Qualcuno vuol darcela a bere
Acqua minerale: uno scandalo sommerso
 

un libro di Giuseppe Altamore


Le pagine dedicate allo scandalo
dal settimanale "Il Nostro Tempo"
domenica 2 novembre 2003

di Lara Reale

 

Le minerali? Uno scandalo
Nel nuovo volume di Giuseppe Altamore riuniti documenti
e testimonianze prodotti in anni di inchieste giornalistiche

Liscia, gassata o... avvelenata? Non è una nuova trovata pubblicitaria, ma la domanda che ci dovremmo fare ogni volta che versiamo un bicchiere d’acqua dalla bottiglia.
Il consiglio provocatorio è di Giuseppe Altamore, vicecaporedattore di «Famiglia Cristiana», che nel volume «Qualcuno vuol darcela a bere. Acqua minerale, uno scandalo sommerso» (Fratelli Frilli Editori, 2003, pp. 202, 14 euro) pubblica i documenti e le testimonianze raccolti in anni di inchieste giornalistiche.
«La legge italiana stabilisce che le acque in bottiglia possono contenere sostanze tossiche ed elementi salini in concentrazioni così elevate che, se sottoposte ad analisi di laboratorio come la comune acqua del rubinetto, il responso potrebbe essere “acqua non potabile”», ha spiegato l’autore intervenendo alla presentazione del suo saggio presso la libreria «La Torre di Abele» a Torino. «Una quantità di arsenico superiore ai 10 μg/l, ad esempio, rende imbevibile l’acqua di casa, ma nella minerale può raggiungere anche i 50 μg/l (fino a due anni fa il limite era addirittura 200 μg/l). E, ancora, nell’acqua in bottiglia il manganese può arrivare a 2.000 μg/l, ma nell’acquedotto deve rimanere al di sotto dei 50 μg/l. Per queste, come per altre 17 sostanze tossiche, inoltre non c’è alcun obbligo di indicazione in etichetta, sicché la composizione analitica delle acque minerali è assimilabile a un segreto di Stato».
Per capire cosa si nasconde dietro a questa situazione paradossale è necessario fare un passo indietro e recuperare alcune definizioni. Per «acqua potabile» si intende, in generale, quell’acqua «di sapore gradevole priva di qualsiasi caratteristica tale da rendere dannoso il bere».
In questa categoria rientra, dunque, quanto prodotto dagli acquedotti municipali a partire dall’acqua di fiumi, laghi e sorgenti sotterranee, attraverso processi di potabilizzazione che possono comprendere interventi di filtraggio e decantaggio, alternati all’uso di sostanze chimiche come policloruro di alluminio, ipoclorito di sodio, biossido di cloro.
Il risultato è un’acqua che si può bere in piena sicurezza, anche se spesso ha un residuo sapore di cloro. Le «acque minerali naturali» si distinguono essenzialmente per l’assenza di qualsiasi intervento di potabilizzazione: sono infatti «acque che, avendo origine da una falda o giacimento sotterraneo, hanno caratteristiche igieniche particolari e, eventualmente, proprietà favorevoli alla salute». Proprio quest’ultima caratteristica ha fatto sì che venissero assimilate a trattamenti medicinali e quindi regolamentate da una legislazione specifica, con le generose deroghe di cui s’è detto.
In effetti, in passato, le acque minerali erano utilizzate per lo più a scopo curativo e per periodi di tempo limitati. Oggi, però, molti le sorseggiano in sostituzione dell’acqua di rubinetto. Con 172 litri pro capite all’anno noi italiani siamo i più grandi bevitori di minerale al mondo.
L’85 per cento delle nostre famiglie acquista acqua in bottiglia, spendendo in media 260 euro l’anno. «Secondo alcune stime il business mondiale dell’acqua equivale a quasi la metà dell’economia legata al petrolio», ha dichiarato Altamore. «Un giro d’affari tanto grande da indurre le multinazionali del settore a condizionare le scelte dei governi attraverso lobby potentissime».
In Italia, nel 2002, sono stati prodotti 7 miliardi di litri di acqua minerale, imbottigliati da circa 260 imprese, a fronte di 700 sorgenti. Le etichette commercializzate sono più di 250, ma il 70 per cento del mercato è in mano a sei sole multinazionali. «I costi di produzione sono ridicoli», ha spiegato l’esperto. «Lo sfruttamento delle fonti demaniali, infatti, avviene con il sistema delle concessioni pubbliche da cui lo Stato, in base a un decreto regio del 1927, ricava pochi spiccioli: meno di 500 mila euro l’anno. Quel che è più grave è che oltre l’80 per cento delle acque minerali è imbottigliato in contenitori di plastica e i costi dello smaltimento ricadono sulle Regioni, che in definitiva spendono più di quanto incassino». A conti fatti, le imprese delle acque minerali pagano la materia prima meno della colla per l’etichetta, rivendendola a un costo 500 o anche 1.000 volte superiore.
La principale voce di spesa resta, dunque, la promozione pubblicitaria (quasi 700 miliardi di vecchie lire nel 2002), che in pochi anni ha trasformato i popoli occidentali in insaziabili consumatori di minerale.
Alla luce di quanto precede, non stupisce che il 51 per cento delle famiglie italiane oggi consideri l’acqua minerale più sicura di quella del rubinetto. D’altronde, ciò che esce dai nostri acquedotti non è sempre sinonimo di qualità. Tra luglio e dicembre 2001 l’associazione ambientalista Greenpeace ha girato la penisola con un camper-laboratorio per l’analisi della salubrità dell’acqua che sgorga dagli acquedotti municipali: il livello delle sostanze organoclorurate cioè i composti generati dall’impiego del cloro in funzione antibatterica) è risultato mediamente superiore al valore guida stabilito dall’Unione europea (1 μg/litro). Ai problemi derivanti dai trattamenti di disinfezione occorre aggiungere, poi, le frequenti contaminazioni delle falde con inquinanti prodotti dall’industria (solventi, idrocarburi...) e dal settore agricolo (pesticidi, erbicidi...).
Un’inchiesta condotta da Altroconsumo a maggio 2003 ha stabilito, tuttavia, che lo stato di salute della nostra acqua di rubinetto è complessivamente accettabile e, se qualche veleno minaccia le risorse delle grandi città del Nord, i valori restano in media al di sotto dei limiti di legge. In ogni caso, nessuno può escludere che tubature e rubinetti vecchi rilascino nell’acqua sostanze tossiche compromettendo la qualità di quanto erogato dall’acquedotto.
La miglior soluzione potrebbe dunque risiedere nel trattamento dell’acqua a valle, cioè al rubinetto di casa mediante appositi filtri. Il 2003 doveva essere l’Anno internazionale dell’acqua: data la situazione, è consigliabile celebrarne la chiusura con un brindisi a base di vino.

 


Storia
Le denunce avanzate da due Procure

Dietro allo scandalo delle acque minerali c’è una storia che non molti conoscono. Il 2 luglio 1999 Pasquale Merlino, perito chimico di Rionero in Vulture (Pt), comunica alla Commissione europea di aver condotto alcune verifiche sull’acqua minerale e di aver scoperto che in base alla legge italiana vi si possono trovare (e in effetti trovano) sostanze nocive misura superiore a quella del rubinetto, senza l’obbligo di dichiararlo in etichetta.
La Commissione europea contesta immediatamente il decreto legge che disciplina il settore e sollecita il governo italiano a chiarire la sua posizione. Fra il silenzio degli organi di informazione e il “disinteresse” del mondo politico, il novembre 2000 l’associazione dei consumatori Adusbef presenta un esposto a 52 procure della Repubblica denunciando i danni derivanti dalla presenza di due diversi metri di giudizio.
Il 14 marzo 2001 l’Istituto superiore di sanità invita governo ad abbassare i limiti di alcune sostanze tossiche, suggerendo comunque livelli superiori a quelli raccomandati a livello comunitario.
Intanto proseguono le indagini della magistratura: il 21 ottobre 2002 la procura di Bari fa sapere di aver trovato quantità eccessive di vanadio, arsenico e nitriti in alcuni lotti di minerale; a gennaio 2003 i colleghi di Torino scoprono una partita contaminata da cloroformio e decidono di allargare indagini. A quel punto anche il ministero della Salute avvia un’inchiesta e, a fine agosto, rende noto che su 149 marche controllate, 112 risultano contaminate da veleni. Il ministro ordina alle aziende inquisite di produrre una nuova e completa certificazione. Ma, ad oggi, nessuno sa se l’abbiano fatto.

 


Problema

Sarà sempre più rara e sarà
come il petrolio per l’economia

Privatizzare gli acquedotti può essere pericoloso

Alcuni anni fa la rivista «Fortune» annunciò che per l’economia del XXI secolo l’acqua sarebbe stata ciò che il petrolio è stato per il XX secolo. L’effetto serra e la conseguente tropicalizzazione dei climi temperati rendono quella profezia ogni giorno più azzeccata. Già oggi per 1,4 miliardi di persone l’accesso all’acqua potabile un miraggio; ogni anno 12 milioni di individui muoiono di sete per malattie dovute all'inquinamento idrico, e l’Onu stima che entro il 2025 la quantità media pro capite di acqua disponibile diminuirà di un terzo rispetto a oggi.
Man mano che l’«oro blu» si fa più raro (perché le falde sono esaurite o perché inquinate) il processo di mercificazione delle risorse idriche accelera manifestandosi in due diverse forme: l’incremento dei consumi di acqua in bottiglia a scapito di quella del rubinetto e l’affidamento degli acquedotti alla gestione dei privati. «La privatizzazione segue una sceneggiatura immutabile», spiega Marco D’Eramo, esperto in problemi internazionali.
«Viene invocata in nome di una maggiore efficienza rispetto alla “gestione burocratica degli enti pubblici”, come soluzione per trovare i fondi per riparare e modernizzare gli acquedotti, progettati in origine per un numero molto minore di utenti». Negli Usa, per esempio, si stima che per rimettere in sesto la rete idrica nei prossimi 20 anni occorreranno circa 150 miliardi di dollari. «Anche la Banca mondiale e il Fondo monetario spingono alla privatizzazione, facendone spesso una condizione indispensabile per concedere i loro prestiti», rivela D’Eramo.
«Ma alle multinazionali i finanziamenti pubblici non bastano così, per rientrare nei costi, iniziano licenziare il personale e lesinano sulle riparazioni. La qualità dell’acqua peggiora progressivamente e, quando la gente protesta, le aziende obiettano che ai prezzi pattuiti non si può fare di meglio e che è necessario rinegoziare il contratto. Puntualmente gli accordi vengono rivisti e le tariffe dell’acqua subiscono rincari insostenibili».
La dinamica si ripete allo stesso modo da Sud a Nord, Italia compresa. Di recente l’Onu ha stilato una classifica che incrocia la disponibilità d’acqua di un Paese con il suo utilizzo effettivo (risultante da: accesso alla rete idrica, gestione delle risorse e impatto ambientale). Su 147 Stati che hanno fornito i dati necessari all’analisi, l’Italia, che pure gode di una buona quantità di fonti, si colloca solo al 52° posto. Il motivo? Gli sprechi: da monte a valle, cioè dal momento del prelievo alla sua uscita dal rubinetto, quasi un terzo dell’acqua si perde a causa della scarsa efficienza della rete distributiva. I colossi che sfruttano la sete mondiale non chiedono di meglio.

 


Scheda: La composizione in 49 parametri

Le etichette dicono ben poco
sulle sostanze nelle bottiglie

La composizione di un’acqua minerale è definita da 49 parametri. La legge italiana, tuttavia, impone di indicarne in etichetta solo una minima parte. Iniziamo dalle sostanze disciolte.

Sodio: se presente in quantità elevate, l’acqua è sconsigliata a chi ha malattie cardiovascolari.
Potassio: poiché è spesso disciolto in basse percentuali, non ci sono limiti di guardia.
Calcio: se è superiore a 150 mg/l, l’acqua è «calcica» ed è consigliata durante la gravidanza e in vecchiaia.
Magnesio: se superiore a 50 mg/l, l’acqua è «magnesiaca» ed è indicata nella prevenzione dell’arteriosclerosi.
Cloruro: non c’è un valore limite, ma se oltrepassa i 200 mg/l dà all’acqua sapore salato.
Solfato: se supera i 200 mg/l l’acqua è «solfata» e può avere proprietà purgative.
Idrocarbonato: se eccede i 600 mg/l, facilita la digestione.
Fluoro: non ci sono limiti, ma in quantità elevate può dare problemi alle ossa e alla dentatura.
Nitrati: per le acque destinate all’infanzia il valore limite è 10 mg/l, mentre per quelle ordinarie è 45 mg/l.

A questo elenco si aggiunge l’indicazione della durezza, espressa in gradi francesi (1°F corrisponde a 10 mg/l di carbonato di calcio): se è inferiore a 15°F l’acqua è «leggera », tra 15 e 30°F è «mediamente dura», oltre 30°C è «dura».
Il residuo fisso indica la quantità di sali rimasti dopo aver fatto evaporare un litro d’acqua alla temperatura di 180°C. Se inferiore a 50 mg/l l’acqua è «minimamente mineralizzata», tra 51 e 500 mg/l è «oligominerale», tra 501 e 1.500 mg/l è «minerale », oltre 1.500 mg/l è «ricca di sali minerali» (ed è controindicata per chi soffre di insufficienza cardiaca, epatica o renale).
La conducibilità elettrica (misurata in microsiemens/cm) è ancora connessa al contenuto di sali minerali: se elevata, l’acqua è molto mineralizzata.
L’acidità (indicata con ph) misura quanto un’acqua è acida o basica: un ph tra 6 e 8 corrisponde alla neutralità.

 


Intervista: Parla l’esperto Giorgio Calabrese

Altamore ha ragione la legge è inadeguata

Giorgio Calabrese, docente di Dietetica, alimentazione e nutrizione umana a Piacenza e Torino, nonché visiting professor alla Boston University, è il referente italiano dell’Autority europea per la sicurezza alimentare, l’agenzia nata lo scorso anno con l’obiettivo di uniformare e regolamentare la legislazione dei singoli Stati membri.

Professor Calabrese, le denunce di Giuseppe Altamore sono fondate? La normativa italiana, insomma, è davvero deficitaria rispetto a quanto stabilito a livello internazionale?
Sì. E in maniera palesemente iniqua, perché prevede solo 49 parametri di controllo per le acque minerali contro i 62 delle acque di sorgente. Anche il semplice buon senso suggerisce che i valori di riferimento per la potabilità di un’acqua dovrebbero essere sempre gli stessi. Allo stato attuale, inoltre, il consumatore italiano non è in grado di conoscere l’esatto contenuto di una bottiglia di acqua minerale, perché la legge non impone al produttore di indicare la composizione analitica completa. Questo non implica, tuttavia, che tutte le acque minerali italiane violino le raccomandazioni internazionali.

Se non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, è pur vero che le indagini condotte dalle procure di Bari e Torino, poi estese al territorio nazionale, hanno accertato che 112 su 149 marche controllate sono contaminate da veleni vari...
La situazione è allarmante, ma fortunatamente sta venendo a galla. Il lavoro delle procure di Bari e Torino, in questo senso, è stato determinante. Ciò non toglie che le verifiche sarebbero dovute partire dalle autorità sanitarie e non dalla magistratura: l’Autority europea ha dettato regole precise anche in tal senso. Purtroppo i prodotti da controllare sono talmente tanti che le verifiche spesso sono solo “relative”.

Secondo la procura di Torino le irregolarità sono connesse anche ai laboratori d’analisi pubblici, che non sarebbero in grado di rilevare la presenza di alcune sostanze tossiche. È vero?
In effetti alcuni laboratori non sono nelle condizioni di fare tutte le verifiche, ma non per incompetenza o malafede, quanto per mancanza di fondi e attrezzature. Lo scandalo delle acque minerali è l’ennesima dimostrazione di quanto sia importante garantire che l’attività degli organi di controllo pubblici torni ai massimi livelli.

Dal 1985 a oggi la quota delle bottiglie in vetro è scesa dal 92 al 42 per cento, mentre quella in plastica è  cresciuta dal 6,5 al 55 per cento. Ma i contenitori in Pet (cloruro di polivinile) e Pvc (polietilene) sono sicuri?
Il vetro ha innegabili virtù per la conservazione degli alimenti perché è neutro, non rilascia residui ed è impermeabile all’inquinamento esterno, ma è pesante e fragile, quindi scomodo da maneggiare. In confronto le bottiglie di plastica sono molto più pratiche ed economiche, ma possono rilasciare sostanze nocive. Il Pvc è stato ritirato dal mercato proprio perché cancerogeno. Il Pet è abbastanza sicuro, purché non venga esposto alle fonti di calore e non sia immagazzinato a contatto di muffe e polveri.

Una famiglia italiana su due ritiene l’acqua in bottiglia più sicura di quella del rubinetto. È una convinzione fondata?
Solo in parte. Oggi l’acqua di rubinetto è mediamente di buona qualità: quasi dappertutto ha un basso contenuto di sali (500 mg/l) e un livello di nitrati sotto i 10 mg/l. Il problema è che tra l’azienda municipale che eroga l’acqua e l’utente finale ci sono di mezzo chilometri di tubature pubbliche e private, e nessuno è in grado di garantirne l’efficienza. Il prodotto che sgorga dal rubinetto di casa può, quindi, avere caratteristiche organolettiche diverse da quelle che aveva alla partenza dall’acquedotto.

Un’ultima indicazione di carattere più generale: quanto e come si deve bere?
L’ottimo sarebbe bere un bicchiere di acqua all’ora, tra le 8 e le 18, vale a dire 2 litri nell’arco delle dieci ore centrali della giornata. In questo modo si aiutano i reni a smaltire correttamente i residui metabolici (es. proteine). Il rene è, infatti, come una zanzariera: se è pulita lascia passare l’aria e trattiene gli insetti, ma se ha i buchi intasati si lacera, creando un varco attraverso il quale passa di tutto. Per chi ha più di 70 anni, tuttavia, la dose ottimale è un litro di acqua al giorno, perché il drenaggio renale è fisiologicamente limitato e l’acqua in eccesso entrerebbe in circolo sovraccaricando il cuore.


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