Pino Daniele. Cantore mediterraneo - di Marco Ranaldi
 

Prefazione
di Renato Marengo

Pino è nato certamente a Napoli, probabilmente con una chitarra in mano, e non a caso a metà del secolo scorso. Giusto in mezzo tra i testi e le melodie di autori come Bovio, Di Giacomo, Murolo, Costa, Viviani, e tra rumori di traffico e di vicoli e ritmi di tammorre ritrovati nelle campagne dalla Nccp e da Roberto De Simone, il blues, quello vero, quello “niro niro” che suonavano i tanti marine e marinai americani nei localetti attorno alla base Nato del Porto di Napoli. In questo libro, scritto da Marco Ranaldi con rigore scientifico precisione cronologica da musicologo ma anche con la sensibilità del musicista, c’è tutta la vita, la musica, contatti, le mutazioni i perché uno nasce, cresce e diventa Pino Daniele. La gavetta, le tante esperienze, la ricerca di un proprio stile, la collaborazione con i più grossi musicisti internazionali, il successo e la voglia di insegnare ai più giovani. E poi il confronto con le ultimissime realtà napoletane come i 99 Posse che chiamano con affetto “Zio Pino” il grande musicista, l’autore della canzone più bella della seconda metà del secolo appena passato, Napule è, un delicato e fantasioso recupero della melodia passando attraverso le esperienze jazzrock e blues di Nero a metà. Pino, tra tutti gli esponenti di quel movimento musicale napoletano che io stesso, alla fine degli anni ’60 battezzai “Napule’s Power” (i “negri del Vesuvio”), è l’artista che meglio sintetizza le tante anime della musica, della poesia del ritmo e della melodia napoletani, che aggrega contraddizioni e contaminazioni che compie quel miracolo di “fusione” in quella commistione di generi che da secoli si accumula, si attorciglia, si amalgama in questa città posta al centro del Mediterraneo per consentire a Pino di tenere a battesimo quel “rock-arabe” nel quale finalmente si identifica e di cui è indiscusso “leader maximo”. Una melodia non sentimentalistica, quella ritrovata tra viuzze oggi ristrutturate della città porosa, ma piena di spiritualità e sentimento, un blues urbano lirico e sofferente, un inimitabile duetto tra una voce che si sincronizza magicamente con gli armonici della chitarra e con dita veloci che, mentre accarezzano le corde le percuotono con unghia e pennate scatenate da un ritmo ancestrale che accelera i battiti del suo generoso cuore e di quello di chi l’ascolta. E sono tanti, oggi i suoi ascoltatori, tanti i successi di Pino, tanti gli spettatori ai suoi concerti, gli acquirenti dei suoi dischi. Ma non è stato sempre così. Pare che la gavetta sia d’obbligo soprattutto per i grandi artisti. Ma a Napoli è peggio che altrove. A Napoli la gavetta la fanno tutti ma non è detto che poi si raggiunga il risultato prefisso. A Napoli tutto è più difficile, più faticoso, più “impossibile”. Credo che il detto “nemo profeta in patria” sia stato inventato proprio a Napoli. E Pino a Napoli dove tutti suonano e tutti cantano e tutti ti sono amici ma nessuno ti aiuta veramente, ha studiato, ha cominciato a farsi sentire, ha sognato di suonare con i suoi idoli, c’è riuscito, per esempio quando, giovanissimo, si è inventato bassista pur di suonare con James Senese, nero e napoletano come avrebbe voluto essere lui, certamente nero dentro e nella musica. Ma la storia, con molta più precisione di me, che pure l’ho vissuta, in questo libro la racconta bene Marco; io posso provare a ricordare con affetto ed ironia l’esordio e qualche tappa della carriera di Pino, cose accadute quando... “c’ero anch’io”. Come, per esempio, quando racconto nel libro Song’e Napule, che ho scritto assieme a Michael Pergolani con cui faccio “coppia fissa” da qualche anno anche in radio e in TV, della prima volta che ho visto Pino. Allora facevo il produttore discografico di Nccp, Toni Esposito, Bennato, Teresa De Sio, De Simone, Musicanova ecc.; (insomma di quasi tutto il Napule’s Power), il mio amico Claudio Poggi, critico musicale un giorno viene a casa mia al Vomero con un ragazzino coi pantaloni corti e mi dice di ascoltarlo. Ne ascoltavo tanti a Roma, a Milano ero umanamente sempre disponibile ma stare dietro a tutti quegli artisti, ai loro dischi, alla loro promozione era veramente arduo e mi assorbiva completamente. Ne ascoltavo tanti, soprattutto napoletani della generazione rock, quella che soffriva di più perché “capiva”, perché non si ritrovava con il mondo della canzone napoletana, tra sceneggiate e neomelodici e non aveva speranze se non come “emigrante” alla Troisi, cercando di farsi ascoltare dalle major, tutte a Milano, a parte la romana Rca. Il ragazzino in pantaloni corti non dice una parola, prende la chitarra e suona, e canta, a bassa voce, a mezza voce, proprio con quel falsetto che diventerà il famoso falsetto “alla Pino Daniele”. “Rena’ ma tu hai sentito?”. Mi dice Claudio. Avevo sentito, stavo sentendo, mi piaceva quello che stavo ascoltando ma mentre sentivo pensavo: “a chi potrei proporlo?”. Alla Ricordi, ma abbiamo già Edoardo Bennato, alla Rca, ma c’è Toni Esposito, Roberto De Simone, Patrizia Lopez, alla Cgd, ma c’è Concetta Barra e poi sono arrabbiati con me perché vorrebbero che gli portassi la Nccp, che sta alla Emi. La Emi... forse a Bruno Tibaldi potrebbe piacere Pino. Mentre pensavo lui cantava e suonava e mentre suonava e mi coinvolgeva io pensavo già a come dirlo alle “belve”, a quella famiglia allargata di cui ero diventato un po’ il papà, un po’ il produttore ma molto di più, a causa della mia insana passione per quella musica, “la vittima”. Mi piacque subito Pino. Lui finì di suonare e mi chiese “e allora?”. E allora... beh io non sono mai stato uno che dice “poi vediamo, lasciami il telefono, ti farò sapere” e tiene i ragazzi in sospeso, o prende tempo. Nel bene e nel male ho sempre detto subito sì, o no, solo sulla spinta emotiva, provocando spesso disastri soprattutto alla mia vita privata. Ma questa volta il problema era grosso: chi lo avrebbe detto a “loro”? Dissi a Pino che era bravo, che mi piaceva molto ma che non potevo subito impegnarmi in una risposta. Presi tempo, non era mia abitudine ma lo feci. Lo dissi agli altri... “ho scoperto un ragazzo eccezionale che...”. I commenti andarono da un “ma sì pazzo, già simmo assaie...” a “adesso chiunque prende una chitarra in mano vuo’ fare il cantautore”. Insomma anche se ero io a produrre loro, data la mia consueta disponibilità, mi diedero quasi un aut aut, mi dissero che 5 artisti erano già troppi per un solo produttore. Chiamai Claudio e gli dissi proprio la fatidica “Vorrei, ma non posso”. Però, e questo per fortuna Claudio lo racconta spesso, lo scrive, lo ricorda sempre, qualcosa feci comunque, per pura “passione”. Telefonai a Bruno Tibaldi, direttore artistico della Emi, al quale avevo già dato una mano per Alan Sorrenti e gli dissi di fissare un appuntamento a Claudio e a Pino perché “ne valeva la pena”. Pino firmò con la Emi e iniziò la sua carriera. E Claudio diventò anche lui produttore discografico. Pino mi è sempre stato grato, io l’ho anche aiutato ad affermarsi su “Ciao 2001”, bibbia del rock, mitico settimanale musicale del quale ero coordinatore. Poi ci sono stati altri momenti della sua carriera in cui ci siamo incontrati: era già famoso ma ancora “solo” tra i giovani rockettari quando gli feci pubblicare la prima copertina della sua vita su un grosso periodico musicale, “Tutto”. (Gigi Vesigna che oltre a “Sorrisi e Canzoni” dirigeva anche questo mensile, mi disse: “Ma Renato, possibile che anche se ormai non produci più napoletani e fai programmi su rock, pop, avanguardia, continui a propormi sempre napoletani?”. E Pino aveva appena pubblicato Nero a metà, uno dei suoi dischi più belli, uno dei più bei dischi italiani. E Vesigna e il mondo sanremese di “Sorrisi e Canzoni” ancora non lo conoscevano. Di recente, invitato da me e da Michael al nostro programma su Radio1 Song’e Napule, divo ormai tra i più noti della scena musicale italiana, nell’abbracciarci con l’affetto di sempre, rivolto a Michael ha detto: “Miche’, ma tu ’o ssaje che Renato nun me vulette? Io volevo farmi produrre da lui e isso nun me vulette, dicette ch’ero na chiavica...”. E risate e pacche sulle spalle. Beffa, ironia, insomma quando abbiamo scritto il libro Song’e Napule questo episodio l’ho raccontato intitolandolo “Mi sto ancora mangiando le mani”.


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