L'imprevisto
 

un noir di
Federico Codevilla
Erika Petricci
Gian Luca Porcile
Alessandro Ravera


Le prime pagine del libro


La porta della veranda si aprì, inondando la stanza di luce.
 
Mi svegliai di colpo, cercando di capire quale mano invisibile avesse trasformato l’ambiente in modo così repentino. Rimasi per qualche istante immobile, fissando le ante che ancora ondeggiavano lievemente spinte dal vento. Mi tranquillizzai e smisi di pensare alla porta.
 
Ormai ero completamente sveglio ma decisi di rimanere fermo in letto ancora per qualche minuto, giusto il tempo di richiamare alla memoria ciò che avevo combinato la sera prima. Per carità, non che mi importasse veramente, volevo solo avere qualcosa da raccontare quando avessi incontrato gli amici.
 
Lentamente cominciai a ricordare.
 
Alle spalle avevo una delle solite serate dalla contessina.
 
Chiariamo fin da principio che la contessina non ha un nome, almeno non in questa storia; per dirla diversamente, io la chiamo “la contessina” perché questo è il nome che più di qualunque altro le calza a pennello, quello che racchiude il suo lato snob e il suo aspetto raffinato, il suo piglio esigente e il suo carattere magnanimo.
 
“Giampiero, non puoi farmi questo!” mi aveva detto lei, condensando in queste parole un mondo di pretese: voleva che fossi presente al suo vernissage, pretendeva che indossassi una detestabile giacchina che mi aveva regalato alcuni mesi prima, esigeva che stessi alla larga da una certa Graziella o Gabriella perché era una stronza di prima tacca eccetera eccetera...
 
La serata scivolò via, ed io con lei.
 
La mattina dopo, il 10 giugno – la mattina da cui tutto ebbe inizio – sentivo ancora in bocca il gusto dolce-amaro della birra aromatizzata alla ciliegia, una delle tante indispensabili sciocchezze che non mancano di riempire i mobili bar della contessina.
 
Era una giornata afosa, calda a sufficienza da regalarti l’illusione d’essere già in piena estate. Indossai una camicia hawaiana, pantaloni di lino tinta sabbia e un paio di sandali. Caricai la pipa con del tabacco danese, la ficcai dentro un vecchio borsello e mi diressi verso il porto, dove avevo un vago appuntamento. Non era certo un abbinamento da restarci secchi, ma era quello che faceva per me. Del resto, me ne infischio dell’aspetto generale: mi interessa piuttosto il valore estetico o pratico dei singoli pezzi. La camicia era sgargiante, i pantaloni alla moda, i sandali freschi e il borsello utile. E questo rispecchiava i diversi lati della mia personalità, anche se a vederli tutti di un colpo potevano non  fare un grande effetto.
 
Il porto è per me una meta quasi costante, al di là di qualunque incontro. Mi piace perdermi fra i moli, camminare senza meta, lasciarmi trastullare dai dondolii della mente. Lo faccio spesso. E in queste passeggiate silenziose, ho una sola e insostituibile compagnia: Goffredo.
 
Lui mi vede molto prima che io veda lui e mi viene incontro col suo passo da coyote e la sua pelliccia completamente nera.
 
Goffredo sembra un bel cane, visto da lontano.
 
Da lontano diresti che è più un Diablo, un Wolf o almeno un Fido, ma quando si avvicina e inizi a notare il passo sbilenco e il pelo arruffato ti rendi conto che Goffredo è un cane che è meglio vedere da lontano.
 
Ci tengo a precisare che non è il mio cane, non è il cane di nessuno e non è neppure del tutto randagio: in fin dei conti è il cane di tutti e ad ognuno si avvicina amichevolmente. Goffredo è un venditore di fumo: in cambio di qualche carezza o di qualcosa da mangiare ti regala l’illusione di avere un cane.
 
Mi segue fino al molo, mi annusa la mano ed io lo accarezzo dicendogli qualcosa che quasi certamente comprende quanto io capisco il suo abbaiare: l’essenziale.
 
Goffredo ed io ci somigliamo. Anche la mia vita, a suo modo, è piuttosto randagia, talvolta incerta, dubbiosa e quasi totalmente scevra da doveri e impegni spiacevoli.
 
Fino adesso, infatti, l’andazzo è sempre stato pressappoco così: trovo un impiego, faccio il minimo indispensabile per settantotto giorni lavorativi, poi mi licenzio e per sei mesi vivo con l’assegno di disoccupazione.
 
Una vita coi fiocchi! L’unica sfiga... è che non ho mai un po’ di ferie.
 
Che poi... ferie è una di quelle parole che non dovrei usare perché l’ho debellata dal mio vocabolario. Ho tolto anche fatica, sgobbare, divieto, proibito, dovere, peccato, penitenza, riverenza... vanga, zappa e badile (tanto non le uso)... bigamia, adulterio, tradimento eccetera eccetera... In compenso ho aggiunto stanappare, fluido, jamaicarsi, sbobbolo, memma. Tutti termini che non avrò modo di chiarirvi, ma sarà come se li aveste sempre sentiti, usati e capiti: le cose verranno da sé, abbiate fede perché, fortunatamente, per un Maometto che va, ci sono un sacco di montagne che vengono. Per il momento mi limito a dirvi che alcuni vocaboli li ho messi al muro ed altri li ho liberati, un po’ per gusto e un po’ per diletto.
 
Non posso negare, infatti, che provo un certo godimento nel modificare quel che altri credono sacro. È un godimento sia sadico che masochista perché prima vai contro agli schemi degli altri e poi spezzi l’ordine che tu stesso hai costituito, il che significa pressappoco essere incoerenti. Ma per me questo non è un problema, perché ho cancellato anche “incoerenti” dal vocabolario.
 
Avete idea di quanti termini inutili ci sono nel vocabolario?! Se lo tenete sollevato per cinque minuti forse lo capite, perché è pesante. E tutto ciò che non è leggero andrebbe guardato con sospetto. Non solo abbonda di vocaboli inutili, ma manca di quelli utili. Ad esempio, quando vedo una ragazza che mi prende quel tanto che basta per baciarla e non abbastanza per prometterle di rivederla, non so come definirla perché sul vocabolario non c’è scritto; così se la bacio e lei mi domanda “Cosa sono per te?” io resto un po’ lì, a bocca aperta, con un’aria che vi lascio immaginare e poi le dico una mezza verità. E per dio! non è colpa mia: è colpa del vocabolario!
 
Del resto, anche gli altri hanno delle difficoltà a definirmi; a volte non riuscendo ad appiccicarmi addosso nemmeno un aggettivo si buttano su paragoni assurdi, che vi risparmio volentieri. Ma se dovessi essere io a dire come mi sento, vi direi che mi sento come una goccia d’acqua; mi trovo, cioè, in uno stato in cui perdo facilmente aderenza con la realtà e ci scivolo sopra come una goccia su una foglia.
 
Francamente, mi piace pensare di essere come una goccia, una goccia d’acqua che, come una lente, restituisce un’immagine del mondo alterata dalla sua stessa forma, come se ci raccontasse la storia di qualcosa di alternativo da ciò che vediamo direttamente con i nostri occhi.
 
Non so che farci, ma la parte della goccia mi calza a pennello: in questo accidente di mondo mi prende bene essere fluido, se fossi nato su Marte forse avrei le antenne verdi sulla testa e mi piacerebbe essere tutt’altro, magari un flipper o una spugna o persino un gatto impagliato, ma qui mi piace essere così.
 
Ora, con certi presupposti, capirete bene che scivolare nell’imprevisto è piuttosto semplice ed è per questo che quella fatidica mattina di fine primavera non fui particolarmente sorpreso dal seguito della giornata, per quanto insolito e bizzarro.
 


Torna indietro