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Intervista a Checchino Antonini
a cura di Giancarlo Castelli - Il Nuovo
No Global,
appuntamento in autunno
Ad un anno di distanza dai
fatti di Genova, qualcuno denuncia i primi
segni di cedimento del movimento no-global. Al partito degli ottimisti
si iscrive Checchino Antonini, giornalista e autore di un libro sul G8.
di Giancarlo Castelli
Ha seguito da vicino, come cronista del quotidiano comunista
Liberazione, tutte le fasi del G8 di
Genova del luglio 2001. Ha visto da vicino il corpo inerme e martoriato di Carlo
Giuliani, appena ucciso a piazza Alimonda. Ha scritto un libro su quei tre
giorni di fuoco, quando il capoluogo ligure era diviso zona rossa, blindata e
presidiata da migliaia di poliziotti e carabinieri in assetto anti-sommossa e
zona gialla, terra di nessuno e, in quei giorni, campo di cruenta battaglia,
diventato simbolo, immaginario e anche un po' metafisico, dei diritti negati.
Checchino Antonini, 40 anni, giornalista di Liberazione, autore di un libro
intitolato, appunto, Zona gialla,
sarà nei prossimi giorni a Genova alle
manifestazioni indette per il primo anniversario della morte di Carlo Giuliani.
Un'occasione per trarre il bilancio di un anno vissuto molto intensamente: le
battaglie no-global, l'11 settembre, l'occupazione israeliana dei territori
palestinesi, l'articolo 18.
Qual è lo stato di salute del movimento a un anno di distanza dai giorni di
Genova?
Data la natura carsica di questo movimento, secondo me sta bene ed è pure in
crescita.
Eppure qualcuno, anche tra i rappresentanti del movimento, denuncia segni di
cedimento. Vedi la manifestazione in Campidoglio contro il presidente della
Banca Mondiale.
È inevitabile che ci siano alti e bassi. Chi pensava ad un più uno continuo, si
sbagliava. La dinamica è quella dello stop & go. Del resto, la storia è fatta di
gente in carne e ossa. Piuttosto, sono cambiate le strategie. Il movimento
matura in battaglie locali, piccole vertenze. Senza dimenticare i grandi
appuntamenti. Penso alla grande manifestazione del novembre 2001. Penso allo
sciopero generale della Cgil del 23 marzo. Questo, poi, è un movimento
complesso, che unisce diverse anime e nessuna egemone. E' l'unico modo per
sfuggire alla staticità, al blocco unico.
Un giudizio un po' ottimista. Qualcuno, negli ultimi tempi, aveva già cantato il
De profundis.
Guarda, la fine del movimento era stata già annunciata il 22 luglio,
all'indomani della fine del G8 e col cadavere di Carlo ancora fresco. Poi, un
secondo annuncio è giunto dopo l'11 settembre. Non è stato così. Perché le
istanze che il movimento porta avanti sono giuste: prima fra tutte, i guasti
causati dal neo-liberismo. Neppure quel grande fenomeno mediatico rappresentato
dai girotondi ha intaccato la forza del movimento. Noi siamo un'altra cosa.
Il dubbio è che anche il movimento, però, abbia beneficiato di una grossa eco
mediatica. E che gli incidenti abbiano fatto la loro parte.
Io penso, invece, che la repressione poliziesca abbia avuto un
effetto-boomerang. Anzi, abbia rafforzato la sintonia tra il movimento e
l'opinione pubblica. Qui si tratta di andare oltre i fatti di Genova. Le
contraddizioni del neo-liberismo, che il movimento denuncia quotidianamente,
sono sotto gli occhi di tutti e toccano tutti i settori della vita sociale:
lavoro, ambiente, pace, disparità economica tra nord e sud del mondo. Sono
questioni reali, queste. Non certo ideologiche.
Il movimento tornerà a Genova il 19, 20 e 21 luglio. Si ritroverà di nuovo in
quella zona gialla, da te definito il terreno dei diritti da conquistare.
Il movimento è già riuscito ad abitare la zona gialla, quella della limitazione
dei diritti. Ma le prossime scadenze di Genova non saranno di commemorazione.
Magari di commozione, questo sì. Saranno, principalmente, luogo di discussione
intensissima. Non ci sarà tempo per le commemorazioni. Bisognerà preparare i
prossimi appuntamenti. Primo fra tutti, il Forum sociale europeo che si terrà in
Toscana a novembre. Poi, l'appuntamento dell'autunno prossimo, con le
mobilitazioni a favore dei diritti dei lavoratori. Di tutti i lavoratori, perché
nessuno è escluso dall'attacco all'articolo 18.
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