Mizio Ferraris
Libero docente
Lettera a un preside

 

prefazione

 

di Tullio De Mauro

Più un libro funziona, più cammina con le gambe sue e la prefazione è concettualmente superflua. Serve, se serve, al prefatore, giustamente punito con l'ansia del trovare qualche cosa da dire in aggiunta a ciò che, in esplicito o in implicito, è già detto bene nelle pagine che seguono.
Ferraris racconta assai bene il suo viaggio dentro la scuola. Il finale, sulle difficoltà di riuscire a andarsene fino al ringhio all'impiegato della Banca d'Italia, è memorabile, quasi quanto il capitolo sul concorso. A parte questi e altri passaggi esilaranti, oltre il tono ironico che corre in ogni pagina, questa testimonianza dall'interno della scuola ha un pregio raro: viene non da un "umanista", come di solito, accade, ma da un insegnante di scienze. Eccezionale.
Il quadro della scuola che si intravede volge al cupo. E tuttavia, nelle sue ripetitività, cose anche assai serie e pertinenti: ha creato una tradizione di eccellenza planetaria nella scuola dell'infanzia, da Reggio a Scandicci; ha combattuto con successo il compatto analfabetismo di ritorno (e, spesso, anche di partenza) delle famiglie nella scuola elementare; in qualche modo, bene o male, è riuscita a portare fino al diploma secondario tre quarti delle ragazze e dei ragazzi figli di quel dieci per cento di popolazione senza alcun titolo, di quel trenta che ha solo la licenza elementare, di quell'altro trenta che ha solo le medie dell'obbligo, di quel settanta per cento che non legge mai un libro, di quel novanta per cento che non compra giornali. Un lavoro titanico, che in altri paesi si è svolto attraverso secoli, come in Europa, o con uno straordinario investimento non solo economico, ma sociale, intellettuale e morale come in Giappone, o nell'Unione Sovietica degli anni Venti e Trenta, o a Cuba. Da noi si è svolto in venti, trent'anni nella disattenzione, nel disprezzo per chi insegna. Ma, oltre questo lavoro nascosto, la scuola, come inatteso risultato collaterale, ci ha dato una serie di libri straordinari, umorosi, spesso esilaranti pur nella serietà dei loro apporti. Non sempre li ricordiamo abbastanza. Sono, per esempio, le Pistole d'Omero di padre Ermenegildo Pistelli (se le trovate, potete leggerle ancora e divertirvi e riflettere, anche se è passato un secolo, ma non sempre è passato dentro le aule) o Ricordi di scuola di Giovannino Mosca (che conta appena sessant'anni) o il Diario di una maestrina della Giacobbe o Le parrocchie di Regalpetra di Sciascia o le raccolte di Domenico Starnone o il Diario di Onofri. E taccio dei diari apertamente didattici e didascalici, e bellissimi tuttavia, di Mario Lodi e delle lettere sulla scuola e della grande Lettera di don Lorenzo Milani. E a scuola è nata la Grammatica della fantasia di Gianni Rodari.
Tutt'insieme questi libri, a volte crudi, spesso sferzanti, sempre ironici, lasciano trasparire l'esistenza (e l'efficacia) di un'altra pedagogia: quella dei maestri e degli insegnanti che crescono insieme ai loro alunni sulle vie dell'apprendere e ogni anno è per loro nuovo. Volente o nolente Ferraris appartiene a questa categoria e il suo libro entra di diritto nello scaffale ideale della pedagogia di non pedagogisti.
Gli auspici per una nuova scuola abbiamo cercato e dobbiamo con ferma pazienza continuare a cercare di trarli da rendiconti come questo.

 


 

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