Adios muchachos
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Liberazione
Memorie di un rivoluzionario
di Vittorio Bonanni

 

 

 

 


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Da Liberazione del 26 ottobre 2003

Nel libro “Adiós Muchachos” Sergio Ramirez
ricorda la rivoluzione sandinista

Memorie di un rivoluzionario

«Fu l’utopia distribuita. E così, come segnò una generazione
di nicaraguensi che la rese possibile e la sostenne
con le armi, ci fu anche una generazione nel mondo che
trovò in essa una ragione per vivere e per credere»

 

di Vittorio Bonanni

Tanta emozione, ricordi, autocritica, rimpianto per qualcosa che non si è riusciti a realizzare. Tutte queste cose, e tante altre, si trovano nel libro “Adiòs Muchachos. Una memoria della rivoluzione sandinista” (Fratelli Frilli Editori, pp. 251, euro 15), di Sergio Ramirez, uno degli scrittori più importanti dell’America latina ma soprattutto vicepresidente del Nicaragua dal 1984 al 1990, anno della sconfitta sandinista e della fine dunque dell’esperienza rivoluzionaria.
Il libro di Ramirez è un bel racconto sulla fase cospirativa che precedette la vittoria del 19 luglio 1979, giorno della caduta definitiva del regime di Anastasio Somoza, sugli anni del governo e della guerra con la Contra, e sulla sconfitta del ’90. Ciò che traspare in primo luogo leggendo le belle frasi dell’autore è una grande tristezza per un’esperienza che aveva suscitato tanta speranza non solo in Nicaragua ma nel mondo intero. «La rivoluzione sandinista - scrive nell’introduzione l’ex dirigente del Fsln (Fronte sandinista di liberazionale nazionale) - fu l’utopia
distribuita. E così, come segnò una generazione di nicaraguensi che la rese possibile e la sostenne con le armi, ci fu anche una generazione nel mondo che trovò in essa una ragione per vivere e per credere, che nell’ora della guerra dei Contra e dell’embargo degli Stati Uniti combatté per difenderla dall’Europa, dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’America latina.»
Se il boicottaggio impietoso e vigliacco degli Usa nei confronti di un piccolo paese, tra i più poveri del mondo, fu la causa principale della fine dell’esperienza sandinista, gli stessi eredi di Augusto Cesar Sandino non furono esenti da colpe, anche e soprattutto dopo la sconfitta del ’90 e la vittoria di Violeta Chamorro, la cui campagna elettorale venne finanziata a piene mani da Washington. E Ramirez non risparmia certo critiche ai suoi ex compagni di lotta, dai quali si distanziò subito dopo la sconfitta dando vita al Movimento di Rinnovamento Sandinista, un’esperienza che comunque non ebbe seguito e dalla quale lui stesso si allontanò presto dedicandosi esclusivamente alla sua attività di scrittore.
Uno dei punti di maggiore polemica fu la corruzione e l’accapparamento dei beni dopo l’uscita dalle stanze del governo. Va tenuto presente che l’etica era stata uno dei punti di forza dell’esperienza sandinista, dove confluivano l’ideologia marxista e la teologia della liberazione: «Prima di apprendere a sparare - racconta Ramirez - si apprendeva una condotta etica, che partiva da coloro che non possedevano nulla, in termini cristiani, e si accettava il compromesso di rinunciare a tutto per dedicarsi a una lotta fino alla morte destinata a sostituire il potere di quelli di sopra per il potere di quelli di sotto.» Ma la sconfitta elettorale cambiò completamente questo scenario. All’indomani del 26 febbraio «quando Daniel Ortega riconobbe la sconfitta (...) nel discorso più memorabile della sua vita, disse che eravamo nati poveri e tornavamo poveri alla strada.» Ma così non fu. «L’operazione che doveva demolire tutto quel codice di regole etiche - dice l’ex vicepresidente - cominciò poco dopo, al riparo di una giustificazione strettamente politica, che fu la prima carica d’esplosivo collocata alla base del muro di contenzione: il sandinismo non poteva andarsene dal governo senza mezzi materiali, perché avrebbe significato il suo annichilimento. L’Fsln aveva bisogno di beni, rendite, e doveva prenderli allo Stato, prima che si compissero i tre mesi di transizione.»
La corruzione e l’arricchimento personale, come fu il caso dei sindacalisti sandinisti, provocò la critica di molti amici della Rivoluzione e lo stesso Ramirez uscì dal Fronte non solo ma anche per queste ragioni. Certo non va dimenticato il quadro che precedette la sconfitta: una guerra di logoramento, l’embargo degli Stati Uniti, uno scenario terribile. Pretendere che quell’etica e quella coerenza potesse proseguire anche dopo con la stessa fermezza di prima era forse impossibile. È molto più probabile che ancora oggi Daniel Ortega e compagni paghino il prezzo che il paese fu costretto a pagare allora combattendo e vedendo morire i suoi figli migliori. Ed è lo stesso Ramirez a ricordarlo: «La guerra stessa, fatta di assenze, separazioni, sofferenze, morte e la scarsa probabilità, per la gente che ne sopportava il peso fatale, di vederne la fine, sarebbe stata il grande avversario elettorale, e non avremmo potuto sconfiggerlo.» Un grande peso che ad oltre dieci anni di distanza da quell’evento continua a condizionare la vita di questo popolo e ad impedirne l’emancipazione.


 

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