Le famiglie nobili genovesi
 
di Angelo M.G. Scorza
1924


Prefazione:
La 'nobiltà' dei genovesi


di Gabriella Airaldi

Diversamente da quanto accade nel mondo contemporaneo, nella società d’antico regime famiglia, parentado e lignaggio erano punti di riferimento obbligati di comunità che, di fronte all’instabilità delle istituzioni, organizzavano intorno ad essi le proprie regole di vita. Lungi dall’essere risultato di incontri sentimentali e di relazioni affettive, la grande famiglia e il lignaggio costituivano essenzialmente un “dispositivo” di trasmissione di proprietà e di posizioni; una chiave per accedere al potere e controllarlo; un modello esemplare di valenza generazionale indefinita, sul quale si ordinavano tanto la società esterna quanto le dure regole dei comportamenti interni. Per quanto le esigenze individuali abbiano ingaggiato una dura battaglia fin dall’età medievale, la rigidità e l’impermeabilità dei ruoli sociali ha resistito a lungo contro il sottile impulso rivoluzionario imposto dall’affermazione del denaro e del capitalismo, dall’anonimato e dalle alleanze trasversali proprie della crescente centralità della vita urbana con la sua cultura sempre più indirizzata verso il razionalismo e la secolarizzazione. Anzi, paradossalmente, nella costruzione dell’identità europea il principio “lignager” dell’ordinamento sociale ha giocato un ruolo importantissimo, rivelando con maggior forza la sua ostinazione soprattutto in quegli ambiti in cui più spiccata era la tendenza ad aprirsi al vento del cambiamento.

In questo senso la storia genovese, in cui costantemente si oscilla tra pubblico e privato, e in cui la forza del consortile solidale e clientelare sancisce la durata delle fortune politiche ed economiche, costituisce davvero un esempio interessante. I Genovesi fanno cominciare la loro storia con la Compagna e il Comune. Sono parole e istituzioni, tuttavia, che assumono valore solo se si riempiono dei contenuti giusti; e cioè dell’azione condotta a livello politico, economico e sociale dai consorzi familiari di varia origine, che da allora in poi ne guidano le sorti. Il fenomeno è addirittura ovvio nella vita comunale di quei tempi; con la differenza però che a Genova la posta in gioco è molto più alta che altrove, orientata com’è non esclusivamente sul territorio, bensì sul piano internazionale. Ciò prevede alti costi, ma altrettanto alte remunerazioni. A Genova, dunque, il gioco è pesante e lo dimostra la storia della città, intessuta in tutti i tempi di sanguinose lotte per il potere. E lotte si combatteranno sempre: subito tra i consorzi familiari, che per primi hanno gestito la carica consolare e più tardi tra le “vecchie” famiglie e le “nuove”, poi genericamente definite “nobili” e “popolari”. Ma anche quando si passa al dogato cosiddetto “popolare” la questione non cambia. Anzi la forza di questa “privatizzazione” della politica è tale che dall’unione di famiglie prende vita l’artifizio dell’“albergo”. Ovvero: se la famiglia è grande (e cioè ha dato origine a molti ceppi), essa forma un “albergo” per conto suo; sennò sotto un cognome preminente si raggruppano famiglie diverse e cioè di altro sangue. La storia è interessante (e si intreccia, non casualmente, con le origini del Banco di San Giorgio); e trova un suo momento illuminante nel 1528, quando 28 casate con 600 cognomi identificano coloro a cui tocca gestire il potere. Ma chi sono costoro? Si tratta sempre e soltanto di quegli antichi “nobili” e “popolari”, ai quali la consuetudine nell’esercizio del potere – e cioè di fatto la forza e la capacità di durata del loro consortile – ha consentito di arrivare fino a quel punto. Difatti l’analisi onomastica propone una continuità interessante in cui le eclissi sono davvero minoritarie in virtù dei giochi di aggregazione proseguiti nel tempo. È il cognome dunque il vero “blasone” di una storia genovese, che, pur avendo fatto precocemente del denaro una chiave di volta della sua storia, ha serbato fede costante a una fiera arcaicità di modelli, mantenendo saldamente legata alla famiglia l’organizzazione istituzionale in tutti i tempi.

Se lavorare sui fili di un’economia-mondo arricchisce, ma anche altera o snatura la fisionomia della grande famiglia, proprio la rigida verticalizzazione mantenuta nell’ambito socio-istituzionale genovese consente una “reductio ad unum”, che, allora, consente di controllare le fila della politica e degli affari; e, oggi, assieme al consueto bagaglio informativo prodotto della storiografia, propone interessanti indagini di natura socio- antropologica intese a verificare “come” il patriziato genovese abbia complessivamente vissuto la dimensione socio-familiare nel tempo. Non solo, quindi, in particolari momenti in cui sia stato spinto ad una riflessione sul tema; come è avvenuto, in pieno Cinquecento, quando, nel quadro complesso delle relazioni con la Spagna e in base ad esigenze dei tempi, si è molto puntato alla ricostruzione di preziose genealogie, che testimoniassero l’esistenza di radici ben piantate in un passato lontano. L’esempio più famoso è la graziosa leggenda sulle remote origini dei Doria. Infatti, nonostante già Caffaro, nella sua lettura “epica” della storia genovese, intorbidì volontariamente le acque disegnando una storia “collettiva” della città, proprio il deciso profilo guerriero, che egli imprime a Guglielmo Embriaco, l’eroe intorno al quale costruisce l’identità cittadina, induce a riflettere. Soprattutto se si tiene conto che è solo a partire da quel momento – e cioè dall’età della “Crociata” e del Comune – che prendono avvio le prime forme cognominali: gli Embriaci ne sono una dimostrazione; mentre s’identifica nella documentazione coeva l’assoluta incidenza nell’operatività genovese del legame di sangue e delle alleanze “artificiali”che lo accompagnano. Tra quell’epoca e il Cinquecento, quando appunto incontriamo la decisiva ridefinizione dell’istituzione familiare come specchio dell’immagine del potere genovese, prima che lo Stato sabaudo, dopo l’annessione, riconosca al “patriziato” del Libro d’oro la sua patente di nobiltà, i Genovesi avevano comunque lavorato a consolidare, “nobilitandola” di fronte al mondo e forse anche di fronte a se stessi, la loro ferrea fedeltà ad un’istituzione familiare, che avevano posto e continuavano a porre al centro della loro comunità dentro e fuori le mura cittadine. Tra le tante cose che avevano fatto, e che sono bene evidenziate nella serie di statuti che ogni singolo “albergo” pone in essere per guidare dalla nascita fino alla morte la vita privata e pubblica dei suoi membri, c’era stata anche la creazione del blasone; l’“emblema totemico” che, in simbiosi con il cognome, sventolando sulle bandiere delle flotte private, decorando le facciate e gli interni ai palazzi, indicava l’appartenenza ad un’origine comune. Forse in omaggio al loro presunto “understatement” i Genovesi non ebbero mai uno stemmario ufficiale; ma non è difficile capire quanto scarso fosse il valore intrinseco dello stemma di un Comune per una società che faceva del privato il centro del potere. Tuttavia è proprio l’esistenza del blasone a segnalare con chiarezza il desiderio e la volontà di richiamarsi a quei valori cavallereschi e guerrieri, che sono fondamento dell’identità nobiliare europea. Ciò dimostra dunque, ancora una volta, che l’antropologia dei cosiddetti mercanti genovesi è un ibrido non facile da decifrare; che la storia genovese richiede ancora studi approfonditi, che, senza mai prescinderne, vadano oltre l’indagine erudita, di carattere araldico e prosopografico, che ha visto tra i suoi primi cultori quell’Angelo Scorza, autore del repêchage qui pubblicato, che è stata proseguita in tempi recenti e che va collocata, con sempre maggiore attenzione, all’interno di quella storia “globale” nella quale veramente si identifica la storia del cammino umano.


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