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Linguaggio e
proverbi marinareschi
di Emanuele Celesia
Le prime pagine del libro
Sulla costa orientale a poche miglia da
Genova, siede murata sul mare, Camogli, terra operosa e ricca se altra fu mai. È
munita di un porto che guarda verso ponente, e d’un molo ove si ormeggiano le
navi, e che lo ripara alcun un po’ dalle folate de’ venti. Quando soffiano
impetuosi i rifoli di tramontana e di greco, impedendo ai legni l’approdo di
Portofino e di Genova, e’ trovano in questa stazione un ben sicuro ricetto.
Il nome de’ Camogliesi e il loro ardimento son noti e celebrati per ogni dove.
Niuna città meglio di questa Amalfi novella seppe comprendere la forza che viene
dall’aggregare i piccioli capitali a compiere grandissime imprese. Su queste
prode, ove sortiva la culla l’eroico Nicoloso da Recco, vive il tipo dei più
intrepidi marinari ch’abbiano mai solcato l’oceano. E non gli uomini soltanto
hanno i flutti in conto di vera lor patria, ma le donne istesse fan talmente a
fidanza col mare, da crederle non degenerare seme di quelle Liguri antiche, di
cui diceano i Romani – aver esse l’ardimento degli uomini, come gli uomini la
vigoria delle fiere.
Udite memorabile caso. Correva il 24 aprile del 1855, e il Cresus,
vascello inglese portentoso per l’ampiezza delle sue forme, carico d’armi e di
salmerie destinate all’esercito che combatteva in Crimea, riparava, balestrato
dalla tempesta, nell’acque di San Fruttuoso. Fischiava il maestrale, così fiero
ne’ nostri rivaggi, il quale sforzando le gabbie, i trevi, la randa e la
trinchettina, rendeva impossibile il governo della nave. Invano i marinai davano
opera ad arridare sartie e stragli, a ghindare alberetti di gabbia, a stendere
le velaccie, le velacine, i coltellacci a gli scopamari; ogni loro prova era
vana. Ben avevano cignato i palischermi, trincato l’albero di rispetto, tesato
le manovre correnti e mainato le grandi antenne per issar le vele di fortuna; il
mare infuriava più minaccioso, e il povero legno, persi tutti terzaruoli e
archeggiando di bolina, vedeasi quasi perduto. In così fiere distrette una voce
tremenda fra il sibilo degli aquiloni e lo scrosciar delle vele s’udì echeggiare
sulla tolda – Il fuoco! Il fuoco! – E una colonna di fumo tra cui vortici
scopiettavano innumerevoli scintille, dava indizio certissimo che le fiamme
eransi appiccate alla nave. Si ebbe sul primo speranza che l’incendio potesse
venir tosto domato dai potenti ingegni ond’era fornito il naviglio; infatti si
pose mano alle trombe, affaticandosi in mille guise i marinai a soffocare le
fiamme. Ogni sforzo dovea cadere infruttuoso. Le vampe ringagliardite dalle
rafiche di tramontana guizzano su per le sartie sino al calcese, e fanno impeto
in ogni parte del ponte; cade incenerita l’attrezzatura degli alberi e delle
vele, e in più luoghi l’istesso cordame già sta per ardere; l’opera dell’uomo
omai torna impotente contro quella furia divoratrice, che con mille lingue di
fuoco slanciasi ovunque. Le strida, gli urli, i clamori vanno alle stelle.
Cadeva la sera. Al tetro baglior delle fiamme riverberate sui flutti, vedresti i
marinai esterefatti gittarsi ne’ palischermi, e allontanandosi a voga arrancata,
far prova di superare le ondate smaniose e afferrare le sponde; ma invano pur
troppo; ché grossi marosi venendo lor sopra gli tranghiottian negli abissi.
Gli uomini di San Fruttuoso discesi sul lido contemplavano intanto l’orrendo
spettacolo e fremendo di rabbia stracciavansi i capelli, per non veder modo a
portar soccorso di sorte alcuna a quelle vittime dell’acqua e del fuoco. I più
animosi erano bensì corsi a sferrare i loro burchielli, e gittatisi in essi
avevano tentato, punzando sui remi, di rompere l’impeto de’ cavalloni furenti;
ma, eccoti, scostati appena dal lido, onde gigantesche spinte da fiero rovaio,
rovesciarsi sui navicelli e affondarli. Taciti e con le pugne serrate i
superstiti guardavansi in volto, e talora una fiera bestiemma irrompeva dalle
lor labbra, per non poter dimostrarsi, quali erano veramente, gagliardi di
cuore; quand’ecco scivolar loro dinanzi, quasi aereo fantasma, un leggiero
schifetto, che ora elevandosi sulle creste de’ flutti, or ruinando ne’ cavi
gorghi, traeva alla volta di quel gigante dell’acque, omai converso in un
ardente vulcano. Al sinistro lume dell’incendio vedeansi in questa saettia due
giovani donne, che con robusta mano battendo dei remi, parea comandassero ai
flutti; correndo a golfo lanciato s’appressarono al Cresus, e quasi
prendessero a scherno i vortici delle fiamme irrompenti e la furia dell’onde,
agevolarono a molti de’ naufraghi un modo di scampo. Maria e Caterina Avegno si
è il nome delle liguri eroine. L’infelice Maria, più l’altrui che la propria
salvazione curando, lasciava in quei pelaghi miseramente la vita.
Pochi istanti appresso, la nave più che a mezzo combusta, girando in globo sopra
se stessa, inabissavasi nelle profondità del mare.
Su queste rive, e proprio in Camogli, viveva nel 1859 Emilio Schiaffino, che
reduce da lontani viaggi, traeva in onesta agiatezza, frutto di lunghi traffici
marinareschi, i suoi giorni. Toccava allora i cinquant’anni d’età, ma forte e
spigliato di membra, abbronzato dal sole de’ tropici e sciolto ne’ modi, era,
sotto ruvida scorza, la miglior pasta d’uomo che mai. I marinai di Camogli, di
Recco, di Santa Margherita e di Rapallo lo avevano in conto del più sperto
capitano di nave de’ tempi suoi; a lui facean capo ne’ casi di grave momento,
lui consultavano prima d’avventurarsi in qualche viaggio ed eleggeano arbitro
nelle questioni delle stalie, delle carature, delle avarie e de’ noleggi che
talora sorgeano: e gli armatori non ponean mano alla costruzione di un naviglio
qualsiasi, se innanzi tutto e’ non avesse giudicati per buoni i disegni,
l’attrezzatura e perfino il legname.
Non eravi uomo da quanto lui per conoscere il mare. Lo si vedeva quando il cielo
buttavasi al tristo, incamminarsi lungo le prode e fiutar la tempesta. Che è
quel punto nero là in fondo? È una nave che lotta disperatamente co’ flutti; è
uno schifo peschereccio che non può arrivare la spiaggia. E tolti senz’altro con
sé due compagni, e talora anche solo, saltava sul primo guzzo che gli dava tra i
piedi, staccavane il canape, e abbrancati i remi, giù un’arrancata, e via di
lungo sugli irati frangenti. Lo vedeano dal lido questo lupo di mare salire,
discendere e salire di nuovo sulle onde arruffate, e in mezzo al turbine, saldo
sul palischermo, abbordare il legno in pericolo, e aprirgli una qualche via di
salvezza.
Egli aveva lunga pezza meditata e fatta sua la sentenza di Franklin, il quale
c’insegna esser debito nostro d’onorare il mare, non solo come fonte inesausta
di materiali vantaggi, ma eziandio come educatore possente del sentimento
morale.
Quanto l’umano intelletto, ei pensava, non si è affinato nel veleggiare
l’oceano! Quanto le sue facoltà non si rinfrancarono nel combattere contr’esso!
Di quai severi ed utili insegnamenti non ci fu dispensiero! Qual tesoro di
cognizioni, d’esperienza e di saggezza dove l’uomo acquistare, anzi che egli
potesse spiegar le sue vele sulla distesa dell’acque, solcarle colle sue navi
per ogni verso, esplorare le coste irte di promontori e di bricche, misurarne le
sterminate voragini, tramutare infine l’Atlantico, sto per dire, in una strada
ferrata! Eppure v’ha qualche cosa di più sublime che il mare istesso, e questa
eziandio è opera sua: la potenza intellettiva che il mare ha svolto in coloro
che lui s’affidarono, fino al giorno in cui lor fu dato di stendere la vittrice
mano sulla sua ondosa criniera, e calcolare, quasi problema algebrico, il
cerchio annuale de’ suoi turbini, sottoposti pur essi ad un movimento di
rotazione e a una legge indeclinabile, al pari di quella che governa il corso
delle comete e degli astri.
Assorto in questi pensieri, ei divisava continuo il modo di migliorare le
condizioni della gente di mare, e rigenerarle a nuova vita. E invero i nostri
marini, dal capitano fino all’ultimo mozzo, quanto erano valenti di braccio e
capaci di governare per sola pratica una nave fra traversie d’ogni fatta,
altrettanto andavano quasi digiuni di quelle cognizioni scientifiche, che pur si
richieggono a formare un intrepido capitano, un destro pilota, un buon marinaio.
Oggidì l’arte nautica è una scienza, anzi un complesso di scienze
difficilissime, le quali hanno il lor fondamento non tanto sull’esercizio del
navigare, quanto eziandio sopra i libri. Ed ei, lo Schiaffino, che gran parte
della sua giovinezza avea speso sui legni americani ed inglesi, e conosciuto di
quanto sapere andassero forniti i loro equipaggi, non potea mandar giù in santa
pace la crassa ignoranza, che in Italia ancora offendea la gente dedita al mare.
Inoltre; le povere condizioni del semplice marinaio lo affligevano d’assai;
poiché se è a sperare, ei pensava, che le molte scuole nautiche, ond’è ricca
l’Italia, possano dare al paese una generazione di naviganti che risponda alle
necessità odierne, e tale da rivaleggiare colle altre nazioni, il misero
marinaio che non può usare tai scuole, e che va privo perfino dei primi elementi
di lettere, trarrà sempre povera e grama la vita. Così questa classe tanto
benemerita de’ nostri commerci, di costume integro ed onesto, fiera come leone e
in un mansueta pari all’agnello, esempio d’ogni virtù religiosa e domestica,
questa classe che incallisce sul remo e il più tempo disgiunta da cari suoi, si
nutre di un frusto muffito per raggranellare di che sostentare la moglie diletta
e i figliuoli, non troverà mai chi la sollevi alla vera dignità di uomo.
I suoi disegni d’avvantaggiare le sorti dei marinai e di educarli possibilmente
alla scienza, erano il lui raffermati da quotidiani avvenimenti che vieppiù lo
accendeano nella sua fede.
Lungo la spiaggia di Sori sorge a uscio e tetto un abituro, che diresti privo di
ogni ben di Dio. È notte alta; sovra un nudo giaciglio dormono tre fanciuletti,
a cui sonni veglia una madre ancora giovane d’anni, ma pallida e rifinita dalle
protratte vigilie. Com’è stile delle donne delle nostre costiere, essa è intenta
a condurre innanzi alcuni merletti; senonché più che al lavoro, corrono i suoi
sguardi a speculare il sinistro aspetto del cielo, che poteva affissare
dall’aperta finestra. E l’orizzonte mostravasi tetro e il mare a montoni,
cagione a quella misera d’infinita amarezza, certa qual era che in quelle acque
aveva l’istesso giorno dato fondo il naviglio, che dopo un anno di lontanaza
recava alle sue braccia uno sposo adorato. Ella vedea con terrore alla luce de’
lampi l’agitarsi d’una nave in contrasto co’ flutti; e quando il vento per brevi
istanti taceva, pareale udire le strida de’ marinai invocanti soccorso. E allora
cacciato a terra il suo tombolo, accendea prestamente una lampada ad un’immagine
sacra che pendea sopra il capezzale, e svegliati di botto i figliuoli traeali
innanzi a quella dicendo fra i singhiozzi – pregate, viscere mie, pregate la
Madonna di Monte Allegro che vi renda salvo il genitore.
E pregavano quegli innocenti levando al cielo le loro manine, mentre appunto il
furore dell’onde e gli schianti del vento si faceano maggiori. Ed ella guardava
lontan lontano sul mare, quando un lampo illuminando di tetro bagliore la
solitudine dell’acque, le lasciò scorgere un uomo che disperatamente lottando
co’ flutti tentava afferrare la sponda. Il cuore le balza nel petto: una voce
interna le grida – è quegli il tuo sposo – E forsennata di gioia cade innanzi
all’immagine di Nostra Donna; indi strettosi al seno il minor de’ figliuoli e
gli altri traendo per mano, scende deviata alla spiaggia per raccogliere nelle
sue braccia l’uom del suo cuore. Infelice! Un immane maroso le sbatte a’ piedi
un cadavere.
Traeano in quella da’ vicini casolari alla riva non pochi marinai, desiosi di
recare, se lor tornasse possibile, un qualche soccorrimento alla nave, che dai
fatti segnali argomentavano versasse in grave pericolo. Ma intanto un nodo di
vento la mandava ad infrangersi contro gli scogli del litorale. Miserabile
vista! Il corpo del naviglio giaceva a metà sepolto ne’ flutti; il fianco di
dritta sfondato, gli alberi e i pennoni divelti, distrutto il traverso, i pavesi
recisi, infranta la ruota di poppa. Tutti i naviganti per altro, stante la
vicinanza del lido, ebbero salve le vite, da quello infuori, che smanioso di
scendere a terra, volle tentare a nuoto l’arduo tragitto.
Non è a dire se i marinai accorsi alla riva si adoperassero a pro’ di que’
sventurati. Senonché vista la salma del loro compagno, e accertatisi che ne’
suoi polsi non batteva più vita, lo tennero bello e spacciato; pur alcuni per
tentare un’ultima prova, lo sospesero in guisa che dovesse dar fuori l’acqua
ingollata. Altri s’adoperarono attorno alla donna, che uscita de’ sensi per
avere in quel naufrago riconosciuto il proprio consorte, venia trasportata in un
co’ figlioletti nella sua casicciuola.
Die’ la sorte che mentre appunto que’ marinai, tenendo bocconi il sommerso,
tentavano di fargli rigettar l’acqua dal petto nella speranza di rivocarlo alla
vita, si recassi in quel luogo Emilio Schiaffino, disceso anch’egli alla
spiaggia per veder modo di provvedere alla salvazione di coloro che avean fatto
naufragio. E vista quella buona ed ignara gente affaticarsi in così misera guisa
intorno all’annegato, battendosi fieramente la fronte – non vedete, gridava,
ch’egli è questo appunto il modo di soffocarlo? – E fattolo recar senza indugio
nel vicino tugurio – ciascuno attenda, diceva, al modo che àssi a porre in opera
nel soccorrere gli asfitici per sommersione. Ho fede che in manco d’un’ora
questo cadavere sarà reso alla vita – I marinai si ricambiavano dubitosi uno
sguardo e taceano.
Ei cominciò a farlo spogliare tagliando le vesti madide e ricercando se avesse
lesioni in qualche parte del corpo. Indi fattolo collocare orizzontalmente sur
un letticiuolo, e avvoltolo in coperte di lana, inclinavalo alcun poco dal lato
destro, e trattane la lingua fuor della bocca, la mantenne così sporgente per
mezzo di un anello elastico, di cui egli andava munito, e che affisse sulla
lingua medesima e sott’esso il mento, collo scopo evidente di riattivarne la
respirazione artificiale. Ciò fatto, postosi dietro il corpo del naufrago,
afferrò d’ambo i lati la parte superiore del braccio presso la spalla, e così
saldamente tenendolo, prese a tirare a sé spalla e braccia, sollevandole
alquanto e riconducendole quindi nella prima lor posizione. Questa operazione
diretta ad effettuare energici movimenti di inspirazione e di
espirazione ripetè lungamente, ma pur senza effetto disorte alcuna. Senonché
egli aveva troppa fede nei risultamenti della scienza per porne l’esito in
forse, e ben sapea per innumerevoli esempi, che spesso occorrono parecchie ore
d’applicazione ordinate e metodica dei mezzi di soccorimento, quando in ispecie
la estrazione del naufrago è assai ritardata.
Comandò allora che un marinaio tenesse per i piè saldamente il cadavere, a
ragione avvisando, che agitandosi tutto il corpo, mal si otterrebbe l’effetto di
far dilatare il torace ed entrar l’aria nelle vie respiratorie. Quindi
appigliandosi ad un altro metodo usato anch’esso con frutto in simili casi,
prese ad elevare le braccia dell’annegato, portandole sopra la testa e quindi
riconducendole nello stato lor naturale. Questa operazione interrompeva talora
per applicare le mani ai lati del petto, e imprimere brusche scosse al cadavere,
scosse che valgono il più delle volte a rianimarne la respirazione: né
s’ingannava. Alcuni istanti appresso un lungo respiro accusava nel povero
sommerso il ritorno alla vita; i marinai guardansi trasognati; il creduto
estinto apre gli occhi... La scienza aveva trionfato!
Ma l’ardente amore dello Schiaffino verso i suoi simili non appacavasi a tanto,
e pensando a ciò che già fecero Americani ed Inglesi a tutela de’ naviganti,
divisava il modo di stabilire in que’ paraggi una Stazione barometrica e
una Società di Salvamento pei naufragi sull’andare di quella che il Cogan
e l’Haves fin dal 1774 fondavano in Inghilterra. Quel negozio non era invero de’
più facili, porgendosi avversi od incerti i maggiorenti di que’ luoghi e
l’ignoranza de’ suoi stessi compagni. Se è destino, diceano, che il nostro fato
si compia, qual forza umana potrà lottare coll’oceano infuriato e contro il
demone della tempesta? La Madonna del Boschetto saprà alla peggio camparci da
ogni sinistro; più delle vostre stazioni o società di Salvamento varrà a
schermirci da ogni traversia l’accrescere le carature dovute alla Chiesa.
Imperocché àssai a sapere che da’ que’ lidi non salpa mai nave che non sia
costituita in società commerciale, ponendo ciascuno, secondo i propri averi,
quel tanto di danaro che si richiede; queste parti son dette carati, e
alcune di esse soglionsi assegnare al Santuario del luogo, acciò la Madonna
franchi il legno da ogni fortuna, e faccia prosperare i suoi traffici. Di questa
guisa rendendo maggiormente partecipe ai lucri del bastimento la Chiesa, que’
semplici uomini sfatavano ogni altro mezzo che gli ponesse al coperto dei
pericoli della navigazione. Non ostante questa ed altre contrarietà di tal
fatta, venne il dì in cui poté mandare ad effetto il suo onesto disegno.
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