Intervista a Maurizio Campisi
a cura di Salvo Anzaldi - Namir

 

"Centroamerica. Reportages" è il titolo dell’opera prima di Maurizio Campisi, 40enne giornalista torinese trapiantato da una decina d’anni nel continente americano, edita dalla casa editrice Fratelli Frilli.

Campisi vive in quella bellissima lingua di terra stretta tra gli oceani Pacifico e Atlantico che si chiama Costa Rica. Un paese storicamente tranquillo e politicamente stabile, ideale per seguire con occhio sufficientemente critico quel que pasa nel resto del continente. Il libro, pubblicato dalla genovese Fratelli Frilli Editori, è una toccante raccolta di quindici articoli legati alla vita dei sei paesi che compongono il continente centroamericano: Honduras, Guatemala, Nicaragua, Panama, Salvador, Costa Rica con accenni anche al Messico. 

Tra i pesticidi che rendono sterili i lavoratori delle bananeras e i dimenticati della Sangre Negra, tra i raccoglitori di caffè e le maestrine spedite a farsi massacrare nei luoghi più oscuri del Salvador, emerge un quadro realistico e sbalorditivo della terra che separa gli Stati Uniti dal Sudamerica. Le pagine di Campisi sorprendono il lettore in continuazione, alternando teneri affreschi a tremende bordate allo stomaco. Vengono al pettine tutte le contraddizioni racchiuse in Paesi legati a doppio filo agli Usa. In modo del tutto naturale si evidenziano temi cari oggi ai no-global e comunque più che mai dibattuti negli ultimi mesi su scala mondiale.

Campisi, oggi collaboratore di diverse testate nazionali ("Diario" e "D Donna" su tutte), ha l’occhio esperto di chi ha profondamente studiato la storia dell’America Latina e quello disincantato di chi ha comunque vissuto per trent’anni in Europa. Facendo il giornalista, ma non solo. Maurizio Campisi è stato infatti il bassista dei torinesi Sick Rose, leggendaria garage band che quindici anni fa veniva considerata da molta stampa specializzata come il miglior gruppo musicale d’Italia.

Insomma, ce n’è abbastanza per rivolgere all’autore di "Centroamerica. Reportages" alcune domande. E per leggere, con curiosità e attenzione, le sue risposte.

Reportages dal Centroamerica: quella parte di mondo continua a essere fonte di notizie che destano grande interesse. Come mai? È ancora una terra segnata da grossa instabilità politica e sociale?

Il Centroamerica si presenta ancora oggi come quello che in effetti è: un laboratorio. L’instabilità politica e sociale che ne hanno caratterizzato la storia si dovevano all’ingerenza costante degli Stati Uniti, che in questa regione hanno destinato considerevoli sforzi economici e militari. La dottrina del "destino manifesto" per quanto possa risultare antiquata, ha trovato qui in Centroamerica un effettivo utilizzo. Si tratta quindi di democrazie che sono state sempre in embrione, alle quali non è stato lasciato esprimersi perché dovevano sottostare alle regole del più forte. Oggi può sembrare che questa tendenza sia diminuita, ma lo è solo in apparenza. Alla maggioranza delle nazioni centroamericane è stato imposto il neo-liberalismo, una nuova e oppressiva forma di dipendenza.

Eppure tu scrivi che i luoghi comuni da sempre circolanti sull'America Latina sarebbero da cancellare. Cosa ti porta a fare una considerazione simile? Cos'è cambiato?

I luoghi comuni non mi sono mai piaciuti, sono riduttivi ed in molti casi anche offensivi. I dittatori baffuti o le ballerine in chiffon esistono ormai solo nella letteratura di seconda mano. La realtà, purtroppo, mostra i segni che sono comuni a gran parte del mondo, dove la povertà e la degradazione dell’ambiente sono i tratti distintivi.

Quanto agisce, in negativo e in positivo, la vicinanza degli Usa? A me in Costa Rica colpiscono molto l'esagerata presenza di catene a stelle e strisce (Kfc, McDonald's, etc.) e la goffa ostentazione (cappellini baseball, ad esempio) di valori che in realtà di latino non hanno nulla. L'identità del Centroamerica sta per essere oscurata? In che misura?

La vicinanza degli Usa si visualizza giornalmente attraverso molte cose. Quella che sottolinei tu è l’ostentazione dei simboli della società statunitense. I giovani vivono il mito americano attraverso questa appropriazione quotidiana, dal cappellino dei Dodgers al pranzo da Mc Donald’s, facendo di una possibile emigrazione negli Stati Uniti il punto centrale della loro esistenza. Può essere chiarificatore un episodio che mi è successo un giorno. Parlando con un ragazzo, gli chiesi da dove venisse. Mi rispose: "Dagli Stati Uniti". Allora domandai: "Da quale Stato precisamente?". E lui, come fosse la cosa più normale del mondo: "Dalla Costa Rica". E’ indubbio, poi, che i Paesi centroamericani vivono in stretta dipendenza con tutti i settori degli Stati Uniti. I governi non muovono un dito senza aver prima consultato l’ambasciatore di Washington. 

In Italia, soprattutto sulla scorta dei fatti genovesi di un anno fa, si è parlato e si parla molto di global e no-global. Nel tuo libro scopriamo che l'Honduras, attraverso le proprie maquilas, è ingranaggio fondamentale di questo meccanismo. Vuoi spiegare brevemente il percorso che ha portato il popolo honduregno a cadere in questa situazione?

L’industria del subappalto è l’unica che permette l’impiego di una notevole forza lavoro. I governi fino ad oggi sono stati incapaci di creare una industria nazionale, attingendo dall’esportazione agro-alimentare come unica fonte di ingresso. Bisogna ricordare che questa situazione è sempre stata favorita e mantenuta – in caso contrario si ricorreva a finanziare un colpo di Stato - dagli americani. In questo quadro la maquila risulta l’investimento più redditizio perché a rischio zero per l’economia, anche se implica lo sfruttamento dei lavoratori. 

E la droga? I canali sull'Atlantico sono ancora crocevia obbligato per i traffici che dalla Colombia conducono al Nord America?

Senza dubbio. Ultimamente si preferiscono le strade alle incognite dell’oceano, perché i controlli della Dea si sono fatti più seri. Pero l’uso delle strade comporta la creazione di nuove bande, che vanno ad impiegare persone prima rimaste ai margini, le quali organizzano strutture della mafia in luoghi prima estranei a questa attività. Ossia, il narcotraffico penetra in ambiti locali, rendendo ancora più difficile l’opera di prevenzione. Per quanto riguarda invece gli investimenti del denaro proveniente dal narcotraffico, in Centroamerica si sono sempre fatti e continueranno a farsi. Non esiste legislazione sufficientemente rigida per evitare questo fenomeno.

Eppure il Centroamerica rimane terra bellissima e degna di essere visitata. Cosa consiglieresti a un turista? Quali i posti da vedere e quali quelli da evitare? La violenza urbana che è appannaggio di alcune metropoli sudamericane (Rio de Janeiro su tutte) è riscontrabile anche dalle tue parti?

Sono da evitare le aree periferiche dei centri urbani più grossi, come sono le capitali. La mancanza di politiche sociali ha trasformato questi posti in quartieri senza legge, dove l’aggressione è giustificata solo dal fatto di essere estranei a quella specifica realtà. Le attrazioni naturali mantengono invece una certa sicurezza, anche perché il turismo attrae ricchezza e benessere. Per chi ama le isole, Roatán in Honduras, San Andrés in Nicaragua o l’arcipelago di San Blas a Panama offrono bellezze senza paragoni. Il giro dei vulcani in Costa Rica o in Nicaragua o delle rovine maya in Guatemala e Salvador sono altri itinerari che mi sento di consigliare. L’importante è che il turista non si comporti con l’idea che spesso lo accompagna, che ha molto a che vedere con un’attitudine da "colonizzatore", quando invece è importante che si rispetti l’ambiente, che è l’ultimo tesoro rimasto ai Paesi centroamericani.

"Centroamerica. Reportages" è il tuo primo libro. Arriva dopo molti anni di ricerche, studi e collaborazioni giornalistiche. Hai già in mente un seguito a questo volume o qualche altra idea al riguardo?

I temi non mancano, è invece difficile incontrare l’argomento che possa interessare il lettore. Il prossimo lavoro, comunque, non sarà giornalistico, ma avrà a che vedere con quello che è il mio campo di ricerca come storico dell’America Latina.

Tu vivi in Costa Rica, terra definita "la Svizzera del Centroamerica". È un paese davvero così noioso? Non mi risulta che la famosa puntualità svizzera sia riscontrabile da quelle parti...

I paragoni con la Svizzera fanno parte di quella che io indico come la strategia commerciale per vendere l’immagine della Costa Rica all’estero. Chiaro che la lunga traiettoria democratica e la mancanza di un esercito, così come i dati sull’educazione, giocano a favore di questa immagine. Pero dobbiamo ricordarci che la percentuale di povertà tocca il 20 per cento della popolazione, che per avere un telefono ci si mette due o tre anni, che quando piove seriamente metà del Paese rimane isolato e così via. Noioso no, mai, qui batte forte l’anima latina.

Prima di approdare nel continente americano vivevi a Torino. Nel tuo curriculum figurano esperienze musicali di prim'ordine. Continui a suonare anche in Costa Rica?

No, non salgo più su un palco od entro in uno studio da più di dieci anni. Ricordo sempre con piacere quei tempi, ma considero che non era scritto che fare il musicista fosse il mio destino. Poi, a ragione delle brutte cose che stanno uscendo da diverso tempo e della commercializzazione ottusa, ho anche smesso di ascoltare musica. Non c’è più ingenuità, l’industria ha ammazzato la fantasia.

Parlaci un po' dei Sick Rose e dei tour all'estero eseguiti con questa band sul finire degli anni ‘80. Sei ancora in contatto coi tuoi ex colleghi?

Penso che i Sick Rose abbiano rappresentato un bel periodo del rock italiano. Non c’era la pressione per cantare in italiano o per attenersi a determinati standard. Il gruppo è esistito finché ci siamo divertiti, poi quando si è tentato di strumentalizzare il nostro lavoro tutto è finito. Con Luca Re e Diego Mese ci teniamo sempre in contatto, anzi siamo riusciti anche a collaborare nonostante la distanza, per un probabile disco. Infatti, il gruppo continua a fare un paio di tour all’anno, soprattutto nel nord Europa, dove mantiene uno zoccolo duro di fans. Il gruppo, come ricordi tu, era apprezzato all’estero, dove suonavamo spesso dal vivo.

 
 


 
 

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