Edoardo Magnone  |  Enzo Mangini
La sindrome di Genova
Lacrimogeni e repressione chimica
 

prefazione

 

di Francesco Martone

La storia che si dipana nelle pagine che seguono è una di quelle che ricordano un gioco di computer, in cui con un clic del mouse si apre una finestrella e da quella, poi, se ne aprono altre finché non trovi una bombetta (ora, per essere politicamente più corretti, un fiore).
In questo caso è bastato raccogliere dal selciato di piazza Rossetti, sul lungomare di Genova che avevo conosciuto durante la mia campagna elettorale, un bossolo esploso di un candelotto lacrimogeno, per poi aprire una serie inaspettata ed emozionante di percorsi intorno ai quali si è poi sviluppata una vera e propria campagna di legalità, denuncia e sensibilizzazione pubblica. Già, perché questo libro non riguarda solo ciò che è successo a Genova, e che qualcuno forse non avrebbe voluto farvi sapere, ma anche un processo di cooperazione ed aggregazione spontanea, se non a volte casuale, che via via ha fatto crescere il caso, che da articolo pubblicato sulla rivista "Carta", è poi diventato una campagna, quella sulla "Sindrome di Genova". Ed ora si trova condensato in un voluminoso dossier nelle stanze dei palazzi della giustizia.
Per futura memoria vale la pena ricordare in questa breve introduzione, non solo i temi cruciali che stanno dietro alla questione "cs", ma anche condividere alcune considerazioni sulle modalità di lavoro e collaborazione che si sono rivelate così efficaci su questa tematica difficile e quanto mai scabrosa.
A Genova nei giorni di fine luglio 2001 si è consumata, con tutta probabilità, la più grande operazione di guerra chimica in tempo di pace che si sia mai verificata scientemente in Europa, o per lo meno in Italia. Si deve ricorrere agli almanacchi della storia per ricostruire nel nostro immaginario le chiavi di interpretazione del concetto di guerra chimica. Per uno strano paradosso della storia sarebbero stati proprio i soldati italiani ad usare massicciamente l'arma chimica nel corso della loro campagna d'Etiopia, mentre a Genova un altro tipo di arma chimica venne usata contro chi chiedeva un futuro più giusto e libero dal debito per i popoli di quel paese e di altri paesi devastati dalle ricette economiche e sociali neoliberiste.
Che di guerra chimica si è trattato lo dimostrano i numeri: c'erano migliaia di bossoli di alluminio per le strade di Genova, le stime parlano di oltre 6000 candelotti sparati in due giorni. Il gas cs sembra essere il comun denominatore della repressione poliziesca: usato a Seattle, a Québec, a Genova, come a Londonderry, Waco, a Seul, in Palestina, in Malesia, in Perù.
Dietro il cs si snoda una storia inquietante, fatta di studi medici, di testimonianze dirette, di morte. Una storia che si apre leggendo l'ultimo libro di Gore Vidal, La fine della libertà - verso un nuovo totalitarismo?, nel quale si parla della strage di Waco, quando il 19 aprile del 1993 gli agenti dell'fbi posero fine al lungo assedio alla sede della setta dei Davidiani, usando gas cs e carri armati. Secondo alcune analisi, fu proprio il cs a innescare l'incendio nel quale morirono 82 Davidiani. O quello di Chalmers Johnson Gli ultimi giorni dell'impero americano che ci racconta non solo del "blowback" ovvero del ritorno di fiamma che si ritorcerà contro gli Stati Uniti a causa della loro politica da guerra fredda, fatta di volontà di potenza e di violazione dei diritti umani fondamentali, ma anche dell'uso sproporzionato di gas cs nel conflitto del Vietnam ed in Corea del Sud.
Che di arma da guerra si tratti ce lo dimostra il fatto che la simad spa, l'unica produttrice italiana di gas cs, ha esportato questa sostanza in Francia, Libano e Bangla Desh, grazie al sostegno finanziario di banche quali la Banca di Roma e la bnl. E che noi possiamo saperlo solo perché grazie ad una legge, (la 185 del 1990, che il governo di centrodestra vuole rendere inefficace ad esclusivo interesse delle lobby dell'industria degli armamenti) il Parlamento ha diritto di essere informato, con un rapporto annuale, di tutte le transazioni commerciali e bancarie e le esportazioni di armamenti per uso militare.
Dopo Genova il cs ce lo saremmo poi ritrovato in maniera paradossale anche nella lista inviata dal Ministro della Salute Sirchia riguardante gli aggressivi chimici che potrebbero essere utilizzati dai "terroristi" islamici contro obiettivi occidentali. Poi nelle testimonianze di decine di "vittime", intossicate che da tempo accusavano strani malesseri ma che non pensavano di poterli ricondurre ad un comun denominatore. Sono loro la prova vivente della non fondatezza degli argomenti portati dal Governo riguardo alla presunta "reversibilità" degli effetti dell'esposizione ai cs. Sono loro che hanno deciso di uscire allo scoperto e di parlare anche per conto delle migliaia che, per caso o per fortuna, non si sono trovate nelle fitte nubi provocate dal lancio contemporaneo di vari candelotti e, quindi, nel bel mezzo di concentrazioni potenzialmente letali di gas.
La campagna sulla "Sindrome di Genova" è nata così, dalla convergenza simultanea di diversi percorsi di ricerca della verità e della giustizia. Un cammino comune, di "messa in rete", reso possibile dall'uso di Internet, un lavoro che abbiamo affrontato e continueremo ad affrontare ai vari livelli, nel rispetto reciproco dei nostri ruoli e delle nostre competenze.
Da quello parlamentare, che è quello che a me compete (e nel quale ho trovato altri alleati viste le tante interrogazioni sui gas lacrimogeni presentate in seguito alle nostre denunce), a quello legale, a quello scientifico ed a quello dell'informazione. Di avvocati del Genoa Legal Forum, di ricercatori e scienziati di alto livello, e di coraggiosi giornalisti che hanno saputo comprendere l'importanza non solo simbolica della questione.
Chiediamo verità sulle sostanze utilizzate dalle forze di polizia e sui loro effetti sulla salute di tutti, cittadini, dimostranti (termini che in questo caso sono sinonimi, finché la libertà di dimostrare pacificamente rimane uno dei diritti fondamentali di cittadinanza, considerando anche che Genova era allora quasi deserta, senza i suoi abitanti fuggiti in gran parte dopo una intensa campagna di demonizzazione dei movimenti) e per ultimo, ma assolutamente non da meno, delle stesse forze dell'ordine e di chi lavora nelle fabbriche produttrici.
Vogliamo sapere perché nessuno ha avvisato i cittadini sui rischi correlati all'esposizione da gas cs, come è stato fatto, in altre occasioni, all'estero. O perché si sia lasciato utilizzare questa sostanza in gran quantità senza che esistano, tuttora, prove certe ed inconfutabili della sua relativa innocuità. Perché secondo un principio di diritto consolidato a livello internazionale, il cosiddetto principio di precauzione, non dovrebbe essere nostra competenza dimostrare che lo sversamento, in questo caso neanche tanto accidentale, di una sostanza chimica abbia avuto degli effetti deleteri. Piuttosto avrebbe dovuto essere chi era responsabile della questione a dimostrare che il cs non fosse nocivo alla salute umana.
Chiadiamo giustizia perché questo dei gas cs è solo uno dei percorsi che si sono dipanati da quei giorni, che Amnesty International ha giudicato essere giorni caratterizzati da violazioni dei diritti umani tra le più gravi verificatesi negli ultimi anni in Europa. Restano, infatti, tutte aperte altre questioni; sopra a tutte quella cruciale, relativa alle responsabilità politiche dei fatti, da accertare chiaramente a prescindere dalla loro colorazione, attraverso una Commissione di Inchiesta Parlamentare.
Per quanto riguarda il "movimento dei movimenti" come qualcuno ha deciso di voler ribattezzare questa esaltante, variegata, a volte contraddittoria, ma comunque viva e densa di contenuto, moltitudine di soggetti e soggettività, individui e realtà associative, che in Genova ha trovato il suo punto massimo e forse irripetibile di confluenza, una cosa va detta. Ha riconosciuto pubblicamente o implicitamente alcuni errori compiuti, tant'è che le modalità di mobilitazione e presenza in piazza sono in buona parte lungi da quelle annunciate ed in parte poi usate, per lo più per scopi mediatici, prima e durante le giornate di Genova. Ed in tutto questo i cosiddetti Black Bloc sono ben altra cosa. Il nostro percorso deve necessariamente passare da questo processo salutare – non certo facile e tuttora in corso – di presa di coscienza, di elaborazione di pratiche di mobilitazione innovative ed inclusive. Deve passare dal rinnovato impegno, di molti parlamentari, per far luce, una volta per tutte, sui fatti di Genova e dall'importante lavoro dei magistarti e dei legali.
Gli strumenti legislativi e giudiziari sulla carta ci sarebbero già: approvazione in tempi rapidi del disegno di legge sul reato di tortura, a quello sulla identificazione delle forze dell'ordine coinvolte in operazioni di ordine pubblico, a quello sulla formazione alla gestione e prevenzione non violenta dell'ordine di piazza, al sequestro cautelativo su tutto il territorio nazionale dei gas cs.
Resta forse il compito più arduo, quello, cioè, di creare le condizioni per l'apertura di un confronto costruttivo con i rappresentanti dei lavoratori delle forze dell'ordine per ricucire e recuperare un rapporto con la società civile, nel rispetto della legalità e dell'agibilità democratica di tutti.
Tutte aspettative e domande che continueremo a porci ed alle quali il governo non ha mai voluto dare una risposta coerente ed adeguata.
 
Francesco Martone
Senatore Verde

 


 

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