Gloria Bardi

Giustizia e impunità
Interviste a Antonio Di Pietro e Marco Travaglio
 

 

Introduzione

Chi ha detto che la politica è una dimensione esclusiva?
È esattamente il pregiudizio contro cui noi dei movimenti vogliamo ribellarci, culturalmente, moralmente prima ancora che politicamente.
Si fa una gran confusione su questa parola, “politica”, si dice che i magistrati ne fanno e non dovrebbero, che i sindacati ne fanno e non dovrebbero, che i movimenti ne fanno e non dovrebbero, che le associazioni per i diritti umani, buona parte della Chiesa, persino certi conduttori, Santoro per tutti, ne fanno e non dovrebbero.
E invece i “travet di sistema”, quelli che , se sono dirigenti tv, ci propinano assuefazione in pillole e miss Italia in salsa rosa o, se sono magistrati, accettano di essere “bocca della legge”, o se sono preti chiudono un occhio anzi due sulla carità pastorale, per il solito piatto di lenticchie del privilegio, questi non fanno politica.
Fare i fiancheggiatori del potere significa non fare politica?
E che non si debba far politica non lo dice solo il presidente del Consiglio, che non ci sta simpatico, non lo dicono solo i partiti che lo appoggiano, o che da lui si fanno appoggiare, che non ci stanno simpatici, non lo dicono solo i loro potenti mezzi di comunicazione, ma lo dicono anche i partiti del centro-sinistra. Quelli che abbiamo sempre votato.
Lo hanno detto e continuano a dirlo dei magistrati e di noi movimenti, sorti spontaneamente dal rifiuto di questa arroganza generalizzata, che vorrebbe contenderci il ruolo di soggetti politici.
Ma io persona, io cittadina non faccio episodicamente politica, io sono essenzialmente un soggetto politico ed è stato un male che me lo sia per molto tempo dimenticato. perché solo nella mente riflessiva di ogni persona, nella condivisione e nel confronto da cui nascono i movimenti, fatti dalle persone e non sulle persone, possono maturare gli antidoti al potere.
Tutti coloro che ci tacciano di abusivismo civico hanno confuso politica e potere, forse perché nella macchina del potere, che è appunto la “partitocrazia”, nel sistema che lo distribuisce, che lo calibra, che lo interfaccia, che ne fa oggetto di scambio e convergenze parallele, lì hanno perso, con l’orizzonte ideale, il senso della differenza.
Ma il potere lo conferiscono le persone e lo conferiscono in quanto “soggetti politici supremi”, legittimanti.
“Politico” non significa “partitico”, ma può significare, al contrario, esercizio di una sorveglianza vigile affinché i partiti non perdano di vista i valori, gli slanci, in nome degli equilibri strutturali. Voce della coscienza, grillo parlante.
Essere politico vuol dire riconoscere come proprio il ruolo che ci ha assegnato la polis, singolarmente e funzionalmente.
Che il magistrato non deve fare politica significa forse che deve disattendere al ruolo che la polis gli ha dato, di garante della Costituzione?
Non dovrà sposare cause di partito in quanto tali, di schieramento specifico, ma il matrimonio con la Costituzione è legittimo, santificato e soprattutto politico, nel senso più pieno del termine.
La dimensione politica è data dai fini e dai mezzi, dagli ideali e dalle strategie per realizzarli.
Nessuno nega ai politici in senso stretto la competenza sulle strategie, quella che abbiamo visto ahimè annebbiarsi è l’identificazione delle cause, dei valori di riferimento.
Noi nasciamo dall’esigenza di riaffermare le cause (pluralismo, solidarietà, pari opportunità, diritto comune alla dignità e alla felicità), sulle cause facciamo cordata con chi parimenti le sostiene; quanto alle strategie, siamo pronti a riconoscerne ai professionisti della politica e ai partiti, l’elaborazione.
Vogliamo solo che sia rimesso a punto l’orologio, perché ultimamente non segnava più l’ora giusta. O non la segnava con sufficiente determinazione.
O non la segnava in modo tale che noi potessimo capirla.
E infatti il secondo male che ci ha mossi è la diffusa incapacità di comunicare da parte dei professionisti politici, di parlare linguaggi appropriati, ricevibili secondo criteri di tipo sociologico e cognitivo.
Conoscere è il primo dovere di chi si è assunto la responsabilità di governare. Disporsi in posizione di apprendimento, studiare, interpellare chi ha competenze specifiche. Rinnovare la presa di contatto col mondo.
Conoscere per riconoscere e comunicare con efficacia.
Elaborare nuovi linguaggi, nuovi approcci, e soprattutto riconvertire tutte le persone al piacere di occuparsi della cosa comune.
Né la nostra è da intendersi come pura contrapposizione, azione di semplice negazione, espressa da un “contro”: contro Berlusconi, contro il governo, contro la scuola privata ecc.
Noi siamo piuttosto “per”, per l’articolo 3 della Costituzione, per i valori cui ho accennato prima, solo che finché non li abbiamo sentiti tanto minacciati non ne abbiamo colto appieno l’importanza e la positività.
Oggi sappiamo dove riconoscerci e sono piuttosto Berlusconi & C. ad essere contro di noi.
In età di pluralismo, in età di scolarizzazione diffusa, finché dura, è giusto e sacrosanto che si pluralizzi il protagonismo politico.
Lo scritto che segue, la manifestazione da cui è tratto, le riflessioni che vi si svolgono, le domande e le risposte che vi danno corpo non rappresentano quindi, né il trionfo della partigianeria né il trionfo dell’impolitica, ma della politica restituita finalmente a se stessa.
Ed è lo stesso spirito che ci ha condotti a Roma il 14 settembre a dare “spallate” di onestà intellettuale.

Gloria Bardi


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