La Mala-Ricetta
Dieci geniali mosse del marketing farmaceutico
 

 

Il Comparaggio

Quando un’azienda farmaceutica offre al medico, in cambio della prescrizione di un certo farmaco, benefici di varia natura si dice che fa del comparaggio. Le offerte possono essere di vario genere: regali, oggetti d’uso professionale, libri, viaggi, contante.
In Italia esistono alcune aziende specializzate nel cercare di convincere i medici ad accettare una certa cifra per ogni scatoletta di farmaco prescritta: vengono definite con disprezzo dalle altre aziende “ditte di comparaggio”. In realtà sono le uniche che fanno onestamente il loro disonesto lavoro. Le altre, che trasformano questa transazione in regali, viaggi, cene e cose del genere, sono doppiamente disoneste, perché corrompono ma non hanno neanche il coraggio di assumersi i rischi insiti in tale attività, e mentre si presentano con l’aura di aziende serie e corrette, in realtà si comportano esattamente nello stesso modo.
A questo punto devo inserire un articolo di legge perché è importante che, durante la lettura, teniate sempre ben presente cosa dice il così calpestato D.L. 30 Dicembre 1992 n.541: “Nel quadro dell’attività di informazione dei medicinali svolta presso i medici o farmacisti è vietato concedere, offrire o promettere premi, vantaggi pecuniari o in natura, salvo che siano di valore trascurabile e siano comunque collegabili all’attività espletata dal medico o dal farmacista”.

Questa legge è del 1992 e la situazione attuale è quella che troverete descritta; provate ad immaginare come potevano andare le cose prima di quell’anno!
Tornando agli albori dell’informazione farmaceutica, le aziende del settore, anche quelle italiane, avevano laboratori, fabbriche, magazzini e pochi informatori che giravano, con tranquillità, in zone di lavoro più grandi di una provincia.
Erano i tempi d’oro della “propaganda”. All’epoca non esisteva il Servizio Sanitario Nazionale e le mutue di allora rimborsavano le medicine, ma facevano anche i conti in tasca ai medici convenzionati e la spesa farmaceutica era tutto sommato accettabile. La vita media di un farmaco veniva misurata in lustri e i medici di famiglia, soprattutto quelli più anziani, non di rado ricorrevano anche a mezzi che oggi verrebbero definiti “stregoneschi”.
E poi? Qualcuno sicuramente dirà: “Sono arrivate le multinazionali, l’orco cattivo che sfrutta e mangia tutto, e hanno gonfiato il mercato”. E invece no, nessun orco. È iniziato un fenomeno all’apparenza spontaneo, inarrestabile, quasi dotato di vita propria, che ha ridotto il mercato farmaceutico ad una giungla senza regole, senza morale e con soli perdenti: noi!
Una premessa, i farmaci (termine dotto per definire le montagne di pillole, fiale, supposte e sciroppi che intasano gli armadietti dei bagni della gente comune e le cantine e i garage degli informatori), per essere venduti, devono essere “registrati”. Ciò significa, che un ente apposito, che in USA è la rigorosissima Food & Drug Administration ed in Italia il più casereccio Ministero della Sanità, deve stabilire che le medicine possiedano i requisiti necessari per poter essere vendute. In altre parole, il Ministero deve verificare che il nuovo farmaco non sia dannoso, che serva a curare qualcosa e, quando possibile, sia più efficace di quelli già presenti sul mercato.
In Italia il Ministero, con l’aiuto del CIPE, stabilisce il prezzo di vendita del farmaco. Perché in Italia, ed in molti altri paesi, il Ministero fissa il prezzo e non lascia che sia la libera concorrenza dei mercati a crearlo? Perché è lo stesso Stato che, successivamente, paga queste medicine tramite il Servizio Sanitario Nazionale.
Ci troviamo, quindi, in un mercato dove è l’acquirente che stabilisce il prezzo di quello che acquisterà. Gli esperti di marketing diranno che ciò accade in tutti i mercati, dove in realtà è il cliente a stabilire quanto è disposto a pagare per un bene. Ma, mentre per i beni o i servizi normali, chi acquista e impiega, ovviamente, decide anche cosa comprare, qui a scegliere è una terza persona: il medico. Riassumendo, abbiamo una situazione dove chi sceglie la medicina non la usa e non la paga, chi la paga non la sceglie e non la usa e chi la usa non la sceglie e non la paga.
Questo è il sistema migliore per ingarbugliare le carte e rendere impossibile quel rapporto diretto tra bene, denaro e beneficio che regola il normale mondo del commercio. Semplifico ulteriormente: se vado dal salumiere e compro un etto di mortadella e il salume in questione è cattivo o costa troppo, cambierò la marca di mortadella o comprerò del prosciutto o cambierò salumiere. Nel guazzabuglio dei farmaci questo non è possibile e i risultati sono evidenti. Il mercato è pieno di medicine di dubbia utilità, doppioni o cattive imitazioni, che nonostante tutto, si vendono e pesano sulle tasche di tutti i contribuenti. Vogliamo un esempio? Esistono molecole che sono commercializzate con più di venti nomi diversi. É logico aspettarsi che di tutti questi marchi, solo uno o due raggiungano dei grossi volumi di vendita. Infatti è proprio così, ma gli altri, diciamo quindici, cosa fanno? Sopravvivono, annaspano, cercano di raggiungere il quantitativo minimo, previsto dagli accordi di licenza, che permetta loro di continuare a commercializzare il farmaco.
Se tra le aziende di contorno, ne esistono alcune di pochi scrupoli, è facilissimo immaginare che queste per riuscire a strappare delle prescrizioni, metteranno in atto tutti i metodi, corretti o meno, che riescono ad immaginare.
Questa situazione, tutta italiana, è una delle cause che hanno contribuito a creare, alimentare e diffondere il disastro della farmaceutica nel nostro Paese. Paradossalmente, dunque, non sono state le grandi multinazionali a innescare il fenomeno della corruzione dilagante e strisciante della classe medica. Le mega aziende nella stragrande maggioranza dei casi, forti della loro ricerca, della loro produzione e del loro nome internazionale, non avrebbero avuto nessun bisogno di corrompere, anzi, avevano interessi del tutto opposti. Non hanno preso l’iniziativa ma sono state costrette ad adattarvisi. Chi non lo ha fatto ne ha pagato le conseguenze in termini di risultati di vendita.
Un altro fattore fondamentale è la tendenza, (nella quale gli italiani risulterebbero ancora una volta maestri), ad interpretare le leggi non per quello che dicono, ma nel modo più conveniente per chi le interpreta. Ci si “arrangia”.
Per tutti questi fattori, in fondo, non esiste un colpevole ma si è formato un substrato, una sorta di humus sul quale la pianta del “comparaggio” ha attecchito, si è sviluppata rigogliosamente ed ha fruttificato. Il fenomeno però non è spontaneo.
Ha dei colpevoli.
Identificabili con nome e cognome.
I creatori del comparaggio sono tuttora tra noi, ovviamente impuniti, e continuano a fare danni nonostante tutto e tutti e hanno trascinato sulla loro strada, volenti o nolenti, coloro che vogliono in qualche modo operare nel mercato farmaceutico.
Non chiedetemi i nomi, rischio la galera e questa gente è disposta a tutto, ma chi opera nel settore saprà riconoscerli, se non altro per ragioni storiche.
Un’ultima annotazione: quando durante l’esame delle varie spese “promozionali” delle aziende riporterò delle cifre, userò come unità di misura il costo di una borsa di studio di un neolaureato. Un trucco per dimostrare come sarebbe possibile finanziare la ricerca scientifica, quella vera, senza investire una lira in più rispetto a quanto si spende oggi.


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