Guarda come corrono
i fiamminghi pedalatori

un romanzo di Massimo Fabrizi

"Guarda come corrono i fiamminghi pedalatori" di Massimo Fabrizi si è classificato secondo al Premio Internazionale di Saggistica, Narrativa, Giornalismo, Poesia, Pittura e Fotografia sul tema “Emigrazione” (con il patrocinio di: Ministero per gli Italiani nel mondo, Regione Abruzzo, Provincia dell’Aquila, Comune di Pratola Peligna, Associazione “La Voce dell’Emigrante”, Ministero per i Beni e le Attività Culturali).

 

Primo capitolo

La notte era corsa via rapidamente trascinando con sé, verso l’ora albina, gli strascichi di qualche evanescente sogno, i fotogrammi usciti dal proiettore della mente quando l’ansia, tormentosa e febbrile, aveva ceduto alla stanchezza delle sue membra. S’era però trattato di brevi e fugaci istanti, di un ondeggiare tra la veglia ed il leggero intorpidimento coscienziale.
Fabio sapeva che non avrebbe mai potuto vincere la natura del suo carattere, nemmeno se si fosse imbottito di pilloloni o camomillone formato famiglia. L’ansia lo prendeva sempre allo stomaco, potente come un diretto di Cassius Clay; e Clay piazzava il suo colpo ogni qualvolta doveva fare qualcosa di importante, ogni qualvolta doveva deragliare dai binari della più ordinaria ed immutabile quotidianità. E poi, cacchio, l’indomani sarebbe partito per un lungo viaggio. Avrebbe addirittura volato, mica cosa da poco!
Nei momenti in cui la stanchezza lo aveva vinto, il nostro aveva fatto un sogno a dir poco eccezionale: s’era visto in prima visione niente meno che Icaro. Ma sì, proprio lui, che con sua madre Naucrate svolazzava sopra l’Adriatico, mentre Dedalo stava ad osservarli dalla spiaggia. Volteggiavano come due farfalloni, quei pazzi! Salivano verso l’immensa distesa celeste per poi buttarsi giù, in tremende picchiate, a rasare la sabbia.
La sveglia gli aveva ormai gridato a squarciagola di levarsi dal caldo tepore delle coperte, mentre i suoi, di là, erano già in movimento per preparargli la colazione e sistemare le ultime cose prima del fatidico distacco. Fabio li aveva sentiti affaccendati, ma prudenti in ogni gesto, onde evitare ogni eccessivo rumore.
Gli sembrava di vederli, i suoi genitori, anche attraverso il muro della sua camera; ne conosceva a memoria gesti e consuetudini, sempre mossi da un profondo affetto che spesso s’esprimeva, senza bisogno di vacue e ridondanti parole, nella più espressiva concretezza di ogni loro atto.
Non era la prima volta che Fabio lasciava il patrio ostello ed il selvaggio borgo natio per un lungo periodo, ma ciononostante si sentiva pur sempre eccitato come un novello Cristoforo Colombo.
Doccia, colazione e via, con i suoi che, rigorosamente uniti per l’ultimo saluto, in sella all’ammiraglia puntavano diritti verso il piccolo scalo aeroportuale.
Lungo il tragitto il nostro osservava silenzioso la sua terra, il dolce declinare delle verdi colline di quella valle marchigiana che accompagnava serenamente verso il suo viaggio alla foce il fiume Esino. Guardava quelle campagne in mezzo alle quali stava qualche vecchio casolare oramai abbandonato dai legittimi proprietari per la vita più confortevole e chiassosa della città. Guardava e pensava, accarezzando quei luoghi che conosceva palmo a palmo, tasselli del mosaico della sua stessa esistenza.
Quando Febo cominciò a scagliare i primi dardi, l’ammiraglia era già in fase di parcheggio. Sulla pista pronto, come un cavaliere teutonico, il volatile che avrebbe dovuto condurlo a Roma.
“Beh, è ora di andare…” – disse ai suoi mestamente, dispiaciuto per quella partenza che sentiva quasi come una sorta di vigliacco abbandono del nido natale, una specie di fuga. Il nostro non riusciva a spiegarsi il perché di tale impressione. Talvolta i suoi sensi di colpa rasentavano l’ossessione maniacale, mentre avrebbe voluto prendere la vita un poco più serenamente, con maggiore tranquillità, e persino con un pizzico di fatalismo, quello stesso che non amava vedere negli altri.
Il grosso volatile si portò a fondo pista, in posizione di partenza. Fabio, legato alla vita dalla seat-belt, diede un’ultima occhiata verso l’esterno. Là, al di fuori della rete di recinzione, poté scorgere i suoi per l’ultima volta, intenti ad osservare le manovre dell’uccello meccanico, finché il pilota decise di dare un drastico taglio ai convenevoli e agli intenerimenti emozionali. Pigiò come un folle sul pedale del gas, mentre i due motori, a tutta birra, ruggivano come leoni infuriati. Una scarica d’adrenalina percorse il nostro dalla punta dei capelli sino alle suole delle scarpe. La pista scorreva sempre più veloce al di fuori del finestrino, e con lei i campi e gli edifici di quell’aeroporto. Improvvisamente Fabio reputò quello del pilota il mestiere più bello in assoluto, senza ombra di dubbio. E rivangò il passato, quando anch’egli, colto da un grande amore per il volo, aveva sognato di divenire un Icaro.
“Fantastico” – pensava – “davvero fantastico!”.
Ma ancor prima del secondo “fantastico”, si accorse che l’ala stava inclinandosi verso l’alto. Il grosso volatile aveva staccato le sue zampe da terra: diritto, verso l’ignoto azzurro sovrastante con decisione e fermezza, sino a raddrizzarsi sopra il mare, per poi buttarsi ancora in una virata-inversione ad “u” che gli diede una sensazione di leggerezza cerebrale. Ma tutto passò in pochi secondi. Lo spettacolo che si schiudeva davanti ai suoi occhi era meraviglioso. Rimase incantato come un ebete a rimirare i giochi di luce che Febo faceva con le sue amiche nuvole, bianche e schiumose come un mare di panna.
La vita di sotto era ai suoi occhi divenuta, indistintamente, quella del regno animale: un microcosmo lontano e piccolissimo, che si muoveva lento e silenzioso come il gran popolo delle formiche.


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