Europa anno zero - di Nicola Vallinoto, Maurizio Monero, Andrea Sandra
 

Prefazione
Di Franco Praussello

La convocazione della Convenzione sul futuro dell’Europa costituisce un punto di svolta cruciale nel processo di integrazione europea. Con essa i governi, che hanno deciso sino ad oggi le forme e l’evoluzione di tale processo, confessano la loro impotenza ad affrontare le sfide di fronte alle quali oggi l’Europa si trova e affidano questo compito ai cittadini, attraverso i loro rappresentanti eletti. Essi riconoscono in tal modo che il metodo dei piccoli passi, che è stato alla base del processo per oltre quarant’anni, ha esaurito le sue potenzialità e che ciò di cui ha bisogno l’Unione non è una semplice razionalizzazione dei propri assetti, ma una vera e propria rifondazione. L’approccio funzionalistico (costruire l’Europa un pezzetto per volta, sperando che ogni tappa spinga ad andare un poco oltre, senza che la fine del processo venga mai raggiunta) non basta più e occorre utilizzare il metodo politico costituzionale, affrontando i nodi politici, ovvero quelli della democrazia e della sovranità dello Stato europeo. L’Europa di Monnet, il padre del metodo funzionalista, raggiunge l’Europa di Spinelli, l’instancabile propugnatore dell’assemblea costituente europea. Com’è corretto che avvenga quando è in vista la conclusione del processo, i due approcci si congiungono, cosa peraltro che Monnet stesso pensava, considerando le prime realizzazioni comunitarie alla stregua di una prima tappa sulla strada della Federazione europea.
L’Europa che hanno costruito i governi, d’altronde, non è troppo presentabile, o per lo meno ha dei difetti che la rendono poco amata. Persino sul piano economico, dove ha registrato molti successi, i limiti non mancano, soprattutto per l’incapacità di abbinare la stabilità monetaria alla crescita economica e all’aumento dell’occupazione. Sul piano politico, poi, essa è incapace di agire e scarsamente democratica, i due lati di una stessa medaglia. Questo vale, non solo nelle azioni verso l’esterno, data la mancanza di una politica estera e della sicurezza comuni, ma anche al suo interno, dove le decisioni sono sottoposte al ricatto dei singoli Paesi. È noto, infatti, che il potere di ultima istanza, la sovranità, nel sistema dell’Unione non spetta agli organi comunitari, e in primis al Parlamento e alla Commissione, ma al Consiglio dei ministri, dove vale ancora il potere di veto dei singoli governi. L’Europa pretende di funzionare come funzionerebbe l’Italia se fosse governata da 20 esecutivi regionali, che decidessero in base al metodo dell’unanimità. Il deficit democratico si riflette in due fatti essenziali: da una parte nella mancanza di poteri di cui dispone il Parlamento europeo, in dispregio della sua elezione diretta; dall’altra nel fatto che le materie decise dai governi nel chiuso delle deliberazioni del Consiglio sono sottratte all’esame dei rappresentanti eletti a livello di ogni singolo Paese. Per completare il quadro, spesso i governi mascherano le loro responsabilità, imputando all’Unione decisioni, che in realtà sono loro a prendere. Con questo sistema i governi rendono responsabile Bruxelles agli occhi dell’opinione pubblica delle loro cattive decisioni, sottraendo competenze ai parlamenti eletti, e ai loro stessi ministri che operano a livello nazionale.
L’avere affidato alla Convenzione il compito di presentare le riforme di cui l’Unione ha bisogno non significa peraltro che i governi abbiano rinunciato ai loro poteri, e infatti le proposte della Convenzione dovranno formare oggetto delle decisioni di una nuova Conferenza intergovernativa, dove rischiano di essere edulcorate o snaturate dalle diplomazie nazionali, nemiche giurate della democrazia europea. L’ambivalenza dei governi si spiega facilmente con la natura dialettica dei rapporti che essi hanno instaurato con l’Europa. Da una parte essi accettano di far parte dell’Unione a causa della loro debolezza: dalla crisi irreversibile della sovranità assoluta nazionale è nata la spinta originaria che ha dato vita alla costruzione europea, mentre oggi, soprattutto nel contesto della globalizzazione, è evidente che nessun Paese europeo, singolarmente considerato, è in grado di fare da solo. Dall’altra, la partecipazione al processo di integrazione li ha rafforzati: la messa in comune delle sovranità ne ha ampliato la capacità d’azione ed oggi ciascuno di essi è geloso della propria ritrovata autonomia, sia pure in termini relativi. Ogni governo si trova così nella situazione del cosiddetto viaggiatore clandestino (free rider) in rapporto alla fornitura dei beni pubblici, ovvero di chi vuole usufruire di un servizio comune, senza essere disposto a pagarne per intero i costi. In termini politici questo significa che non appena riconoscono la necessità di fare degli avanzamenti in direzione di maggiori trasferimenti di sovranità, essi si affrettano a limitarne la portata per evitare di perdere il controllo del processo. La contraddizione insanabile in cui si trovano i governi a questo proposito è bene riassunta dalla formula-ossimoro con cui alcuni hanno indicato il fine cui dovrebbe tendere la Convenzione: la creazione di una Federazione di Stati nazionali, come se fosse possibile dar vita a uno Stato federale senza togliere agli Stati nazionali il loro potere di ultima istanza.
Tuttavia, come la Convenzione, nonostante l’ambiguità del mandato iniziale di limitarsi a discutere del futuro dell’Europa, ha subito messo mano al compito irrinunciabile di elaborare una costituzione europea, è plausibile che essa sappia farsi interprete del desiderio di riforme e di democrazia dei cittadini europei, che ne hanno eletto i componenti, presentando una costituzione in grado di superare i limiti politici e istituzionali dell’attuale Unione. Se ciò accadrà, difficilmente i governi potranno permettersi di respingerla in blocco. Non ultimo perché sono comunque costretti a tentare di far funzionare l’Unione, pena il tracollo dell’edificio comune.
In effetti, tra le sfide che l’Unione deve affrontare, e che hanno obbligato i governi a fare intervenire nella procedura della riforma istituzionale i rappresentanti dei cittadini europei, alcune sono letteralmente vitali. Accanto alla necessità di rendere l’Europa capace di agire, per farne un soggetto attivo della politica mondiale nella fase della globalizzazione (la sovranità condivisa e l’Europa come governo – parziale – della globalizzazione), l’Unione deve fare i conti con due questioni urgenti, che ne potrebbero mettere in forse la sopravvivenza nell’arco di pochi anni. L’esempio della fine dell’Unione sovietica è lì a rammentarci che le istituzioni non sono costruzioni eterne, ma possono entrare in crisi e dissolversi se non sono in grado di risolvere i problemi che ne condizionano lo sviluppo.
Delle due sfide vitali, una è ampiamente nota, mentre l’altra rimane spesso nell’ombra. Si tratta delle questioni dell’allargamento dell’Unione e della gestione dell’economia europea, in presenza dell’euro. Dopo il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione sovietica, quando apparve chiaro che i Paesi dell’Est europeo erano destinati a scadenza più o meno breve ad entrare nell’Unione europea, i governi si trovarono di fronte al dilemma di scegliere fra allargamento e approfondimento. Si trattava di decidere se dar corso in tempi brevi all’estensione verso Est dell’Unione, senza modificare i meccanismi di decisione comuni, rischiando quindi la paralisi, o se far precedere l’adesione dei nuovi Paesi membri da una riforma delle istituzioni comunitarie, che consentisse all’Unione di funzionare efficacemente anche con un numero elevato di Paesi. Ufficialmente fu fatta la seconda scelta, ma le riforme istituzionali necessarie non furono realizzate né dal trattato di Amsterdam né da quello di Nizza (quest’ultimo peraltro non ancora ratificato), nonostante questo fosse il loro obiettivo dichiarato. Di fatto per oltre un decennio i governi non fecero né l’allargamento né l’approfondimento e l’entrata dei nuovi Paesi è stata rimandata al 2004, a quindici anni dalla caduta del muro di Berlino, suscitando il nascere di sentimenti antieuropei presso le opinioni pubbliche dei Paesi candidati. La riforma istituzionale che scaturirà dalla Convenzione rappresenta l’ultima spiaggia per consentire a strutture pensate in origine per sei Paesi di funzionare con venticinque-trenta Paesi. È chiaro, in particolare, che senza l’abolizione del potere di veto degli Stati, un’Unione così ampia è destinata in un primo tempo all’impotenza e quindi alla disgregazione.
La seconda sfida è altrettanto pericolosa. Dotandosi di una moneta unica prima che nascesse un governo europeo, l’Europa è entrata in rotta di collisione con tutte le esperienze storiche precedenti. L’euro è una moneta senza Stato, e alla lunga è destinata al fallimento se non saranno fatti progressi sul piano dell’unità politica dell’Europa. La sopravvivenza dell’euro dovrebbe essere garantita da un incerto compromesso fra l’unicità della politica monetaria, affidata ad un’istituzione federale, la Banca centrale europea, e la molteplicità delle politiche di bilancio, rimaste nella competenza dei governi nazionali. L’unica forma di coordinamento prevista fra queste due politiche è la rigida limitazione dell’autonomia di bilancio dei Paesi membri attuata dal Patto di stabilità, peraltro messo in discussione da vari governi, non ultimo da quello italiano. Si tratta di una forma di coordinamento rozza, che finisce per spingere l’Europa sulla via della deflazione, della mancata crescita e della disoccupazione. Un’altra forma del deficit democratico che mina l’Unione riguarda il quadro delle scelte relative allo sviluppo dell’economia europea: i singoli governi nazionali, e i parlamenti che li controllano, hanno perso di fatto ogni strumento di regolazione economica, mentre a livello europeo non esiste un governo e il parlamento non ha poteri. Oltre che rozzo, il coordinamento fra le politiche economiche fondamentali dell’Unione è anche fragile. Le tensioni che si manifestano fra vari governi e la Banca centrale e la Commissione in questi mesi di crisi economica mettono in pericolo il Patto di stabilità, rendendo più precario l’intero edificio dell’Unione economica e monetaria (UEM). In queste condizioni non mancano gli economisti che formulano una prognosi infausta sulla possibilità di sopravvivenza dell’euro, in assenza di un governo europeo. Il più radicale dei critici dell’esperienza europea, l’americano Martin Feldstein, giunge a predire non solo il fallimento dell’UEM e il conseguente tracollo dell’Unione europea, ma il venir meno di un risultato che gli europei danno per scontato dopo cinquant’anni di integrazione: la garanzia della pace in Europa, in seguito al superamento dei conflitti tra la Francia e la Germania.
L’urgenza della costituzione europea, oltre che dalla necessità di far fronte a queste sfide mortali, è imposta anche dall’esigenza di far partecipare l’Europa in condizione di protagonista alla soluzione dei problemi della salvaguardia della pace e del governo della globalizzazione, con responsabilità particolari in ordine alla lotta al sottosviluppo e alla protezione dell’ambiente. Spesso l’Unione ha difeso su questi temi posizioni più avanzate di quelle del governo USA, ma i risultati dei suoi interventi sono stati modesti, per mancanza di peso politico e per scarsa coesione dei Paesi comunitari.
Le posizioni che caratterizzano il dibattito politico all’interno della Convenzione sono articolate e travalicano in larga misura le divisioni tradizionali tra destra a sinistra, ovvero fra le forze di ispirazione conservatrice e quelle di ispirazione riformista, secondo le esperienze della lotta politica nazionale. Il criterio di distinzione che emerge è quello che contrappone i fautori di un avanzamento deciso del processo di integrazione e i difensori della sovranità nazionale. Lungo un continuum di posizioni che vanno dalla rivendicazione dello Stato federale europeo, da un lato, a quella della trasformazione dell’Unione Europea in una semplice area di libero scambio e al pieno recupero delle sovranità dei singoli Paesi, dall’altro, i lavori della Convenzione hanno messo in luce l’esistenza di due grandi poli di aggregazione, dal cui confronto emergerà la costituzione dell’Europa di domani. Da una parte troviamo il polo sovranista, che difende lo status quo e che anzi preme perché nella costituzione europea si consacri la preminenza del metodo intergovernativo, ovvero del mantenimento del potere di veto degli Stati. Dall’altra abbiamo il polo unionista, che si batte per estendere il metodo comunitario, per trasferire nuovi poteri all’Unione e per dar vita ad un vero e proprio Stato federale. Se il polo sovranista dovesse avere la meglio, l’Unione sarebbe condannata all’impotenza e alla disgregazione. La salvezza dell’Europa dipende dalla vittoria del polo unionista, ma anche dal contenuto che tale vittoria assumerà. Infatti, se il partito dell’unione si limiterà a riforme di facciata, che non intacchino il potere di ultima istanza degli Stati, i progressi saranno solo apparenti e la crisi sarebbe solo rimandata. Da tempo si conosce il minimo istituzionale che si richiede perché l’Europa possa avanzare: la formazione di un governo europeo, il pieno riconoscimento dei poteri legislativi del Parlamento europeo e la trasformazione del Consiglio dei ministri nel Senato degli Stati, come accade ad esempio negli USA e nella Germania federale. Sarebbe auspicabile che la costituzione europea fosse così chiaramente delineata, ma non è escluso che i padri costituenti europei adottino delle formule meno trasparenti. In ogni caso, la cartina di tornasole che ci farà comprendere se l’avanzamento c’è stato oppure no sarà la scomparsa del potere di veto degli Stati. Sino a quando un singolo Paese, quale che sia la sua dimensione, sarà in grado di bloccare il funzionamento dell’Unione, il pericolo di una disgregazione dell’Europa non sarà scongiurato.
Due ultime osservazioni. Come affermava Altiero Spinelli, l’Europa non cade dal cielo. I lavori della Convenzione procederanno nella direzione giusta solo se i cittadini europei, la società civile, i movimenti, le associazioni, le comunità locali, i sindacati, i partiti forniranno ai convenzionali che li rappresentano l’impulso politico corretto. Questo vale in particolare per il nostro Paese, dato che il governo Berlusconi-Fini-Bossi ha purtroppo sposato le posizioni del partito sovranista, facendo perdere all’Italia il ruolo tradizionale di Paese unionista, che ha sempre svolto negli snodi cruciali del processo d’integrazione. Occorre poi un’iniziativa politica per evitare che la costituzione varata dalla Convenzione venga fatta a pezzi e stravolta dalla Conferenza intergovernativa che la seguirà, come fanno temere le esperienze precedenti, che hanno portato ai fallimenti di Amsterdam e di Nizza. L’idea che sta emergendo di far approvare la costituzione decisa dalla Convenzione mediante una serie di referendum da organizzare in concomitanza con le elezioni europee del 2004 va approfondita, perché potrebbe essere quella risolutiva.


Torna indietro