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La pittrice
del
vapore "Sirio"
un romanzo di Eligio Imarisio
Primo capitolo
Ne giravano di palanche a Genova, tra Otto
e Novecento! La prosperità economica del capoluogo ligure dipendeva in
particolar modo dal porto, dalle industrie, dai collegamenti ferroviari e dai
tanti commerci. Alimentava per riflesso una gioia di vivere borghese, pallida
derivazione locale del clima belle époque parigino, che Elsa Canepa avvertiva in
tutte le manifestazioni della vita moderna.
Elsa portava la sua giovinezza con misurata eleganza; occhi scuri, aveva un bel
personale su cui fluivano lunghi capelli castani fermati dietro alla nuca. La
madre, Lina, apparteneva al ceppo dei Rebora, un facoltoso casato mercantile; il
padre, Alfredo, era uno stimato ingegnere e azionista della “Società Anonima
Italiana Gio. Ansaldo Armstrong e C.”. La ragazza doveva al patrimonio familiare
la disponibilità finanziaria che le consentiva di organizzare balli e
soprattutto di viaggiare a bordo dell’automobile, tanto le piaceva quel
formidabile prodigio in movimento.
L’ambiente che si creava nel corso di una serata danzante, tramite la pioggia di
mazurche, di polche e di valzer, infondeva a Elsa un’allegria spensierata;
un’allegria che diventava audacia riprovevole, quando l’orchestra attaccava il
boston. Suscitavano infatti biasimo quei passi lenti, quel ritiro lungo e
strisciato di un piede verso l’altro piede già spostato in avanti, l’hesitation
appunto, mentre il corpo assumeva pose languide seguendo il compromesso musicale
effettuato tra il walzer viennese e il sincopato afroamericano. Ah! Proprio un
bel compromesso, si diceva: la nobile raffinatezza del ballo di sala, mischiata
con gli impulsi tribali di popoli inferiori.
Impulsi peraltro tollerati da lungo tempo a Genova, grande città portuale del
Mediterraneo; ostentatamente magnificati nel marzo 1906 dal foresto William
Frederick Cody, ovvero Buffalo Bill. La piazza d’armi, vicina alla foce del
torrente Bisagno, diveniva in quel mese un vasto però misterioso accampamento.
Cinquantadue vagoni pari a tre infiniti treni, ottocento uomini, cinquecento
cavalli costituivano l’eccezionale organizzazione del Buffalo Bill’s Wild West
Show, per la prima volta in Italia. Lo scout americano cavalcava la propria
leggenda, che lo voleva invincibile eroe patrio. Un eroe, per la verità, il
quale partecipava alla Guerra di Secessione come guida federale delle truppe che
sterminavano le popolazioni Cheyenne e Sioux. Una perplessità pareva legittima,
nei pressi del Bisagno: secondo Cody, la gente indiana andava bene solo per il
circo?
Elsa (che faceva sua tale perplessità) non andava di proposito a vedere lo
spettacolo, malgrado l’enorme affluenza del pubblico vestito alla buona, in
ottemperanza a un avviso singolare apparso al riguardo sulla stampa ligure: «La
Direzione ci prega di significare alle signore che non occorre ch’esse indossino
toilettes di gala per questi emozionanti e selvaggi spettacoli», messi su
principalmente con gli assalti banditeschi alle diligenze fra le tende
pittoresche dei pellirosse. Fuor di dubbio, il vecchio mondo cambiava nel nuovo
secolo! Lo si appurava anche con tali esempi, peraltro marginali.
Secondo la ragazza, aggiornata sui fatti del globo, l’epifania dell’epoca
novella si riscontrava specie nelle corse automobilistiche. Erano, quelle,
competizioni organizzate in Paesi diversi volte a dimostrare i pregi
dell’originale mezzo di locomozione, passibile di continui miglioramenti. Nella
Penisola si doveva all’“Automobile Club d’Italia” l’istituzione dell’ambito
premio internazionale Coppa d’Oro (con l’aggiunta di venticinquemila lire), a
coronamento di un giro automobilistico dell’Italia continentale vinto nella
primavera del 1906 da Vincenzo Lancia con una vettura “Fiat”. E, sempre nella
primavera di quell’anno, si doveva a Vincenzo Florio la realizzazione di un
altro importante premio: la Targa Florio, disputata nell’apposito circuito
siciliano delle Madonie anziché su strada; vinta, assieme a cinquantamila lire,
da Alessandro Cagno con una vettura “Itala”.
Elsa seguiva tali avvenimenti, dalle colonne de “L’Illustrazione Italiana”. E ne
aveva ben donde. Andava orgogliosa della sua Populaire, donatale dal papà;
costruita dalla società francese “De Dion & Bouton”, era una vettura leggera
assai diffusa. Montava un motore monocilindrico raffreddato ad acqua, che
sviluppava otto cavalli-vapore; l’accensione avveniva tramite accumulatore e
bobina. Pesava a vuoto trecentoquaranta chilogrammi; ma con un cambio a tre
velocità più retromarcia, percorreva fino a quarantaquattro chilometri orari.
Davvero bella, la Populaire di Elsa! Carrozzeria e cerchioni color giallino;
cappotta, imbottiture e parafanghi color nero; fari di ottone lucidato e volante
di legno verniciato. Una macchina decisamente bourgeoise: chi se la poteva
permettere, fra il popolo?
L’estate dell’anno 1906 calava sulla città, quando la ragazza decise di agire.
Lei possedeva la convinzione d’essere padrona del mondo, tipica della gioventù
benestante, rafforzata per giunta dal proprio carattere assai determinato. Aveva
riflettuto a lungo sul suo proposito, fin dal tempo della scuola di pittura
all’“Accademia Ligustica di Belle Arti”. Lo approvava definitivamente in quell’ultimo
periodo, giacché lavorava all’Accademia stessa come bibliotecaria. Del resto la
polemica accesa da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi tre anni prima, circa i
restauri compiuti alla quadreria di Palazzo Rosso a Genova, aveva lasciato il
segno negli ambienti culturali italiani e stranieri. Critici, giornalisti,
politici s’eran dati da fare per dire le loro tramite testate quotidiane e
assemblee pubbliche; si riferivano a certi fenomeni chimici di vario tipo
manifestatisi sopra tele prestigiose, dopo le operazioni svolte nella quadreria
dal professore bolognese Orfeo Orfei. D’accordo, la vicenda si concludeva
d’autorità con un provvedimento ministeriale, assecondato dalla Giunta
municipale, che imponeva a Orfei di terminare il proprio lavoro sotto la
sorveglianza d’un collegio d’esperti (va detto, che ulteriori interventi ai
medesimi quadri si effettuavano nell’anteguerra 1915-1918). Era quella però, una
vicenda che legittimava più d’una perplessità e che nella ragazza generava il
proposito di conoscere a fondo la tecnica del restauro pittorico,
impossessandosi del mestiere di restauratore artistico. Ma come fare?
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