Nero italiano
 

un libro di
Gianpietro Stocco


Primo capitolo

La notte era fredda e piovosa. Sull’ampio spiazzo situato in cima alla grande scalinata, ai due lati dell’enorme lapide di bronzo, stavano immobili come statue i granatieri di guardia. Tanta marzialità era dovuta non al rispetto per una memoria ormai vecchia più di trenta anni, ma alla luce violentissima che tre potenti batterie di fari installate nei Fori di Cesare e di Augusto e su Palazzo Venezia proiettavano sull’intero monumento. Sulla vecchia Macchina da Scrivere illuminata a giorno non ci si poteva rilassare. Un ufficiale della Milizia aveva il compito specifico di controllare se la Guardia al Sacrario della Patria osservava le rigide regole stabilite dal ministero della Guerra. Ogni mattina veniva steso un rapporto: il solo avere scambiato due chiacchiere davanti al Sepolcro poteva significare la partenza per il Corno d’Africa. La cascata di luce sull’ex monumento al Milite Ignoto non era dovuta solo a motivi patriottici. Da qualche tempo, infatti, il candido marmo veniva regolarmente imbrattato da scritte inneggianti alla democrazia e al socialismo. Per quanto squadre di operai passassero ogni notte munite di idranti, spazzole e vernice bianca, non si riusciva più a cancellare del tutto gli slogan. Né la Milizia riusciva a cogliere sul fatto gli anonimi vandali, in genere studenti che si spostavano velocissimi in vespa. Così si era deciso per l’illuminazione a giorno da tre punti diversi a un costo che, nell’anno 1975, ventiquattro mesi dopo che i paesi islamici avevano deciso di lasciare l’Occidente senza petrolio, l’Italia fascista non poteva permettersi. Così, mentre la luce proiettata sulla tomba del Padre della Patria era visibile a decine di chilometri di distanza come un chiarore diffuso all’orizzonte, tutte le strade di Roma erano rimaste al buio. I raggi dei riflettori colpivano con violenza il bianco marmo del Sacrario del Duce e ne venivano riflessi tutt’intorno, entrando come un chiarore diffuso in tutti gli edifici vicini. Un chiarore che, pallido come un raggio di luna, disegnava un rettangolo incerto sull’antico pavimento di una sala di Palazzo Venezia; l’unica altra fonte di illuminazione era la luce fioca di un unico lampadario a bassa intensità appeso al soffitto. Rimanevano così in penombra i volti delle persone sedute ai quattro lunghi tavoli addossati alle pareti: ventiquattro uomini e tre donne, dei quali solo un paio in divisa. Spiccava, sulla parete centrale della stanza, un’ampia tribuna sopraelevata rispetto agli altri posti e ricoperta di broccato rosso. Dietro di essa, una robusta sedia rinascimentale dotata di braccioli, sulla quale era abbandonato un vecchio. L’uomo, che un tempo doveva essere stato piacente, aveva ancora i capelli nerissimi tirati indietro sul capo dalla brillantina e portava, un po’ stretto sullo stomaco sporgente e sui fianchi larghi, un doppio petto color grigio chiaro. Il suo largo collo era chiuso dal colletto di una camicia di seta bianca e da una cravatta nera ornata da una perla. Sulla parete dietro di lui, a malapena illuminato dal lampadario che rischiarava l’ambiente, campeggiava un enorme ritratto a olio di Benito Mussolini.
Mentre aspettava, indolente come al solito, di dare inizio alla riunione del Gran Consiglio, il segretario nazionale del Partito Fascista Galeazzo Ciano scoccò un’occhiata al cipiglio truce del suocero che sembrava ammonirlo dall’alto. Se solo potesse vedere come abbiamo trasformato il regime in trent’anni, pensò tra sé mentre tamburellava con le dita sulla cartellina di cuoio che aveva davanti a sé. Poi, schiarendosi la voce per richiamare l’attenzione, accese un minuscolo lume da tavolo fissato al suo fianco e cominciò a parlare.
“Camerate e camerati, mi sforzerò di non annoiarvi” esordì controllando il suo abituale tono stridulo. “Di fronte a me ho i dati forniti dai Ministri degli Esteri e dell’Economia sulle conseguenze della crisi energetica nei rapporti internazionali. Nel mio dossier ho anche un rapporto del ministro dell’Interno. Ma andiamo per ordine”. Ciano aprì la cartellina e posò il primo dei due fascicoli davanti a sé. I suoi polsini di platino luccicavano nell’insufficiente luce della sala. “Da due anni ormai non ci arriva più una goccia di petrolio dai Paesi arabi e islamici. L’Italia può fare conto solo sulle esigue riserve libiche, e con la guerra in Somalia e in Etiopia non siamo in grado di distrarre risorse per ricavare ciò di cui abbiamo bisogno. Ho notizia che all’estero le cose non vanno meglio: gli Stati Uniti stanno dando fondo ai giacimenti nazionali, visto che la Persia dello Scià, unico fornitore loro rimasto dopo la rivolta islamica in Arabia Saudita, dopo le proteste di piazza organizzate dagli sciiti ha ridotto drasticamente le esportazioni di greggio. Gran Bretagna e Francia stanno cercando nuove linee di rifornimento in Africa, ma anche qui le nuove repubbliche teocratiche spuntano una dopo l’altra e non vogliono vendere petrolio agli antichi colonizzatori. Il Reich tedesco non manca di fonti di energia, ma come sapete non ha petrolio. Il presidente Albert Speer mi ha tuttavia personalmente assicurato la fornitura di gas e carbone. Dopo i recenti voltafaccia di Grecia, Spagna e Portogallo, la Germania è ormai l’ultimo amico che abbiamo in Europa. Chi sta bene, ma bene davvero, è l’Unione Sovietica. In nome dell’internazionalismo e dell’aiuto alle nazioni povere, i capi comunisti lisciano il pelo ai mullah musulmani, e ottengono tutto il greggio che vogliono a prezzi stracciati. Ma, come sapete, l’Italia da mezzo secolo non ha più alcuna relazione diplomatica ed economica con l’U.R.S.S.”. Ciano si allargò leggermente il colletto della camicia, bevve un sorso d’acqua da un bicchiere di cristallo e passò al secondo rapporto.
“Qui, invece, il ministro dell’Interno Casamassima mi informa che non solo a Roma ma anche a Napoli, Palermo, Milano e in molte altre città gli studenti stanno scendendo in piazza a decine di migliaia. Avete sentito bene, decine di migliaia. Spero siate tutti così intelligenti da non tenere conto delle notizie preconfezionate che diffondono quotidiani, radio e televisione. Camerati, qui non è più solo qualche teppista che scrive ‘viva il comunismo’ sull’Altare della Patria. Dopo cinquantatré anni di regime, sembra che i nostri giovani vogliano mandarci tutti quanti a casa. Grazie al cielo nelle fabbriche le cose vanno un po’ meglio: per ora, ma solo per ora, gli operai di Alfa Romeo, Fiat, Italsider, si limitano a minacciare ogni tanto lo sciopero per la settimana di 48 ore e i consigli di fabbrica”.
Galeazzo Ciano sospirò e riprese a parlare osservandosi distrattamente le mani.
“Vedete” disse, “il fatto è che io sono vecchio, ormai ho passato i settant’anni. Quando succedetti al Duce nel 1944, potei toccare con mano che fortuna aveva avuto l’Italia a rimanere neutrale nella guerra più devastante del secolo. Alla fine del conflitto eravamo poveri, sì, ma non a terra come gli altri”. Ciano agitò la sua grossa mole sulla sedia, bevve di nuovo e continuò con fatica”. “Temo però che avere mantenuto in vita il fascismo ne abbia solo rimandato la fine. Io ho fatto quello che ho potuto: ho abolito per me il titolo di duce, dal 1945 ho cancellato le leggi razziali e tutte le disposizioni antisemitiche varate nel ’38, ho aperto le carriere di partito e gli incarichi di governo alle donne, per lo scandalo di alcuni di voi mi tengo in contatto con alcuni esponenti fuoriusciti della vecchia opposizione. Da qualche anno i giornali possono criticare il regime, sia pure addomesticati della censura. L’Italia si è modernizzata, abbiamo piena occupazione nell’industria e quasi tutti hanno un’auto. Chi vuole può divorziare, e per questo “Osservatore Romano” e Radio Vaticana bollano il fascismo come nemico della famiglia. Il fascismo nemico della famiglia!” ripeté Ciano battendo un pugno massiccio sul tavolo.
“Grazie a Dio il Duce non è qui a sentire questa assurdità!”. “Ma tutto questo non basta” riprese Ciano detergendosi il sudore dalla fronte con un candido fazzoletto di lino dalle cifre rosse. “Ora che la monarchia è tornata in Spagna anche il Re d’Italia vuole cercare di farsi democratico! Come se non fosse stato proprio suo padre mezzo secolo fa a spianare la strada a Benito Mussolini... Avete visto la settimana scorsa Umberto II affacciarsi dal Quirinale per salutare gli studenti in corteo? Che spettacolo! Le foto hanno fatto il giro del mondo! Il rampollo, si fa per dire, di una delle dinastie più autoritarie d’Europa, un vecchio come me che non si vergogna a inneggiare al comunismo insieme con migliaia di ragazzini! E il principe Vittorio Emanuele che va a Mosca in visita privata!”. Ciano si sentiva sempre più stanco, ma voleva arrivare alla fine. “Come vi dicevo, io ho fatto la mia parte perché dal regime di Starace e dei cerchi di fuoco passassimo a una nazione moderna. Il fascismo però non è un elastico che si possa tendere all’infinito. Non possiamo perdere la nostra identità. Non possiamo reintrodurre completamente quel parlamentarismo che è stata la rovina dell’Italia liberale. Non possiamo permetterci un’assoluta libertà di stampa. Non possiamo rinunciare alla polizia segreta né alla Milizia. Ma, d’altra parte, non possiamo neanche tornare al sabato fascista o alle adunate la domenica. Grazie a me, la camicia nera ormai si mette solo il 28 ottobre e non è più neanche obbligatoria. Siamo in mezzo al guado, camerati. A voi il compito di tirarci fuori. Ma attenti a quale sponda sceglierete!”.
Il segretario nazionale del Partito Fascista si appoggiò sullo schienale della sua massiccia sedia e tacque. Era spossato, il suo cuore batteva come un martello. Bevve un nuovo sorso d’acqua mandando giù insieme due pillole. Nella sala per qualche istante regnò il silenzio. I consiglieri si scambiarono qualche rapida occhiata, per poi tornare a fissare gli appunti che avevano sotto mano.
Finalmente prese la parola Maria De Carli, ministro per la Cultura e la Comunicazione. Gli occhi azzurri, un caschetto di capelli neri, vestita di un austero tailleur beige che le dava un’aria vagamente germanica, la donna si levò in piedi, e dall’alto del suo metro e settantacinque, con uno degli sguardi circolari resi famosi dalla televisione, esaminò uno per uno tutti i propri interlocutori.
“Il segretario nazionale ha svolto un’analisi acuta” disse Maria De Carli. “Ma io la considero, con tutto il rispetto, disfattistica”.
La frase suonò come una frustata. Anche se, con gli anni, i consiglieri si erano abituati a sentire criticare il Capo nei corridoi, l’accusa stavolta era pubblica e diretta. I gerarchi iniziarono a parlare tutti insieme, sfogando la tensione accumulata durante la relazione di Ciano. Gli unici a tacere erano Maria De Carli e il ministro dell’Interno Adolfo Casamassima, un fascista della vecchia guardia che veniva alle riunioni del Gran Consiglio ancora in orbace. Ciano fissava il ministro della Cultura e della Comunicazione senza muovere un muscolo. Gli occhi azzurri freddi come il ghiaccio, Maria De Carli attese che il silenzio tornasse in sala e riprese i suoi ragionamenti. “La rivoluzione fascista è stata una rivoluzione vincente. Da un avversario come Lenin abbiamo imparato che in politica il fine va assoggettato al mezzo. Così abbiamo riformato il regime e siamo sopravvissuti alla fine del Terzo Reich di Hitler. Io ero poco più di una bambina quando la bomba di Stauffenberg seppellì il nazismo insieme con il suo Führer. Piansi di rabbia quando il rinnegato Albert Speer, che a Hitler doveva fama e potenza, formò il governo militare provvisorio che sottoscrisse l’armistizio con le potenze occidentali e l’Unione Sovietica. Oggi il rinnegato è presidente del nuovo Reich tedesco e io una donna matura. Così oggi capisco che la Germania deve a un traditore la sua integrità nazionale. E la Germania, come ha detto il segretario nazionale, rimane il nostro unico amico in Europa. Quindi, sia pure a malincuore, come accetto Speer in Germania, in Italia accetto che il fascismo sia stato democratizzato”.
Maria De Carli fece una pausa per valutare l’impatto delle sue parole sull’uditorio. Ciano continuava a fissarla attento, Casamassima prendeva appunti. Gli altri consiglieri la guardavano intimoriti.
“Tuttavia” riprese Maria De Carli cominciando a muoversi dal suo posto verso quello Ciano, “credo che il segretario nazionale sia in errore quando dipinge il fascismo come alla fine dei suoi giorni. Il fascismo è dinamicità continua” disse la donna fermandosi di fronte al successore del Duce, “vederlo immobile, o addirittura morente è una prospettiva da vecchi democratici”.
L’atmosfera in sala era al culmine della tensione: la stenografa incaricata di riprodurre il verbale della riunione del Gran Consiglio tremava senza ritegno. Non era mai successo che un gerarca attaccasse in questo modo il successore di Mussolini. Ciano appariva invece divertito.
“Galeazzo, tu dici che i giovani ci vogliono mandare tutti a casa” disse Maria De Carli usando la forma confidenziale che solo i familiari di Ciano e il vecchio Casamassima si permettevano con il Capo del Fascismo. “Noi però possiamo usare i mezzi della diplomazia e della propaganda per far cambiare loro idea e per evitare che qualche agitatore di professione si faccia forte della loro protesta”. Il ministro degli Esteri Giorgio Scola alzò di colpo la testa dai suoi incartamenti. “E in che modo, se è lecito, camerata De Carli?” chiese con aria seccata. “Quanto alla propaganda, che è il mio campo” riprese la donna continuando a fissare Ciano, “esaltando le similitudini originarie tra fascismo e socialismo, il ceppo comune da cui entrambe le ideologie derivano. Quanto alla diplomazia, che è il settore di Scola, aprendo un nuovo corso verso l’Unione Sovietica. La guerra è finita ormai da trent’anni”.
“A cosa vuoi arrivare, camerata De Carli?” chiese Ciano, improvvisamente brusco. “A un trattato di amicizia con l’Unione Sovietica”. rispose tranquilla la donna. Questo ci permetterebbe di far sbollire i nostri studenti filocomunisti, oltre che, ed è la cosa più importante, importare gas e petrolio dalla Siberia e arrivare al greggio degli arabi alleati di Mosca”. “È un suicidio! Gli americani, gli inglesi e i francesi ci salteranno alla gola!” urlò il ministro degli Esteri Scola battendo il palmo della mano sul tavolo. “Per non parlare della Germania. È il nostro partner economico principale, sta facendo passi da gigante e sta riarmando. Che diremo a Speer? Che è un altro degli eterni giri di valzer italiani?”.
“Siamo il primo regime fascista in Europa e l’unico sopravvissuto” interloquì l’esile ministro della Guerra, il generale Alfonso Paoloni. “Nessuno ci aiuterebbe se la Germania ci attaccasse e nessuno verserebbe una lacrima sulla nostra disfatta. Con l’Austria alleata di Berlino, in poche ore avremmo la Reichswehr a Trento e a Venezia. E gli jugoslavi ne approfitterebbero per prendersi Trieste, l’Istria, Lubiana e Zara. Potremmo a malapena conservare l’Albania. No, noi non siamo né militarmente né politicamente in grado di sostenere una mazzata del genere!”. “Allora, camerata De Carli!” intervenne Galeazzo Ciano. “Come replichi a queste obiezioni?”.
“Dico che se il fascismo deve comunque morire per vigliaccheria, allora è molto meglio rischiare di essere travolti per una scelta coraggiosa. Siamo rimasti neutrali nella Seconda Guerra Mondiale. Ci siamo chiamati fuori dalla Guerra Fredda. Non possiamo continuare a nasconderci. Chiedo che sulla mia proposta, che sottopongo contestualmente come mozione, il segretario nazionale chiami il Gran Consiglio del Fascismo ad esprimere la sua volontà”.
Le ultime affermazioni del ministro della Cultura e della Comunicazione infiammarono gli animi. Gerarchi e ministri non ci stavano a farsi dare pubblicamente dei codardi. I consiglieri si alzarono in piedi e cominciarono a rumoreggiare. La sala del Gran Consiglio piombò nel caos.
“Appoggio la mozione della camerata De Carli”, disse improvvisamente una voce roca. Era il ministro dell’Interno Casamassima. Ottantacinquenne, era il gerarca fascista più anziano, l’unico del Consiglio reduce della marcia su Roma. Casamassima era stato stretto collaboratore di Mussolini e aveva favorito in tutti i modi l’ascesa al potere di Ciano nel 1944 dopo la morte improvvisa del Duce. La parola di Casamassima valeva spesso quella di Ciano. Qualche volta, sapeva Maria De Carli, anche più di quella di Ciano.
Un mormorio di intonazione tutta particolare passò fra i consiglieri. Ciano aveva sentito quelle stesse frasi spezzate in altri momenti decisivi del passato. Ancora una volta cambia la musica della politica, pensò fra sé. Convocò i segretari per la votazione e rese pubblica la propria astensione. Un gesto puramente formale, come sapevano tutti in sala. Che il Capo del Fascismo avesse accettato di mettere ai voti la mozione De Carli, che il ministro dell’Interno Casamassima la appoggiasse, stava a significare che ci si aspettava un sì. Un caloroso sì. Rapidamente, a scrutinio palese, i gerarchi dell’Italia fascista si pronunciarono tutti, salvo i ministri degli Esteri e della Guerra che si astennero, a favore della mozione.
Galeazzo Ciano scrisse rapido alcune righe su un block notes e compose un numero sul telefono che aveva al suo fianco. Subito comparve in sala l’addetto stampa del governo.
“Passa questa notizia ai direttori di tutti i quotidiani e fa preparare radio e TV per un mio discorso a reti unificate” disse brusco il segretario nazionale. Il proprio tono, aspro e decisionista, gli sembrò per un momento quello del suocero. Si voltò verso il quadro che incombeva sulle sue spalle grasse: gli occhi spiritati di Mussolini sembravano guardarlo sempre più accigliati.


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