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Primari a
delinquere?
La corruzione investe i camici
tra 'dazione ambientale
e crescente amoralità
un libro di Paolo Cornaglia Ferraris
Le troppe variabili sul diritto alla salute
brani scelti dal sesto capitolo del libro
Discutere di etica, responsabilità, autonomia professionale e garanzie di terzi
sembra la conclusione migliore, dopo questi terrificanti cinque capitoli. Sono,
infatti, i temi che nella professione medica stanno subendo rapidi e spesso,
turbolenti mutamenti. L’argomento è ampio ed è bene ragionare solo sulle cose
che appaiono essenziali.
Il rapporto tra medico e persona malata ha valenze etiche che non possono subire
stiramenti, strattonamenti o intrusioni mercantili, in quanto lo status di
malato è fatto di fragilità, dipendenza e totale affidamento.
Nessuno più del malato, inteso come persona non più in grado (anche se
temporaneamente) di fare affidamento solo su se stessa, è fragile nel confronto
con la realtà che lo circonda.
Il medico chiamato a curarlo e possibilmente guarirlo, assume subito una
posizione di netto predominio su quella persona perché è in grado di guidarlo,
condurlo o renderlo suddito di qualunque ipotesi o proposta.
Se ciò è vero, come ciascuno potrà riscontrare nel proprio vissuto, è vero che
il medico deve stare molto attento a ciò che dice e fa, in un momento in cui la
cultura ed il sapere medico corrono molto più della capacità di aggiornamento
individuali. Ma ciò che dice e fa, oggi, è condizionato fortemente da quanto si
può spendere. E se poco si può spendere perché scarse sono le risorse pubbliche
(rapinate) o modesto è il contributo del malato (operaio, impiegato,
disoccupato), la questione si fa automaticamente iniqua e fa sì che il rapporto
di fiducia abbia difficoltà a nascere, tanto più a crescere e consolidarsi nel
tempo.
Dentro il rapporto tra medico e persona malata, infatti, s’è fatto strada, con
modi sempre più invadenti, la considerazione di quanto costa ciascuna delle
decisioni mediche, la cosiddetta “variabile costo”. L’analisi del costo del
percorso che si decide d’intraprendere per chiarire la diagnosi o affrontare la
terapia, sta, a ben vedere, prevaricando considerazioni di tipo etico,
tradizionali della medicina.
» opportuno spiegare meglio. Siamo di fronte ad una realtà evidente di aumento
del numero assoluto degli anziani; la popolazione superiore ai 65 anni salirà
percentualmente tra gli assistiti nel corso dei prossimi 10-15 anni, e toccherà
il 20% entro il 2015. Ciò significa che poco meno di una persona su quattro, a
quella data, consumerà risorse sanitarie in modo proporzionale a quanto oggi
accade; sappiamo già, infatti, che sono proprio costoro a consumare la maggior
parte delle risorse sia nel settore diagnostico che terapeutico e riabilitativo.
Si tratta di uno dei grandi successi dell’organizzazione civile occidentale, che
prevede fogne, acqua potabile e pubblica sanità organizzate per permettere a
tutti i cittadini di non morire precocemente, ambizione che ciascuno desidera
nutrire per se stesso ed i propri cari. Ma questa condizione, oltre a generare
anziani, genera anche un grande numero di malati cronici; bambini nati
prematuri, ammalati di diabete o fibrosi cistica, perfino malati di tumore,
vivono oggi anni e decenni in più rispetto al passato, comportando un carico
economico crescente alla comunità. Un successo enorme di civiltà, ma un costo
aggiuntivo innegabile.
Dal momento che il boom demografico degli anni ’50 e ’60 determinerà, in numero
assoluto, una situazione mai vista in Italia, con costi sanitari proibitivi
proprio per l’alto numero di settantenni, ottantenni, disabili o solo
parzialmente abili, la situazione economica che si verrà a creare è chiara sin
da oggi: non ci saranno (e già non ci sono più) i soldi per curare tutti
gratuitamente. Le persone saranno obbligate a partecipare al pagamento in modo
sempre più consistente, se vorranno tutelare la propria salute e quella dei loro
cari.
Ciò che è accaduto negli Stati Uniti allarma su quanto potrebbe accadere anche
da noi, soprattutto se guidati da un governo “innamorato” delle politiche USA.
Il medico di fronte al problema di salute dell’anziano, del cronico o del
disabile si trova a scegliere tra ciò che ritiene eticamente corretto,
professionalmente o scientificamente ottimale e ciò che invece può fare davvero.
Spesso le due cose contrastano perché nessuno può o vuole pagare, né lo Stato,
né l’assicurazione, né tanto meno la persona malata; quindi, per farla breve, il
medico dice: “io so che tu dovresti fare la TAC, la risonanza magnetica,
l’ecografia, perché così otterremo una diagnosi migliore, ma il costo da
affrontare è 100, lo Stato passa solo 40. La tua assicurazione copre il restante
60 o sei tu che hai i soldi per farlo? Se la risposta è no, accontentiamoci di
una diagnosi alla vecchia maniera e che Dio ce la mandi buona!”
Il ragionamento del medico, in termini etici, si sposta da una valutazione
condotta tra scienza e coscienza ad una basata sul rapporto
scienza-costo-beneficio, nella quale la coscienza è inevitabilmente compromessa.
Se entro tali confini, la percezione della figura del medico è quella di chi ha
confessato d’essere “corrotto”, o perlomeno interessato mediatore d’affari
farmaceutici o collettore di tangenti per valvole, protesi ed affini, la cosa
diventa ovviamente inaccettabile. Perché la negazione della prestazione o la
proposta di ridurla al minimo indispensabile non è dovuta alla mancanza di
risorse ma alla sottrazione truffaldina delle stesse.
In un clima siffatto, la ovvia conflittualità che la “variabile costo” inserisce
è importante da comprendere e dimensionare entro i limiti che possono essere
compresi e negoziati. Cittadini e medici italiani, ma anche quelli dei paesi
occidentali che si sono caratterizzati per un servizio sanitario pubblico
gratuito sino agli anni ’90, sono chiamati ad intervenire su tale situazione e
dibatterne in modo costruttivo, perché le violenze morali che ciascun medico
potrebbe subire o far subire ai malati saranno notevoli.
Lo studente e lo specializzando americano, secondo un campione di 3.500 persone
intervistate in varie università, ritengono che curarsi presso medici
convenzionati con le assicurazioni sia molto rischioso e sono convinti, di
conseguenza, che il libero professionista, che non fa alcun riferimento al costo
di ciascun atto medico quando deve prendere una decisione, è il medico buono; il
medico che invece, dentro un servizio sanitario organizzato, o dentro
un’assicurazione privata organizzata ha come criteri di scelta la valutazione
del costo è un medico mediocre.
Questo, in prospettiva, significa che negli USA esiste già una chiara
distinzione tra la sanità per chi non paga e la salute per chi paga; due classi
sociali, due aree sanitarie distinte, caratterizzate da un andamento
progressivamente più iniquo che sta, per l’ovvia salita dei costi della moderna
medicina, interessando ormai anche le classi produttive del paese, dirigenti
inclusi.
Questa iniquità sociale ha messo radici anche in Italia; la riforma del
centro-sinistra e la controriforma del centro-destra l’hanno accettata e
addirittura formalizzata, definendola per legge, quando hanno stabilito che chi
paga l’attività del medico intramoenia, supera le liste d’attesa ed è trattato
meglio; chi vuole superare la lista d’attesa, si rivolge ai privati e chiede poi
il rimborso. Si è non solo prospettata ma realizzata una situazione per la quale
l’anziano, il cronico, il disabile di serie A accede alla “salute” perché può
pagare, mentre quelli di serie B accedono alla “sanità”, e cioè a quanto passa
il convento. Iniquo a tal punto da apparire antidemocratico e antisociale,
soprattutto quando si pensa a bambini e disabili o cronici, ed a qualunque altro
cittadino che affronta già spese notevolissime e disagi lunghi una vita intera
per la sola necessità di medici e medicine.
Non vorremmo mai che il concetto di sanità assuma significato negativo per il
giovane medico che accede alla professione, mentre quello di “salute” sia
associato al denaro, e cioè a diagnosi e terapie non limitate dai costi. Eppure,
nonostante tutto, l’anno accademico 2002-2003 ha registrato un enorme aumento di
richieste di iscrizioni alla Facoltà di Medicina e Chirurgia. Perché?
C’è di sicuro un “modello di medico” nella testa di ciascuno dei ragazzi che
vuole fare il medico, tanto importante da essere capace di spingerli ad
affrontare dieci durissimi anni di studi, tra laurea, specialità, parcheggi e
frustrante pressappochismo accademico italiano. Neppur li ha sfiorati l’idea dei
centomila medici attualmente disoccupati, o dei tanti frustrati, traditi da un
sistema che non forma, non aggiorna e taglia servizi, creando iniquità. Un
modello in testa, ma quale? Sono forse affascinati dall’avventurosa vita di
medici straordinari, balzati all’attenzione dei media? Hanno in mente Gino
Strada, l’ortopedico da trincea o James Orbinski, l’umile presidente dei “Senza
Frontiere” o ancora l’austero chirurgo Umberto Veronesi, orgoglioso ministro del
gran rifiuto? Qualcuno ha letto di medici eroi del passato, di Albert Schweitzer,
missionario laico, fondatore del lebbrosario di Lambarené, Ernesto Guevara, il
“Che” guerrigliero, o dei grandi scienziati che hanno cambiato i destini
dell’umanità?
Non ci sono certezze interpretative, ma c’è da temere che una grande
responsabilità del numero enorme di aspiranti medici sia da ricercare nella tv.
Proprio così: le insulse immagini buoniste del “Medico in Famiglia” e quelle
rampanti di ansiogeni semidei entro i camici di “ER - Medici in prima linea”,
hanno probabilmente avuto effetti da spot commerciale. Abituati a sorbirne per
ore sin dalla più tenera età, è probabile che molti dei nostri ragazzi credano a
modelli fasulli. Fiction, finzioni o fesserie, per l’appunto.
Ben vero è anche che una minoranza, pragmatica e privatasi da subito di
adolescenziali pindarici voli, entra in Medicina per seguire le solide orme
parentali. Scivolerà sulle ali d’un radicato nepotismo d’accademia, (quanti sono
i figli dei professori di medicina che non hanno passato la selezione?), d’una
confortevole certezza da studio privato, d’un solido patrimonio accumulato su
denti da rifare, malattie vere, chirurgie inutili, malattie presunte o inventate
di chi può pagare.
E allora, per le matricole 2002-2003, spaventate da questi “primari a
delinquere” e dai troppi scandali qui commentati, desidero spendere poche parole
per dire che tutto ciò non può riguardare nessuno di loro, perché hanno scelto
un futuro straordinario! Non è uno scherzo! Nessun futuro medico deve, infatti,
scoraggiarsi, ma rinforzare, invece, la sua coraggiosa scelta. A patto,
ovviamente, che si senta tagliato per fare il medico e non abbia timore di
tornare sulla scelta qualora s’accorgesse d’aver sbagliato. Nessuno deve
vergognarsene a vent’anni! Già, perché è chiaro e perfino ovvio che non tutti
possono fare il medico perché non molti hanno l’attitudine a spendere la propria
esistenza “nell’interfaccia tra sapere e dolore”. Questa, e solo questa, è la
vita di un medico. L’espressione è di Giorgio Cosmacini tratta dal suo libro Il
mestiere di medico, (Ed. R. Cortina 2001).
Quella professione non è da impiegato, né da finto ricercatore in parcheggio,
non è corsa all’accaparramento della posizione meglio pagata, e neppure
avventura, trincea o carriera e neppure sogno di diventare chissà quale
importante personaggio. Per i più, invece, è faticosa rincorsa all’ascolto dei
bisogni di chi chiede, è superamento di ostacoli posti dall’incertezza, è
negazione di un’arroganza che insegna a nascondere e bluffare. » obbligo etico a
studiare tutti i giorni ed a cercare col malato il punto d’equilibrio tra la sua
storia di persona, il suo dolore, la propria scienza, la propria capacità di
distinguere quella vera da quella presunta, l’empirismo dei più saggi,
l’esperienza di chi insegna, la ricerca di buonsenso.
“La medicina non è una scienza, ma una pratica basata su scienze, che opera in
un mondo di valori, dotata di un proprio sapere, diversa dalle altre tecniche
perché il suo oggetto è un soggetto: l’uomo” (così Giorgio Cosmacini). Quell’uomo
ammalato manifesterà segni e denuncerà sintomi. Scoprirli e distinguerli è
compito del medico.
Chi insegna tutto ciò sono i libri (in inglese) e l’esempio dei più umili.
Imparare a distinguerli dagli arroganti, così diffusi in Facoltà, è il primo ed
importante criterio per diventare un medico capace. Star lontano dai disonesti è
il secondo. I modi operati da questi ultimi, infatti, violano lo spirito
benevolo della medicina e la stessa qualità delle cure. L’arroganza fa molti
danni e persiste tra generazioni, spinta dal sistema e, purtroppo, dagli stessi
malati. Sono loro, infatti che cercano “il luminare”, pretendendo che sia
“ministro onnipotente e salvatore”.
Ma la futura capacità di curare non passa solo dal genoma e dalle tecnologie.
Percorre, piuttosto, la strada di chi imparerà che non si esagera mai nel
ridimensionare l’importanza di ciò che fa da medico. Quando i più bravi,
attenti, scrupolosi ed aggiornati medici sapranno d’essere soltanto “strumenti”
di guarigione e mai “fonte” di salute, la medicina avrà espresso la sua reale
maturità.
Ciò detto a neofiti, non v’è dubbio che la responsabilità del medico, in un
simile contesto, si è molto diversificata perché è cambiato il rapporto tra
persona malata e persona che eroga la prestazione sanitaria. Come?
Il medico di 30 anni fa, quasi sempre affabile padre-padrone, era, nel vissuto
comune, la persona competente non solo sulla malattia oggetto del rapporto di
quello specifico momento, ma su un gran numero di malattie, se non sulla quasi
globalità delle conoscenze mediche ed umane. Era una persona sulla quale era
facile e quasi automatico riversare la propria fiducia; era il medico di
famiglia capace di decidere per il nostro bene e, senza dubbio, seguendo solo la
propria coscienza. C’erano poche possibilità di equivocare sul suo ruolo di
responsabile come guida del percorso di salute.
Tale situazione ha cominciato a cambiare da 30 anni a questa parte, forse un po’
prima nelle grandi città, con l’evoluzione e la rapidità della tecnologia
applicata ai percorsi di diagnosi e di terapia. » accaduto, infatti, qualcosa di
piuttosto semplice: il medico di famiglia è diventato una persona incapace di
gestire la complessità delle conoscenze e si è trasformato in una specie di
impiegato, di sportellista, di burocrate con attività da spedizioniere: mal di
testa? Neurologo; mal di pancia? Gastroenterologo; mal di qualche altra cosa?
Cardiologo. Se proprio non si capisce, si manda la persona dallo psichiatra.
Questo medico non è affidabile, non è responsabile, ha perduto la posizione di
persona che totalmente e responsabilmente si fa carico del malato e delle ansie
dei suoi familiari. Il carico professionale della guida e della conduzione della
persona malata è stato, di conseguenza, scaricato e suddiviso tra specialisti.
Ognuno di essi si fa carico della piccola porzione che lo riguarda: il radiologo
dell’interpretazione della TAC, il cardiologo dell’elettrocardiogramma o poco
più... ma nessuno si fa carico della persona, che quindi viene sballottata in un
circuito nel quale essa stessa è obbligata a coordinare gli interventi,
affidandosi a chi? a che cosa? A “Elisir”, forse, ai finti medici ed ingessati
professori di Luciano Onder al TG2 o ad altre trasmissioni televisive ed ai
giornali che possano suggerirgli qualcosa sulle caratteristiche della sua
malattia. I più evoluti si affidano ad Internet, dove si trova tutto e il
contrario di tutto, esattamente come accade a chi sfoglia riviste come sano,
bello, liscio abbronzato, agile, scattante. Strano! Non c’è mai una rivista che
parla di vecchi decrepiti che, vista l’evoluzione dell’età media, sarebbe
certamente più utile.
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