"Partita doppia. I platani di Villa Albaro"
di Fabrizio Uberto
 

 

un assaggio dal libro: le prime pagine

 

9 giugno 1987

Scrivo.
Navigo nel tempo.
Oscillo tra memoria e indagini di senso.


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Genova, 2 marzo 1987.

“Ma perché non mi ha chiamato prima?”.
“Spe… speravo si facesse viva”.
“Marzia abbiamo già perso troppo tempo”.
“Ti prego… fai qualcosa”.
“Ha detto Rapallo?”.
“Sì”.
“Appena posso la richiamo”.

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22 marzo

Venti giorni inutili sono passati da quella telefonata.
È svanita nel nulla.
Abbiamo trovato la sua Dyane a Rapallo, vicino al porticciolo.
Avendo la “delizia” di essere il procuratore, mi è toccata l’indagine.
Ho sguinzagliato i sommozzatori, setacciato tutta la costa.
Una testimone riferisce di averla vista su un Rapido per Parigi. Le sue dichiarazioni sono talmente generiche da scoraggiare qualsiasi riscontro.
Il giudice istruttore Palombi ha interrogato il mio amico Marco Fantoni, la domestica Marzia.
Abbiamo sentito anche i colleghi attori di Saverio de Palma, un tipo eccentrico tragicamente scomparso.
Non c’è uno straccio d’indizio.
Palombi sostiene si sia suicidata. A parole non riesco a dargli torto: mi sento avvinto dal suo fisico pacioso, da quella faccia stempiata che lo fa più vecchio dei suoi trentadue anni.
Avrei voluto rivolgermi agli amici...
Mi hanno abbandonato.

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La mia malattia.
A sei anni mi aggiro per i compleanni, sbircio la sua eventuale presenza.
La delusione di non trovarla è un limbo senza attrattive.
Poi un lungo intervallo, qualche sporadico incontro.
A dieci anni siamo vicini di casa.
Giocatori di scacchi che si scrutano nelle minime mosse.

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Il cinque maggio del ’69 onoravo i miei dodici anni con un cinque in matematica. L’insufficienza era incorniciata dal commento spiritoso della professoressa: “La matematica non è il tuo forte Manteri!”.
In autobus la solita Genova.
Facce plumbee mugugnavano contro le lotte operaie, invocavano un governo forte. Mi hanno dato il colpo di grazia.
L’indomani avrei voluto rifugiarmi da mia nonna, ma lei era in montagna con un’amica.
All’ora di pranzo un donnino, secco come non mai, mi aspettava sulla soglia. Capelli stinti raccolti a crocchio, mi fissava e scuoteva la testa.
“Tuo padre ti deve parlare”.
Ha piazzato il solito indice davanti alla bocca.
Strana donna mia madre. Sa di medicinale e ha un rapporto maniacale con oggetti e arredi. Li riordina in continuazione.
Quando diceva “tuo padre” al posto di papà intendeva “castigo” o “esempio per tutti”.
Michele Manteri mi aspetta in salotto. Per l’occasione la sua faccia è ancora più maschia e rotonda, i capelli neri squadrati a spazzola. In quel periodo aveva abitudini strane, girava con un taccuino in tasca.
Forse per la sua fisionomia, lontana dal resto della famiglia, l’ho sempre vissuto come un usurpatore.
Era in attesa, sul solito divano marrone. Mi sono seduto su una poltrona, i piedi mi sgambettavano frenetici.
“Non capisco, ho fatto solo quattro errori e ‘quella’ mi ha dato lo stesso cinque”. Lui ha tirato fuori il taccuino, si è annotato qualcosa. Ha detto a labbra serrate: “Non uscirai per tutta la settimana, rimarrai a casa a studiare matematica”.
La mia unica arma era chiudermi nella mia cameretta.
“Lascialo stare Luisa, quando avrà fame non troverà più niente”.
In quella prima torre d’avorio mi baloccavo con realtà inesistenti. Ad esempio mi ero inventato un certo Paolo con il quale facevo le cose più turpi.
Anche quel giorno mi sono consultato con lui, ho concepito il mio piano.
La mattina dopo sono sgattaiolato in camera dei miei. Ho frugato nella borsetta di mia madre, le ho preso le chiavi di casa. La sera mio padre l’ha rimproverata per “l’ingiustificabile distrazione”.
L’indomani sono uscito anzitempo da scuola.
Mi sono precipitato da un ferramenta, mi sono fatto fare un doppione delle chiavi. Nel pomeriggio i due si toglievano di torno. Mettevano la loro pesantezza a disposizione del prossimo: l’uno vessava sfortunati dipendenti; il donnino allietava case ammuffite e vecchie signore.
Verso le tre le ho telefonato.
Anche Micol aveva genitori apprensivi. Una famiglia disarmonica i Senisi.
La vivacità ebraica della madre non si combinava con il cattolicesimo bigotto del marito.
Quella volta la signora Marta era di buon umore, via libera a Micol.
Sono arrivato per primo alla fontanella, ho atteso la mia amica in tipico ritardo.
Dopo un po’ è apparsa: candida nella sua camicetta di flanella e nel gonnellino rosa.
Potevamo benissimo essere fratelli: stessa età, biondi e mingherlini, lei batteva di un centimetro la mia mediocre statura.
Quel giorno non mi andava di fare la solita passeggiata. Il bosco davanti a casa invece: quello sì faceva al caso nostro. “Ci andiamo Micol?”.
Lei s’è opposta ma la sua obiezione era recitata.
Citava i discorsi dei genitori, la loro condanna di quel luogo in cui si esprimeva il corpo: bisogni all’aria aperta, strani giornaletti, ragazzi grandi, esperti nell’arte del toccamento. Non mi c’è voluto molto a convincerla.
L’ho presa per mano, ci siamo incamminati. Ci siamo infilati in un varco della recinzione; siamo entrati nel bosco.
Abbiamo percorso un sentiero, costeggiato rami d’ortica e rovi protervi. Avevo paura: se lei se ne accorgeva, il gioco era finito. “Dai ancora uno sforzo”; sapevo che di lì a poco sarebbe apparso un prato.
Davanti a noi un archivolto di rami e sterpi; ci siamo accucciati, abbiamo camminato a ginocchioni: strisciavamo in una specie di passo del leopardo, finché siamo arrivati al prato.
Ci siamo sdraiati vicini; l’erba alta ci cullava nella nenia del vento. Le ho indicato un casolare in lontananza, le ho chiesto se voleva visitarlo. Lei ha obiettato qualcosa, voleva sapere se c’ero già stato. Non potevo certo dirle che con “Paolo”ci avevo passato un intero pomeriggio: le mani ingorde su uno stropicciato campionario di sessi maschili e femminili.
“Solo un giretto”, ho detto; lei ha annuito perplessa.
Il casolare: un tetto rosso da fiaba, una porta di legno fradicio da sequestro di persona.
Ho sollevato la sbarra arrugginita. L’interno era da vecchio garage: divano sdrucito che vomitava rivoli di cotone, vecchi pneumatici sparsi dappertutto.
Ci siamo seduti sul divano, parlavamo senza guardarci.
Io: “Facciamo un gioco”.
“Quale?”.
“Facciamo tutto quello che ci viene in mente”.

Silenzio.
“Anche se è proibito?”.
“Sì”.
Le ho chiesto se era d’accordo a tornare l’indomani.
Lei ha annuito; ho provato un piacere doloroso, una specie di coito interrotto.

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Sono riuscito a rientrare prima dei miei. Alle sette mi hanno trovato nella cameretta, tranquillo e chino sui libri di scuola.
Lo sguardo tronfio di mio padre s’è posato sulla mia testina.
Ma c’era qualcosa che non andava nel mio piano.
Non mi bastava la sostanza della trasgressione; volevo anche l’apparenza.

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Le cinque del giorno dopo: siamo nel casolare. Di nuovo seduti sul divano, di nuovo immersi in un silenzio preparatorio. “Facciamo così, facciamo quello che vogliamo ma senza guardarci”dico io.
“Sì però inizia tu”.
Il fischio del vento copriva l’imbarazzo. Mi sono tolto la maglietta, l’ho buttata alle spalle. Poi l’ho guardata con la coda dell’occhio; lei ha fatto un riso complice e soffocato.
Sentivo il suo profumo infantile; l’ombra di una manina sorvolava la sua camicetta. Slacciava il primo bottone, il secondo: asola dopo asola, è spuntato il suo pancino levigato. Alla fine s’è sfilata la camicetta, l’ha posata sul divano. E se fossero arrivati quei tali, gli uomini esperti nel toccamento?
Ho sfiorato i calzoncini; li ho slacciati.
L’ho guardata di striscio: era immobile. Mi sono sfilato i bermuda.
Lei s’è alzata con aria di sfida, è andata verso la porta; s’è fermata di colpo. Armeggiava con la sua gonna, l’ha fatta cadere a terra.
Si è girata verso di me; ha sfoggiato le sue candide mutandine.
Ho preso coraggio.
Mi sono sfilato lo slip; lei mi guardava compiaciuta.
Il mio coso si era ingrossato, faceva capolino come un funghetto curioso.
Ma mai avrei pensato… Anche lei si è tolta le mutandine.
Non era proprio da bimba quella fessura: più grande di come me l’immaginavo e adombrata da ciuffi adolescenti. Veniva verso di me; si è fermata davanti alle mie ginocchia.
S’è abbassata, ha detto: “Non l’ho mai visto così da vicino, me lo fai toccare?”. Mi sono coperto con una mano. “Andiamo via”, ho urlato.
Lei era esterrefatta. “Hai capito o no che dobbiamo rivestirci?”, ho detto sempre più pazzo.
Sbattiamo contro i pneumatici sbagliamo scambiamo i vestiti; in breve siamo fuori dal casolare.
Ho consultato il mio subacqueo; le otto meno un quarto. Due tipi, uno grasso in divisa e l’altro smilzo in giacca e cravatta, ci venivano incontro. “Sei tu Francesco Manteri?” ha urlato lo smilzo. Mi sentivo la voce congelata, riuscivo solo a muovere la testa. “Seguiteci, ci sono i vostri genitori un po’ alterati”, ha detto l’uomo in divisa; poi è scoppiato a ridere come un grasso maiale. Abbiamo rifatto il cammino in un silenzio di ghiaccio; come sottofondo il piantino di Micol. Siamo tornati alla rete di recinzione: ho dato un’occhiata al cortile, ho intravisto uno spiegamento di forze. C’era una pantera della Polizia, obliqua tipo blitz; il faccione infervorato di mio padre sputava parole verso mia madre; la signora Senisi dava ordini a un agente, suo marito guardava nel vuoto.
Facce alterate dall’ansia si voltano contro di noi; la Senisi correva verso la figlia, agitava una mano minacciosa.
Mio padre è rimasto immobile.
Sono andato io verso di lui: camminavo rigido, mi preparavo all’urto di quelle mani tracagnotte.
Gli ero davanti: ho socchiuso gli occhi come una bestia al macello.
Lui: una faccia da santone.
“Facciamo finta di avere sognato”, ha detto con un tono da carosello. “Io non voglio sapere perché hai trasgredito, sappi solo che mi hai dato un grande dolore. Domani ognuno riprenderà la sua vita e presto dimenticheremo quest’increscioso episodio”.
Ero la statua di un ebete: tutto ruotava in un vortice impazzito. Nell’aria prediche, convenevoli, commiati rombanti di macchine. Ho atteso qualcuno che mi portasse via; mi sentivo inutile come un rottame da scaricare.

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In Procura un uomo-larva si atteggia a duro; attende fantomatiche telefonate.
L’ispettore Torresi fa battute sdrammatizzanti; io lo gelo con uno sguardo assente.


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Un mese dopo la faccenda del bosco i Senisi avevano cambiato casa, s’erano trasferiti in una villa nell’elegante quartiere di Albaro.
Per due anni la combutta dei genitori mi aveva vietato di vederla. Era diventata una visione effimera, un casuale saluto interrotto da urla materne.
Tra me e Micol s’intrometteva un muro maligno, sulle cui increspature si arrampicavano le mie ultime speranze: mi frustrava la vista un consesso di platani, severi guardiani di un tesoro inviolabile.
A complicarmi la vita ci si era messo anche il caso Milena Sutter, la ragazzina assassinata.
I genitori genovesi impazziti d’apprensione, noi ragazzi più sconvolti dalla loro arteriosclerosi che dal maniaco in circolazione.
Ho dato addio alla passeggiata casa-scuola: un percorso spirituale che mi rigenerava.
Mi scortavano avanti e indietro come un pacco postale.

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Nel giugno del ’71 è morta Marta Senisi.
Un giorno sono entrato tutto saltellante in cucina e mia madre mi ha guardato con occhio spento, s’è messa il solito dito davanti alla bocca. Poi ha ricordato tutte le disgrazie di quella famiglia.
I nonni materni separati, morti in tragico avvicendamento. L’altra nonna prima vedova e poi rinchiusa in una casa di riposo.
Quella natura grigia si accendeva solo a parlare di operazioni chirurgiche e di decessi.
Le ho detto gelido: “Almeno la rivedrò”.

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Una calda mattinata commemorava la madre di Micol.
Ero costretto nella 500 materna e cercavo di essere triste, pensavo ai retroscena più deprimenti.
La chemioterapia, l’ultimo saluto alla figlia, il marito Dante che singhiozzava nel bagno. Ma non c’era niente da fare: mi era venuta un’eccitazione blasfema.
La borghesia genovese era al gran completo davanti al Tempio, la classica cornice di abiti scuri e visi segnati.
Questi “filantropi”, gli stessi che in spiaggia rimangono impassibili davanti al morto annegato, si voltano verso di noi con mosse da moviola, ci calamitano nella folla con occhiate morbose.
Ho lasciato mia madre in balia di un’amica logorroica, sono sgattaiolato per una navata laterale.
Mi sono nascosto dietro una colonna: l’ho subito vista, più alta e aggraziata di come me la ricordavo.
Era imprigionata fra Marzia e il padre, “molestata”dal rabbino che le accarezzava la nuca.
Sul catafalco la bara di Marta Senisi: slanciata ed elegante come la donna che avrebbe ospitato in eterno.
Poi la marea umana s’è riversata dentro ed io mi sentivo in un compartimento stagno, era come se non ci fosse nessuno.
La funzione è stata spietata, interminabile.
Alla fine mi sono fatto trascinare dall’onda dei lamenti, degli abbracci e dei bacini sulle guance, ho galleggiato passivo di nuovo verso l’atrio.
Mia madre mi ha chiamato e quel grido era il richiamo all’ordine, alla meschina quotidianità in cui tutto scivola via senza uno straccio di maturazione.
Le ho urlato di andarsene, sarei tornato in autobus.
Mi sono girato verso l’atrio e la bara mi è piombata sugli occhi, quasi mi ha accusato di qualcosa. Lei è apparsa: era stretta tra il padre e l’abbraccio da chioccia di Marzia.
Mi sono avvicinato. “Santa rassegnazione”, cantilenava la domestica.
Micol mi ha sfiorato con lo sguardo; poi si è sganciata da quel capannello vizzo che violentava il suo dolore.
Adesso siamo uno di fronte all’altra: sentimenti muti ci scalpitano dentro.
Mi sono tuffato in quegli occhi cobalto: vedevo il nostro futuro, fisionomie diventare adulte e sfuggenti.
Nell’aria parole estranee al nostro mondo adolescente, piccoli sentimenti solo balbettati. Mi accarezzava i capelli.
“Venite qui!”, ha urlato Dante.
Eccola, l’immancabile censura. Questa volta aveva il volto grifagno di Senisi padre.
Io e Micol ci siamo scambiati un’intesa, poi siamo andati a espiare.
Senisi ha scosso la testa; “Non mi piacciono questi atteggiamenti da grandi”, ha detto con la sua voce nasale.
“Non capisco”, ho replicato.
“In questo contesto non è opportuno…”.
“Ha ragione”.
Blandisco il suo dolore.
Tengo nascosta la mia mortificazione come una madre il figlio disgraziato.


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