"Molly Spoon e il collare di giada"
di Carla Torre
 

il primo capitolo del libro


Capitolo 1
Boschi di Rossiglione

All’imbrunire di una fredda giornata di fine novembre un uomo a cavallo percorreva il ripido sentiero sulla montagna che dominava il villaggio di Rossiglione: a pochi metri dal bivio che divideva il sentiero in due arrestò l’animale. La mulattiera proseguiva verso l’alto fra rocce ricoperte di muschio e macchie di agrifoglio e felci, mentre dall’altra parte discendeva tortuosa verso il fiume, inoltrandosi in mezzo ad un fitto bosco di castagni, faggi e noci.
L’uomo alzò la testa, scrutò il cielo grigio fino all’orizzonte, poi tese le orecchie e si mise a fiutare l’aria come un cane da caccia: nessun battito di ali o profumo di muschio, solo il pizzicore dell’aria gelida e della nebbia, che dal fondo valle stava avvolgendo i fianchi della montagna, gli pervase le narici.
“Fra breve certamente inizierà a nevicare. Coraggio, amico, siamo vicini alla meta!” disse Efrem ad alta voce come a voler rassicurare oltre a se stesso anche l’animale, che appariva stanco e inquieto; poi si coprì il capo con il cappuccio della mantella di panno scuro e affondò gli stivali nel ventre del cavallo che riprese lentamente il cammino.
Le foglie degli alberi che ricoprivano la mulattiera, irrigidite dalla brina che dall’inizio di quel mese di novembre ricopriva prati e boschi della Valle Stura per miglia e miglia, sotto gli zoccoli del cavallo emettevano un “cric crac croc” che pareva il richiamo di un’aquila innamorata, mentre folate di gelido vento accompagnavano l’arrivo dell’oscurità. Efrem pensò che solamente l’ubbidienza e la stima che portava a Guglielmo di Boscogrande, lo avevano spinto ad affrontare, di quei tempi, il viaggio ai villaggi di Masone e Campoligure, percorrendo i sentieri lungo il fiume.
Da più di tre mesi gli abitanti delle cascine sparse nella Valle Stura evitavano di inoltrarsi nei boschi da soli e disarmati: le stragi di mucche, pecore, daini, animali selvatici ed anche il timore del diffondersi fra i contadini di uno strano malessere, che spesso non lasciava scampo all’ammalato, avevano creato il panico. Al tramonto si barricavano nelle case, chiudendo il bestiame nelle stalle o, i più poveri, dando spazio nelle abitazioni stesse agli animali.
Efrem rabbrividì: allungò la mano sinistra dietro alla schiena e sfiorò l’involucro di velluto rosso legato al dorso del cavallo, come per attingerne forza e coraggio. “Cric uuuuuu crac uuuuuu cric uuuuuu” il suono delle foglie calpestate e l’ululato del vento aumentavano l’ansia che lo aveva accompagnato per tutto il viaggio e quando il cavallo giunse in cima alla salita, emise un profondo sospiro di sollievo. Al centro di un ampio pianoro ricoperto di cespugli di biancospino e rose selvatiche, s’intravedeva la prima torre di guardia del castello sulle cui mura di cinta le luci di due fiaccole ondeggiavano nel buio come due gigantesche lucciole.
“Chi è là?”, si levò una voce.
“Sono io, sono Efrem il fattore. Aprite!”, rispose l’uomo.
Cigolando sui cardini le grandi porte di legno si spalancarono: due uomini si avvicinarono e mentre l’uno afferrava le briglie del cavallo l’altro, sollevata una fiaccola per illuminare il viso del fattore, esclamò:
“Sei proprio tu! Finalmente!” poi, rivolto ai fanti di guardia sugli spalti, gridò: “È arrivato Efrem, il fattore, ce l’ha fatta!”.
Molte voci si accavallarono l’una all’altra:
“E il licaone, hai visto il licaone?”.
“Ha dilaniato un uomo stamane!”.
“Efrem, la buona sorte ti ha protetto: abbiamo udito i suoi minacciosi ululati attorno al castello ieri notte”.
“Sì, purtroppo, fino alle prime luci dell’alba”.
“È vero Efrem, i suoi occhi lampeggiavano minacciosi nel buio!”.
“Quasi irridenti!”.
“Il nostro signore dice che si tratta di un animale che vive nei paesi oltre il mare, mai visto prima d’ora, su queste nostre terre...”.
“Sembra un esemplare enorme!”.
“E pare indistruttibile!”.
“Porta distruzione e malattie...”.
“Come faremo a stanarlo e ucciderlo?”.
“Che il cielo ci aiuti!”.
Efrem non rispose, scrollò la testa e spronò il cavallo per oltrepassare il ponte levatoio che univa la prima alla seconda torre. Iniziava a nevicare e i fiocchi scendevano dondolando, fermandosi sui margini ricoperti di muschio dove si erano rifugiate alcune papere e anatre, e l’acqua del fossato gli sembrò più profonda: il freddo e il vento stavano trasformandone la superficie in una sottile crosta di ghiaccio. Nel cortile vi era un gran fermento: chi accudiva ai cavalli, chi ai cani, chi trasportava sotto una tettoia fascine di legna e paglia.
Efrem scese da cavallo, chiamò uno stalliere e, dopo avergli porto le redini con mille raccomandazioni, si avviò allo scalone che portava all’ingresso del castello. Non appena varcata la soglia del salone al piano terra, batté gli stivali e scosse il mantello dalle gocce di neve fresca, poi con passo sicuro si avvicinò alla lunga tavola imbandita al centro della stanza. I bagliori della legna che ardeva nel grande camino illuminavano i volti dei commensali, che stavano addentando voracemente pezzi di maiale e selvaggina arrostiti. Sul tavolo, accanto a due brocche di vetro, che lasciavano trasparire l’oro scuro della birra ed il rosso cupo del vino, troneggiavano dei vassoi colmi di pasticci di carne e di formaggi freschi, di dolci al miele e cannella. Efrem rivolse uno sguardo, che tradiva la fame e la stanchezza, a tutti quei piatti, frutto dell’accurata cucina di Aquilegia moglie di Guglielmo di Boscogrande, poi si levò con deferenza il cappuccio per farsi riconoscere dal conte che si alzò di scatto e gli si avvicinò per abbracciarlo.
“Oh, finalmente eccoti, amico mio! Ero in pena per te: per tre volte sono andato alla prima torre per cercare di vedere se stavi salendo il sentiero. Il tuo arrivo mi conforta!”, lo salutò sorridendo Guglielmo.
“Come vedi, mio signore, il grande Lycaon è stato lontano da me. A Masone si dice che si stia spostando verso i boschi di Rossiglione, ma non ne ho scorto, per la via, alcuna traccia” rispose il fattore.
“Ahimè, Efrem, è nei nostri boschi: i suoi ululati hanno accompagnato, ieri notte, il nostro sonno come un lugubre stornello, e le notizie giuntemi stamani mi hanno confermato che questa bestia malvagia ha iniziato ad attaccare gli uomini. Ma adesso scaldati accanto al fuoco, ristorati con vino caldo, siedi e sfamati con noi”. Quindi rivolto agli altri commensali proseguì: “amici, è giunto il mio fedele fattore Efrem: ha con sé la spada, forgiata a Masone, da me destinata a colui che ucciderà la bestia ed il collare di giada, cesellato a Campoligure, che cingerà il collo del cane che per primo lo stanerà”.
“Bene, mostrateceli Efrem”, disse Eriberto di Lagoscuro avvicinandosi al fattore.
“Sì, vi preghiamo”, fece eco Goffredo di Torrechiara e rivolto a Guglielmo, “È davvero così preziosa come dicesti cugino?”.
“La spada sarà mia prima dello scorrere di un’altra notte!” esclamò ridendo Ottone del Piccoaspro.
Guglielmo non rispose: con un brusco gesto della mano sgombrò un angolo della tavola dai boccali di birra e vino e fece cenno al fattore di appoggiare l’involucro di stoffa rossa che questi teneva stretto al petto. Efrem lo posò lentamente sul tavolo, poi srotolò con attenzione il tessuto, seguito dagli sguardi attenti dei cavalieri. I loro volti tradivano curiosità e desiderio di toccare con mano gli oggetti realizzati dai maestri artigiani, le cui opere erano di tale bellezza e perfezione che la loro fama aveva oltrepassato i confini della Valle Stura sino a giungere a Genova ed Ovada.
“Ecco, mio signore”, disse il fattore con una punta d’orgoglio “ecco la spada corta”.
La spada era più corta di quelle utilizzate in battaglia e, sull’impugnatura, in ferro e cuoio, era cesellato in filigrana d’oro lo stemma del casato dei Boscogrande: una spada al centro di una corona di foglie d’alloro.
Guglielmo la impugnò e la sollevò in aria sino ad appoggiarla alla fronte: poi, muovendo abilmente il polso, la fece roteare, l’abbassò all’altezza del petto e con un balzo in avanti colpì al cuore un immaginario, invisibile nemico di fronte a lui.
“È leggera, maneggevole ed affilata, potrà volare nell’aria e colpire come una saetta“, disse compiaciuto mentre posava la spada sul tavolo. Poi prese fra le mani il collare: era formato da tre sottili cerchi d’oro scuro uniti al centro da una piastra; ogni cerchio aveva undici punte accuminate per proteggere la gola dai morsi, rivestite di giada purissima. Al centro del collare una piastra d’oro su cui erano incastonate tre pietre, anch’esse di giada, e su di ognuna era incisa una parola: sulla prima era scolpito Fidelis, sulla seconda Amicus e sulla terza Sempiter.
“Veramente una splendida ricompensa Guglielmo, degna di te!”, disse Eriberto rompendo il silenzio che era sceso nella stanza.
“Il rischio è grande”, disse Goffredo, “chi ha avvistato la bestia e chi ha controllato i segni dei morsi nelle gole degli animali e le impronte nel fango lo descrive come un esemplare di dimensioni enormi!”.
“È vero, pare che si tratti di un maschio dal pelo maculato, nero e grigio, con grandi orecchie rotonde, occhi iniettati di sangue, lunghi denti, instancabile nella corsa e veloce, nonostante la mole, nell’attacco”, confermò Ottone.
“Sì, mio signore, lungo il fiume, poco dopo Campoligure, due contadini mi hanno riferito che ieri ha assalito un branco di pecore che pascolavano sulle alture di Masone compiendo una strage. Un contadino si è salvato scappando, ma l’altro no, è morto insieme a tutte le pecore e al suo cane”, disse Efrem.
“Non scoraggiamoci! Il pericolo è reale, ma insieme ce la faremo!”, riprese con forza Guglielmo “Non è la prima belva che affrontiamo: forse la più pericolosa, certamente, quasi malefica... perché pare che pur colpendola con la balestra non s’arresti!”.
“Ma noi siamo i migliori cacciatori da Ovada a Genova, quindi brindiamo al successo della nostra battuta di caccia”, disse Goffredo sollevando la brocca del vino.
“Sì, insieme lo uccideremo e libereremo le nostre terre da questa temibile bestia e dal suo fetore”, gli fece eco Ottone alzando il boccale.
“L’alba arriverà veloce, sarà bene riposare un poco, amici”, disse Eriberto battendo la mano sulla spalla di Guglielmo.
Questi, con la gola ancora calda del vino, riprese fra le mani il collare di giada ripetendo fra sé e sé Fidelis amicus sempiter, lo rigirò, poi lo posò sul velluto rosso sangue e, senza dire una parola di commiato, attraversò con passo deciso il salone, mentre i servi ricoprivano la paglia sparsa sul pavimento con pelli di pecora e coperte di ruvida stoffa per far riposare gli ospiti.
Quando fu nel cortile, Guglielmo si avviò verso la tettoia da dove proveniva il latrare dei cani. Erano legati con catene di ferro a degli anelli murati nella pietra. Al centro della stalla i servi avevano messo una pelle di lupo che odorava fortemente: gli animali l’annusavano e vi affondavano i denti. In un angolo alcune ciotole d’acqua ed un po’ di pane secco: per quella sera non avrebbero avuto né carne né verdura, così all’indomani i morsi della fame avrebbero scatenato nei cani la sete di sangue per stanare ed attaccare la belva.
Guglielmo si avvicinò ad un pastore dal pelo bianco e nero che, vedendolo arrivare, si era alzato di scatto e tirava con forza la catena facendo dei balzi per potergli andare incontro.
“Calma, calma…”, disse l’uomo inginocchiandosi ad abbracciare l’animale “amico mio stammi vicino domani, non ti allontanare da me... non ha importanza la vittoria purché tu non corra alcun pericolo...”. L’animale avvicinatogli il muso al volto, l’osservava come se potesse comprendere ogni sua parola. “Ti regalerò ugualmente collari di giada e di filigrana d’oro, mio fedele, non voglio rischiare di perderti”, continuò Guglielmo.
Il cane pastore guaì felice, gli leccò le mani ed il viso e si riaccucciò tranquillo con la testa fra le zampe. Dopo un’ultima carezza il conte uscì nel cortile: la notte era ormai scesa e la neve che cadeva fitta iniziava a fermarsi sugli spalti, sulle tettoie delle stalle, sul terreno fangoso.
“Potremo scorgere meglio le orme della bestia sulla neve fresca... ma i cavalli ed i cani saranno più lenti nel loro incedere...”, pensò Guglielmo risalendo lo scalone.
Nella sala era calato il silenzio: il cibo ed il vino avevano riscaldato gli animi ed intontito le menti; gli amici ed il fattore si erano appisolati chi sul pavimento, chi sulle panche con la testa appoggiata alla tavola. Guglielmo prese la spada e il collare e, tenendoli con le due mani, lentamente salì la scala interna che portava all’unica stanza sopra al salone. Le luci delle fiaccole che illuminavano i gradini di pietra si abbassarono al suo passaggio e Guglielmo sentì dentro di lui come un’ondata di profondo smarrimento: era stato il vento o il segno di un triste presagio?
Entrato nella stanza, posò la spada ed il collare sopra la cassapanca posta ai piedi del letto, poi scostò le pesanti cortine: Aquilegia era addormentata con il braccio sinistro allungato verso il suo cuscino, la lunga chioma rossodorata legata con un nastro di raso bianco. Guglielmo sfiorò con le dita la spalla di lei, dove era disegnato un fiorellino viola che aveva il suo stesso nome e che sembrava spuntare dalla bianca pelle.
Non spense il grande cero che bruciava al centro della stanza, sedette ai piedi del letto, si tolse gli stivali e senza spogliarsi si coricò accanto a lei.


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