Libero docente. Lettera a un preside -  di Mizio Ferraris
  

Intervista a Mizio Ferraris
a cura di Pasquale Bottone - http://www.librerie.it
 

Professore "pentito", autore del brioso ed originalissimo "Libero docente - Lettera ad un preside", Mizio Ferraris, da noi interpellato per una franca chiacchierata sul suo libro e sul "mondo della scuola" in generale, ha deciso di non rispondere ad altri che ad un intervistatore fantasma di cui non ha voluto svelare l'identità. Ci ha quindi consegnato il testo che pubblichiamo, frutto del misterioso incontro. Che sia lo stresso Ferraris a non avere saputo resistere alla tentazione di una sana e divertita (auto) intervista?

- Hai appena scritto Libero Docente...

- Esatto. Cioè no: l'ho appena pubblicato.

- Spiegati meglio...

- Voglio dire che qualcosa della roba che c'è in quel libro l'avevo già scritta, e qualcuna anche pubblicata, articoli ad esempio, su Insegnare, la rivista del CIDI. Ci sono tante cose che si scrivono, e poi si accantonano. Però devi scriverle, se no non ti lasciano in pace. Lo diceva anche un certo Borges.

- Allora si possono definire sfoghi?

- In un certo senso. Ma c'è anche la voglia di far conoscere la scuola per quella che è, e non per quella che la gente crede che sia. E poi noi siamo cresciuti con film come Pierino e la professoressa di Scienze naturali, quelli con Alvaro Vitali e qualche procace attricetta. La scuola è una cosa seria, e che a tutti è toccato vivere in maniera seria.

- Ci aveva pensato già Starnone.

- Sì, ma io sono docente di Scienze, lui di Lettere.

- Punti di vista diversi, dunque?

- Sì e no. Diciamo che io avevo qualcosa da dire di più specifico, ma anche di più attuale.

- Ossia?

- Vedi, io cerco di scrivere il malessere della scuola, un malessere che ha radici profonde, nel sistema culturale italiano, quel sistema che tragicamente oscilla fra la seriosità di un sapere troppo distante dai problemi veri della società e la comicità tragica della burocrazia ministeriale, delle circolari assurde e delle disposizioni inapplicabili. E in questo dico le stesse cose di Starnone. Però punto l'indice sulla arretratezza e la primitività dell'insegnamento delle Scienze nella scuola superiore italiana, è una situazione che ci colloca al ventottesimo posto nel mondo, dopo le Filippine. E i temi di cui oggi sono piene le pagine dei giornali sono temi che a scuola non tratti, per lo meno che non sono nei programmi. Le manipolazioni genetiche, l'effetto serra, le alluvioni, i pesticidi, il petrolio. Dove sono?

- Però gli allievi te lo chiedono, ti chiedevano questi argomenti quando insegnavi, no?

- Vedi, questa scuola ha un grosso difetto, e credo che questo difetto sia rimasto anche dopo che me ne sono andato, più di sette anni fa. Il difetto è quello che nella scuola tutti i protagonisti sono portati a giocare, senza volerlo, ma anche perché fa loro comodo, un grande e paradossale gioco di ruolo. Il docente fa il docente, lo studente fa lo studente, il bidello fa il bidello, e così via. Il preside fa il preside, naturalmente. Non uscivano dal loro ruolo, ne erano prigionieri. Quindi niente domande strane. Magari uno studente mi chiedeva qualcosa sulla clonazione durante la ricreazione: in classe, invece, solo lezioni e interrogazioni. Punto.

- Ecco appunto, hai citato i presidi. Perché il sottotitolo "Lettera ad un Preside"?

- Doveva chiamarsi solo così, ma chi l'ha letta "Lettera a una professoressa" della scuola di Barbiana? E chi sa chi era davvero Don Milani? La Moratti, forse, che mai si è occupata di scuola fino ad adesso? In realtà, il libro si chiama così proprio perché inizia con una lettera ad un Preside, la mia lettera di dimissioni. E poi volevo che si salisse di livello, perché la scuola non si riduce al rapporto tra gli allievi e il docente, ma anche tra i docenti e il preside, tra i presidi e il provveditore, su su fino ad arrivare al Ministro. Almeno. Al Presidente della Repubblica, perché no?

- Vedo che c'è un Ministro – un ex-Ministro - che ti ha fatto la prefazione.

- Tullio De Mauro. Il mio libro gli è persino piaciuto. Pensavo di no.

- Perché?

- Perché in un certo senso io descrivo una scuola vecchia, quella che ho fatto anch'io come allievo, quella che hai fatto anche tu. Invece De Mauro è uno che la scuola ha contribuito a cambiarla.

- E c'è riuscito?

- Bella domanda. Lui ha cercato di portare avanti il lavoro iniziato dal suo predecessore. Ma la scuola è lenta, è refrattaria al cambiamento.

- Stai parlando della riforma Berlinguer...

- La riforma Berlinguer non esiste. In realtà sono tre i tentativi di riforma partiti sotto il duo Berlinguer – De Mauro. Uno è la riforma dell'autonomia scolastica, figlia diretta delle legge Bassanini, l'articolo 21, mi pare. E su quella ero d'accordo. Un'altra è la riforma, o meglio, il riordino dei cicli, voluto da Berlinguer, ma in realtà necessario per adeguare l'Italia all'Europa, dando ai nostri allievi almeno dieci anni di scolarizzazione obbligatoria. Il terzo era quello del sistema di valutazione, quello dei debiti e dei crediti per intenderci, in cui si inserisce anche quello della maturità (e qui ci ha lavorato soprattutto De Mauro). Anche questo lo voleva l'Europa, bisognava che il prodotto del nostro sistema scolastico fosse equiparabile a quello degli altri Paesi. Ma per come ci hanno tentato, ho parecchie riserve.

- E la Moratti come si inserisce in queste riforme?

- Facendo disastri come tutti quelli che si inseriscono in un processo che non si è ancora consolidato.

- Puoi chiarire il tuo pensiero?

- Ci provo. Per quanto riguarda la riforma dell'autonomia scolastica, va detto che la Moratti non ha intenzione di incidere, anche perché vede volentieri, lei che ha l'occhio aziendale, l'autonomia scolastica come – essenzialmente – autonomia economica delle scuole. Vale a dire: che le scuole si trovino i soldi da sé. Invece l'autonomia scolastica è soprattutto autonomia didattica, cioè programmazione e coerenza con le questioni socioeconomiche e ambientali del territorio in cui la scuola sta. Così almeno gli studenti di Barletta che hanno Scienze la smetteranno di sapere tutto sui ghiacciai, come c'è scritto sui programmi, e nulla invece sul calcare e le coltivazioni che ci possono stare in Puglia. Poi c'è l'autonomia organizzativa: ad esempio, puoi far entrare a scuola le classi con un orario che coincida con quello delle corriere che portano gli studenti dai paesini lì intorno. Puoi decidere di fare due ricreazioni, oppure classi aperte, con gli allievi di diverse classi che lavorano sullo stesso progetto, oppure ancora gestire i docenti in modo da fare recupero per chi è meno bravo in certi orari, o sospendere le lezioni per iniziative che coinvolgono tutta la scuola, o far fare da docente a qualche esperto esterno, o mandare gli allievi in stages, di esempi ce n'è quanti ne vuoi. Ultima, l'autonomia economica. Se usata bene, si fanno miracoli.

- Fammi qualche esempio.

- Un Comune di un paesino del Lazio ha allungato l'orario della sua scuola materna ed elementare in modo che i genitori che lavorano a Roma possano tornare a prendere i figli in tempo, senza ricorrere ai nonni. Il Comune paga la scuola, e la scuola offre un servizio. E un servizio è quello anche di mandare gli allievi in stage nelle aziende, quelli dell'alberghiero, del turistico, i chimici, gli agrari, le segretarie d'azienda. Sempre con regole definite, naturalmente. L'ottica è quella di vedere la scuola come una risorsa per l'Ente locale, non semplicemente come un bacino indiretto di voti per i politici.

- Sull'autonomia scolastica, mi sembra, sei quindi d'accordo in linea di massima. E sulle altre due riforme?

- Sul riordino dei cicli si è scatenato un putiferio, credo che Berlinguer sia saltato proprio per questo. Il punto controverso della sua proposta era quello di uniformare in pratica il maestro elementare con il professore di media inferiore. E i docenti si sono ribellati.

- Perché?

- Perché ai maestri non piaceva andare a braccetto con docenti che non avevano mai studiato pedagogia, e ai professori non piaceva mischiarsi con chi non aveva una laurea.

- Ma adesso ai maestri viene chiesta la laurea.

- A quelli che entrano adesso. Fra dieci anni, forse, saranno la maggioranza per ora no. Ma non è questo il punto.

- E qual è?

- E che si va ad insegnare senza che nessuno controlli se si sa insegnare. Io sono stato consacrato docente senza che nessuno valutasse le mie capacità di insegnamento. L'ho scritto in quel libro lì.

- E all'estero è diverso?

- Non ovunque, ma in Europa certamente. Sono molto più seri e attenti. E i docenti sono davvero motivati. Da noi si diventa docente solo sulla base delle nozioni che hai, non sui metodi che usi. Socrate vomiterebbe. Anche i pedagogisti italiani seri. Ma non c'è niente da fare. È l'Italia dei telequiz. Si è bravi per quanto si sa, non per come si usa quello che si sa.

- Mi sembra che questo si colleghi alla terza questione, quella della valutazione.

- Abbiamo inventato un modo cervellotico di valutare i nostri allievi, ma soprattutto un modo largamente incompleto.

- Perché incompleto?

- Senti, quando insegnavo, io avevo davanti allievi dagli occhi intelligenti, attenti, che facevano domande, che interagivano con me. Oppure svogliati, disattenti, desiderosi solo che l'ora di lezione finisse presto, perché i loro interessi erano altri e altrove. Ora, mi dici tu dove, in un test a domanda chiusa, del tipo quale dei tre, io posso inserire tutto questo? Mi dici dove va a finire l'idea che mi sono fatto di un allievo dentro a un punteggio, punteggio che mi dice solo quante domande quell'allievo ha imbroccato, e che magari sa non da me ma solo perché l'hanno costretto a prendere ripetizioni?

- Mi stai dicendo che il rapporto umano fra un allievo e un docente rischia così di passare in secondo piano?

- Ti dico che se il docente è costretto a fare soltanto e sempre le lezioni a prescindere dalla gente che ha davanti, allora è meglio che venga sostituito da una videocassetta, che è senz'altro fatta meglio di una lezione dove usi solo le parole. E ti dico che se il lavoro del docente si riduce a somministrare dei test di tipo nozionistico, allora è meglio che venga sostituito da un buon software di valutazione, che almeno non sbaglia le somme.

- E allora quale potrebbe essere il ruolo del docente?

- Quello di facilitatore dell'apprendimento. E la prima cosa da fare è motivare all'apprendimento. Almeno alla scuola non dell'obbligo. Ma anche alla scuola dell'obbligo: è lì che viene voglia di leggere un libro, che si diventa curiosi, che si comincia ad amare il sapere. Bene o male, chi ama la cultura in Italia c'è. Pochi, ma ci sono.

- E perché pochi? E nonostante la scuola, come sembri dire tu?

- Esatto: nonostante la scuola. Perché l'idea della cultura che ci passa la scuola è quella di un qualcosa di noioso, grigio e faticoso. Invece la cultura è un viaggio, è esplorazione, e divertimento. Ma bisogna saperlo comunicare, questo concetto. E non tutti i docenti sono capaci, anzi.

- Un'ultima cosa: quanto c'è di autobiografico, nel tuo "Libero docente"?

- Quando si scrive, si scrive di sé. In realtà io ho rielaborato, mescolato episodi, sostituito i nomi. Ma è tutto autobiografico, e tutto vero. Compreso il malessere.

 


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