da sempre accolto lo straniero. Se ci pensate, è accaduto in ogni tempo, e ancora nel Novecento, con le massicce emigrazioni dal meridione d’Italia prima e dai paesi extracomunitari poi, con buona pace di coloro che ciclicamente vaneggiano di eccessi di diffidenza o addirittura di razzismo (“cultura”, questa, che davvero non ci appartiene). In Gyptis, al più, vedrei piuttosto – ma lungi da me “macchiare” la poeticità della leggenda – una certa lungimiranza su quanto l’alleanza con i focesi avrebbe portato ai liguri in termini sia economici che culturali. È una forzatura, però immagino che proprio allo scopo di ricordare l’inizio del fruttuoso rapporto fra Liguri e Focesi sia nata questa leggenda. Nel brano di Diodoro emerge invece la figura di una donna operosa e lavoratrice, in grado di affiancare l’uomo nella fatica quotidiana, che non dev’essere davvero stata poca, in ogni epoca. C’è un’altra storia, narrata da Strabone, che racconta di alcuni liguri che lavoravano a giornata per un greco, tal Carmoleonte: una donna ha le doglie e interrompe il lavoro per il tempo appena necessario a partorire, poi accomoda il bambino alla meglio e ritorna al lavoro per non perdere i frutti della giornata. È una vicenda che la dice lunga sulle difficoltà della vita delle nostre ave. Spero che nessuno di voi voglia vederci, invece, un nesso con la diceria secondo la quale i genovesi sono troppo parsimoniosi: è infatti, questo, un racconto drammatico, che rivela un tempo aspro e una volontà ferrea di fronteggiarlo, per sopravvivere e guardare avanti. Per inciso, il racconto termina con il greco che si avvede di quanto la donna appaia stanca e provata, ne capisce il motivo e la manda ad accudire il bimbo, pagandole ugualmente la giornata.
Un’altra leggenda che affonda le sue radici nella notte dei tempi, tramandataci da Umberto Foglietta, narra di una pastorella ligure che un giorno notò che uno dei suoi tori “era uso andarsene a nuoto per lo mare e di poi ritornare molto ben satollo”. Incuriosita e desiderosa di venire a conoscenza “delle pasture a lei sconosciute”, attende che il toro s’immerga di nuovo e lo segue in barca fino a scorgere davanti a sé un’isola, apparentemente molto grande e bella, e subito ritorna indietro ad informare i suoi compagni. Con loro visita l’isola, la quale si rivela splendida e fertilissima. I suoi compagni decidono, allora, di dare all’isola il nome di lei: Corsa, il nome della pastorella, e Corsica si sarebbe chiamata l’isola.
Mi sembra che la donna ligure riveli fin da queste prime testimonianze una personalità forte e indipendente, leale e coraggiosa (è anche noto l’episodio, narrato da Tacito nelle sue Historie, della madre ligure maltrattata e uccisa dai romani per non aver voluto rivelare dove si trovasse il proprio figlio, episodio cui fa drammaticamente eco, secoli dopo, il silenzio delle madri dei diciotto martiri genovesi di Scio, torturati e uccisi davanti a loro dai turchi per essersi rifiutati ad abiurare la propria fede: esse rimasero forti e mute, e nessuna esortò il figlio a tradire il proprio credo), simile al carattere che conserva ancora oggi. Vi parrà una conclusione piuttosto affrettata, la mia, e forse lo è, ma non ha importanza, almeno per adesso; siamo, infatti, soltanto al principio d’una storia lunga oltre tremila anni.


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