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Quelli che il Giglio - di
Fabrizio Calzia
Prefazione
Di Beppe Nuti
Erano tanti anni che il mi’ babbo
aspettava quel giorno, un giorno che sembrava non arrivare mai, quasi fosse una
sorta di maledizione come il colore di quella maglia, viola, poco consona a chi
va a spettacolo.
Ma quel giorno arrivò, in una domenica d’inizio estate. Era l’anno 1956: il
giorno in questione fu quello in cui la sua Fiorentina, già matematicamente
scudettata e assolutamente imbattuta, giocava a Marassi contro il vecchio Genoa,
che di malasorte ne aveva avuta parecchia nella sua storia, una malasorte che
purtroppo troverà anche la squadra viola molti anni dopo.
Ma torniamo a quel pomeriggio: mio padre, un 60enne fiorentino nel cuore e
nell’anima, aveva scelto di vivere, poco prima della guerra, in Liguria e
precisamente a Genova Nervi, ci fece mangiare di fretta e furia, poi tirò fuori
dal cassettone una sgualcita bandiera viola dove capeggiava in mezzo un giglio
rosso. Mi prese per mano e con un vecchio tram (il 16 se ben ricordo) mi porto
al “Luigi Ferraris”. Alle 14,30 le squadre scesero in campo. Io, un bimbo d’ott’anni,
non mi rendevo ancora conto di quanto ciò significasse per quel tifoso,
innamorato in esilio, quell’incontro. Non sapevo cosa fosse il calcio (per me i
calciatori erano soltanto volti sulle figurine), ma quando Gratton porto in
vantaggio i viola sentii un urlo di gioia uscire dalla gola di mio padre
accompagnato, poi, da una lacrima che andava a scorrere sul suo volto rugoso.
Allora capii quanto fosse importante per lui quella squadra, quei colori, quella
fierezza di sentirsi fiorentino. E poco importo se incredibilmente il Genoa
finii per vincere quella gara per 3-1, facendo conoscere ai sorprendenti ragazzi
di Fuffo Bernardini l’onta della prima e unica sconfitta in un campionato
perfetto.
Da allora, anche se sono nato in riva al mare e non in riva all’Arno, il mio
cuore ha cominciato a battere per quella squadra. Tanti i nomi che sono passati
e che restano nella mia memoria di tifoso così lontano e così vicino dalla
Firenze gigliata. Fra i tanti campioni che sono passati in tre lustri di storia
voglio ricordare quel talentuoso argentino dal tocco vellutato e dal gol facile
(a cui il destino riservò momenti meravigliosi ma anche tragedie) che con quel
suo nome sembrava un predestinato nella città degli artisti: Michelangelo
Montuori.
Tante le gare che non dimenticherò mai, nel bene e nel male: le due sconfitte in
Coppacampioni contro il grande Real Madrid e il Celtic Glasgow; un esordio,
sempre in Coppacampioni, al Campo di Marte, sotto una pioggia torrenziale di
fine estate, con Maraschi che segna il prezioso gol della vittoria agli svedesi
dell’Oester; l’impresa di Kiev contro la forte Dinamo; ma soprattutto quel 2-0
sul campo degli odiati gobbi, che consentì alla Curva Fiesole trasferita a
Torino di festeggiare in anticipo, proprio in casa dei bianconeri, il secondo
scudetto con il “Petisso” in panchina. Io c’ero e, quando Chiarugi e Maraschi
segnarono i gol della vittoria, alzai al cielo un drappo viola (con giglio
rosso) cucito da mia madre; sì, proprio come 13 anni prima fece il mio vecchio
babbo al “Ferraris”. E guarda caso, proprio in quello stadio che vide la
sconfitta col Genoa nel ’56, come dimenticare l’incredibile pareggio con la
Sampdoria ottenuto quasi sul filo di lana, con una poderosa capocciata del
biondo Ferrante che batteva Battara nel ’69?
Corsi e ricorsi storici di un tifoso.
Oggi dicono che la Fiorentina non c’è più. C’è la Florentia. Ma per chi tifa
viola c’è stata, c’è e ci sarà sempre, la Fiorentina. La storia non si cancella.
Beppe Nuti
Giornalista, responsabile della redazione sportiva di Telegenova
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