bye bye Baghdad
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Liberazione
Iraq: poca luce e zero paradiso
di Emanuela Del Frate

Italia - Iraq
Bye bye Baghdad

Famiglia Cristiana
Quei ragazzi con il mitra
 

 


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Da Liberazione del 31 gennaio 2004

Presentato a Roma “Bye bye Baghdad. Luoghi, persone e
storie della pax americana” del giornalista Fulvio Scaglione

Iraq: poca luce e zero paradiso
 
«Con il suo esercito di esperti, analisti, spie, collaboratori,
la Casa Bianca, aspirante sceriffo del mondo, ha mostrato
di non sapere nulla dei veri sentimenti della popolazione.
Forse quella che gli iracheni vedono come un’occupazione
è in realtà una lunghissima ritirata»
 

di Emanuela Del frate


Folle chiamarla Madinat al Salam, alla lettera “città della pace” ma per traslato “il Paradiso”. C’è pochissima pace e zero paradiso oggi nel cuore di Baghdad». Lo scrive Fulvio Scaglione nelle prime pagine del suo nuovo libro: “Bye bye Baghdad. Luoghi, persone e storie della pax americana”, (Fratelli Frilli Editori, pp. 200, euro 12,50) ma è anche ciò che è stato fortemente ribadito alla prima presentazione romana, svoltasi mercoledì 28 gennaio presso la libreria Feltrinelli di piazza Colonna. Una sala affollata e attenta ha atteso l’autore, Nino Leto - fotografo che ha curato le immagini del libro - e gli ospiti che con loro hanno presentato il lavoro; Fabio Alberti di “Un Ponte per... ” e il giornalista Giulietto Chiesa. Un’occasione ben spesa per parlare di Iraq, con chi questo paese lo conosce e lo ama da anni, fuori dagli steccati e dagli stereotipi imposti dalla propaganda mediatica e governativa. Lo stesso motivo che ha spinto Scaglione a scrivere di Iraq proprio in questo momento; inviato di Famiglia Cristiana, sono anni che segue in prima persona le sorti del paese e della sua popolazione.
«Più lo conoscevo, più scoprivo un popolo e delle storie che nessuno raccontava in Occidente, dove tutto era appiattito e nascosto dietro l’ombra di Saddam», ha ricordato il giornalista.
E proprio questo traspare dalle pagine del libro, anche agli occhi di un profano che si accinge per la prima volta ad immaginare la vita com’è ora nella vecchia Mesopotamia. E’ un Iraq scoperto attraverso gli occhi degli iracheni, le storie che raccontano, la loro vita quotidiana, i loro problemi. E’ una storia innervata di umanità, fatta anche di emozioni, leggende e tradizioni che Scaglione raccoglie ed elargisce a piene mani ai suoi lettori.
«In un momento in cui l’Iraq viene trattato semplicemente come una cosa, o al massimo una situazione geopolitica, in questo libro si vedono gli iracheni. Parte dalle persone, dai loro occhi, è la vita quotidiana della gente quella che ci descrive. Un popolo senza acqua, cibo, sicurezza, senza futuro», ha affermato Alberti che l’Iraq lo conosce bene e da molti anni.
“Bye Bye Baghdad” è un viaggio nella terra stremata da 13 anni di embargo e numerose guerre, nelle sue città e nelle etnie che la abitano, nei problemi lasciati da Saddam e in quelli portati dall’occupazione. Semplice e coinvolgente il libro ci porta nelle strade ormai senza gioia di Baghdad, ripercorre la storia di Saddam - il governatore che veniva dalla strada - attraversando Al-Awja e Tikrit, le città dove è nato e vissuto. Affronta il problema e la convivenza delle diverse etnie, raccontando la storia di Mosul, «non una città, ma tante città affiancate come un puzzle», abitata da musulmani sanniti, sciiti, kurdi, turkmeni, cristiani.
Scaglione ci fa ascoltare la voce delle moschee, ci porta dagli ayatollah di Najaf, capitale degli sciiti, i primi a rimettere in piedi la macchina dell’organizzazione sociale dopo la guerra, la maggioranza della popolazione irachena che aspetta solo di essere liberata dall’occupazione militare. Si arriva anche a Kirkuk, centro petrolifero dell’Iraq dagli impianti stremati che producono ora meno di quel che facevano sotto il regime del raiss, embargo incluso. E pensare che gli Usa erano convinti di poter finanziare così le spese della ricostruzione. Una ricostruzione che non parte, nonostante gli appalti miliardari alle industrie americane, inglesi, spagnole e anche italiane. Gli unici progetti che sono riusciti ad andare avanti sono lo sminamento delle terre abitate e il ripristino degli impianti di depurazione dell’acqua, realizzato solo dalle Ong. Del resto, si appoggiano ad aziende ed imprese locali, non fanno parte delle truppe occupanti e non hanno bisogno di essere scortate da centinaia di militari a garantirne la sicurezza.
E’ una popolazione che aspetta ancora che arrivi dal mare il leggendario Sinbad e che se ne vadano gli eserciti occupanti per poter sperare di ricominciare a vivere.
Gli americani sanno che prima o poi, dovranno andare, ma non sanno come farlo. Se costringono gli iracheni ad essere governati da uomini scelti da loro, sanno che la situazione potrebbe ancora peggiorare. Del resto non possono permettere che, attraverso libere elezioni, non venga scelto chi garantirà i loro interessi.
«Questa guerra è stata uno scandalo mondiale e ci dice che le democrazie occidentali stanno morendo. Sarebbe questo il modello di democrazia che stiamo esportando?», si è chiesto Giulietto Chiesa invitando ad alzare la voce, ad opporsi allo sterminio in cui siamo coinvolti a pieno titolo anche noi italiani.
«Con il suo esercito di esperti, analisti, spie, collaboratori, la Casa Bianca, aspirante sceriffo del mondo, ha mostrato di non sapere nulla dei veri sentimenti degli iracheni» e probabilmente, come afferma Scaglione in conclusione del suo libro: «quella che gli iracheni vedono come un’occupazione forse è una lunghissima ritirata. Bye Bye Baghdad».

Un inviato Sempre nei luoghi più caldi della terra
Fulvio Scaglione (1957), laureato in lingue, giornalista, è vice-direttore di Famiglia Cristiana, di cui è stato corrispondente da Mosca. Come inviato ha seguito molte delle vicende (Somalia, Cecenia, Kashmir e Afghanistan) che segnano l’attuale contrasto tra mondo islamico ed occidente. Suoi interventi sono stati pubblicati nei volumi collettivi La nuova colonizzazione (Baldini & Castoldi, 1998), Quel che resta del mondo (Baldini & Castoldi 1999) e No global (Zelig 2001). Questo suo ultimo libro si propone di ridare la voce a tutti coloro che del dramma iracheno sono protagonisti, e spesso vittime, in prima persona. Attraverso le loro esperienze è possibile non solo comprendere le sofferenze e i drammi di un popolo uscito da decenni di feroce dittatura e da una serie di guerre sanguinose, ma anche registrare i mille segnali della diffusa resistenza ai progetti di “liberazione” e “pacificazione” guidati.
 

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Da Italia-Iraq dell'11 gennaio 2004

Bye bye Baghdad
 

Questo saggio del giornalista Fulvio Scaglione (vice-direttore di "Famiglia cristiana") ha il merito di dar voce a tutti coloro che del dramma iracheno sono protagonisti, e spesso vittime, in prima persona. Parlano gli studenti universitari e le donne di Baghdad, i dottori dell'Islam della città santa sciita di Najaf, le madri che accorrono ai dispensari di Bassora in cerca di medicine per i loro bambini e gli abitanti del villaggio di Al Awja che videro Saddam Hussein bambino.
Attraverso le loro testimonianze è possibile cogliere i mille segnali e le motivazioni etniche, geografiche e religiose della resistenza sempre più diffusa contro l'occupazione anglo-americana.
L'Autore riconosce che i Cristiani, nell'Iraq di Saddam Hussein, "nei fatti erano tollerati meglio di altre etnìe e confessioni. Nell'ultimo Governo di Saddam Hussein c'erano quattro ministri cristiani su 23 e cristiano caldeo era uno dei due vicepremier, ex ministro degli Esteri e braccio destro di Saddam, quel Tareq Aziz ch'era nato nel 1936 […] a Mosul e che agli inizi della carriera, cominciata come giornalista, aveva preso un nome arabo per sostituire quello vero, Michael Yuhanna, che "sapeva" appunto troppo di cristiano".
Scaglione ha intervistato l'ayatollah Saleh al Taee, "uno degli esponenti più in vista del clero sciita della città santa di Najaf". L'ayatollah, che - a differenza di altri leader religiosi sciiti - non ha mai abbandonato l'Iraq alla volta di Teheran, afferma: "Noi oggi viviamo in un Paese occupato, ma nessuno riuscirà mai a occupare i cuori degli iracheni, impresa comunque impossibile per uno straniero. La Casa Bianca è dominata dalla lobby ebraica, il più forte potere mondiale, ma l'Islam è sempre stato generoso con i cristiani e ci aspettiamo di essere ricambiati". "Gli americani - aggiunge al Taee - sono interessati soprattutto al petrolio e i fedeli lo sanno".
Il petrolio - insieme con la ridefinizione degli equilibri mediorientali nella direzione auspicata da "Israele" - rappresenta il vero obiettivo della guerra anglo-americana contro la Repubblica dell'Iraq. Già nel 1980 - ricorda Scaglione - il presidente americano Jimmy Carter "emise la direttiva secondo cui qualunque turbativa al regolare mercato del petrolio doveva essere considerata "un attacco diretto agli interessi vitali degli USA e come tale respinto con ogni mezzo necessario, compreso la forza militare"; […] proprio per questa ragione George Bush padre nel 1991 decise di intervenire contro l'Iraq e a favore del Kuwait; […] nel 2001 l'attuale vice di George Bush junior (e ministro della Difesa con Bush senior nel 1991), Dick Cheney, firmò un rapporto che definiva cruciali per la sicurezza energetica degli USA i produttori di petrolio del Medio Oriente; e infine […] già nel 2020 gli USA avranno bisogno di 17 milioni di barili al giorno, 6 milioni al giorno più di oggi, e per trovarli dovranno per forza rivolgersi ai Paesi del Golfo, detentori delle maggiori riserve di petrolio finora accertate".
L'Autore conclude con questa semplice notazione: "l'Iraq ha riserve di petrolio pari a 112,5 miliardi di barili, ovvero l'11% di tutte le scorte mondiali, e secondo molti esperti potrebbero esserci altri 250 miliardi di barili nel deserto a Ovest di Baghdad, se solo lo si ispezionasse con maggior cura e migliori strumenti. Tenendo presente che la scorta di gas naturale è di dimensioni altrettanto imponenti, quale super potenza esiterebbe di fronte a tanto ben di Dio?".
 

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Da Famiglia Cristiana del 27 novembre 2003

Nel cuore di Baghdad, città inquieta e pericolosa
 

Quei ragazzi con il mitra
 
Come vive la grande capitale, con sei milioni di abitanti e
un’infinità di armi. È uno dei capitoli di Bye bye Baghdad,
il reportage sull’Irak scritto dal nostro giornalista.
 

Si intitola Bye bye Baghdad - Luoghi, persone e storie della pax americana il libro scritto da Fulvio Scaglione, vicedirettore di Famiglia Cristiana, che proprio per il nostro giornale si è occupato dell’ultima crisi irachena, dallo scontro tra Washington e Baghdad e la crisi dell’Onu, fino all’invasione dell’Irak da parte delle truppe angloamericane e all’esplosione della guerriglia.
Il volume, pubblicato dalla Fratelli Frilli Editori, è concepito come un vasto reportage che di capitolo in capitolo, da Baghdad a Mosul, da Najaf a Bassora, da Tikrit a Kerbala, tratteggia la situazione dell’Irak nel momento in cui sempre più forte, organizzata e spietata sembra diventare l’opposizione armata ai progetti di ricostruzione e pacificazione delineati dalla Casa Bianca. Il tutto attraverso decine di testimonianze di iracheni e stranieri, incontri con soldati americani e inglesi e interviste a esponenti delle diverse confessioni religiose, realizzate sul posto.
Per raccontare le difficoltà di una situazione politica e militare, ma anche la complessa e affascinante realtà di un Paese assai meno conosciuto di quanto si creda.

Ad Al Mahmudiya, sterminata periferia sud di Baghdad, avevamo incontrato Ebah, la dentista pessimista. Ma non solo lei. Anche Mahdi, 19 anni, un ragazzo simpatico, affabile, con un gran sorriso e un gran kalashnikov.
Pattugliava il cortile del centro medico, tranquillo ma vigile, e rispettato, nei grandi viavai di pazienti, parenti dei pazienti, visitatori, sfaccendati. Gli ho chiesto per conto di chi o di che cosa faceva la guardia. Mi ha risposto: per il ministero della Sanità. Allora, incuriosito dal fatto che, con tanti ex soldati ed ex poliziotti a spasso, quel posto fosse andato a un ragazzo, gli ho chiesto anche come avesse trovato il lavoro.
La risposta vale più del trattato di qualunque politologo. Mahdi fa parte di un gruppo di 36 guardiani che furono arruolati durante la guerra dal clero sciita di Al Mahmudiya per sgombrare le strade dai cadaveri e dai relitti delle
automobili e dei mezzi dell’esercito distrutti durante gli scontri. Rigorosamente senza salario, gratis et amore Allah.
Poi, nei primi giorni del dopoguerra, sempre quei 36 furono passati a un altro incarico: pattugliare le moschee del quartiere per evitare saccheggi e disordini, ricevendo all’uopo un mitragliatore a testa in dotazione. Passato un altro mese, furono assunti in blocco dal ministero della Sanità per far la guardia a ospedali e a dispensari. Gli stessi 36, con gli stessi kalashnikov nello stesso quartiere. Se domani scoppiasse un contrasto tra autorità religiose sciite e autorità laiche di governo, a chi darebbero retta questi 36 ragazzi col mitra? A chi andrebbe la loro prima, istintiva fedeltà?
Negli stessi giorni si svolgeva il grande pellegrinaggio alla moschea di Al Khadimiya, dalla parte opposta di Baghdad. Migliaia di sciiti, arrivati con ogni mezzo da ogni parte dell’Irak, avanzavano verso il tempio cantando, battendosi il petto, frustandosi le spalle con le catene, innalzando grandi ritratti degli ayatollah Khomeini, Al Sadr, Al Hakim e le icone del capostipite Alì.

Acqua fresca sui pellegrini
I soldati americani controllavano a distanza, cercando di farsi notare il meno possibile. Accompagnavano il corteo, al chiaro scopo di proteggerlo più che di contenerlo, decine di uomini armati che ogni tanto, posato il fucile o agganciata la pistola alla cintura, spruzzavano acqua fresca sui pellegrini inchiodati dai 40 gradi dell’ultima estate.
Anche lì ho provato a chiedere chi li avesse mandati. «Il coordinamento di quartiere», mi ha risposto uno, aggiungendo: «Ma gli americani sono d’accordo, ci hanno dato il permesso». Questo è sicuro, ma non basta a farmi credere che tutte quelle armi siano finite nelle mani giuste. Così come vorrei sapere con più precisione a che gioco giocano, nel Consiglio di Governo formato dagli americani, Abdul Aziz Al Hakim e Ibrahim Jafari, rispettabili aspiranti ministri ma anche, rispettivamente, numero due del Supremo consiglio della rivoluzione islamica e portavoce del partito fondamentalista sciita Dawa. Due movimenti che in lunghi anni di lotta contro Saddam hanno formato milizie molto ben armate e addestrate.
A Sadr City delle armi hanno fatto un uso misurato e razionale. «Quando la guerra è finita, gruppi di giovani sono corsi alle sedi del Baat’ e hanno trovato gli elenchi degli iscritti al partito», spiega Umm Al Husseini, proprietario di un chiosco in cui vende collanine e ciondoli: «Sono andati a cercarli e li hanno uccisi uno per uno. Ecco perché non ci sono molte sparatorie, qui da noi».

L’origine di Saddam City
Basta guardarsi intorno per rendersi conto che il quadretto, per quanto terribile, è ancora un po’ troppo roseo. Il sobborgo fu fondato nel 1963, col nome di Madinat al Thawra (Città della Rivoluzione), per iniziativa di Abd Al Karim Qasim, uno dei generali che nel 1958 avevano cacciato con un colpo di Stato la monarchia hascemita, per accogliere le migliaia di contadini che puntavano verso la capitale per fuggire al disastro delle campagne. In quello stesso 1963 Qasim fu a sua volta cacciato, ma la città rimase e continuò a crescere.
Saddam Hussein, appena preso il potere nel 1979, decise di apportarvi una serie di migliorie, trasformandola da bidonville in bidonville di prima categoria e facendola ribattezzare Saddam City. Il nome attuale, Madinat Al Sadr, "Città di Sadr", è un omaggio alla memoria dell’ayatollah Muhammad Sadiq Al Sadr, assassinato nel 1999, ma anche alla crescente influenza di suo figlio Muqtadar Al Sadr, che aspira a trascinare gli sciiti iracheni su posizioni meno astutamente moderate di quelle degli ayatollah.
 


 

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