Gli Annali di Caffaro
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Prontolibri
Gli Annali di Caffaro
di Stefano Termanini

Il Lavoro - Repubblica
Il DNA di Ulisse
di Luigi Garbato

Il Secolo XIX
Mediterraneo di guerre corsare
di Franco Cardini

 


 

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Da Prontolibri del 25 ottobre 2002

Gli Annali di Caffaro

di Stefano Termanini

Ogni grande tradizione deve essere fondata. I testi di storia servono anche a questo. E Genova può vantare un grande storico alle origini della propria identità comunale. Caffaro di Caschifellone, largamente studiato, noto a tutti i cultori di storia locale, fu autore di tre opere importanti:
gli Annali, che coprono il periodo 1099-1163, la Storia della presa di Almeria e Tortosa e la Liberazione delle città d’oriente. Gli Annali sono il testo ufficiale, scritto con l’approvazione dei consoli del Comune, carica che lo stesso Caffaro tenne a lungo. Tra gli aspetti più interessanti di questa storia, oltre alla capacità di Caffaro di sottrarsi alle lusinghe del mito per preferirgli una storia di avvenimenti, va certamente considerata la consapevolezza dello storico che, già molto giovane, partecipò alla presa di Cesarea, sotto la guida del condottiero genovese Guglielmo Embriaco. Caffaro scrive perché ha visto, conosce la propria appartenenza, sa quali siano i meccanismi politici e sociali della propria città, ne valuta le peculiarità. La situazione politica dei regni esterni alla sua città, a Genova, gli è nota. Affermare, attraverso le sue pagine di storia, il carattere intrinseco di Genova è un modo per misurare la "diversità" di Genova rispetto alle altre città-stato che pure condividevano con Genova coordinate geografiche e socio-politiche anche molto simili (Pisa e Venezia, per esempio). La storia di Caffaro è, dunque, come scrive Gabriella Airaldi, nell’importante saggio che precede l’edizione degli Annali, tradotti e annotati da Marina Montesano, un elogio della diversità.
 

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Da Il lavoro - Repubblica del 7 giugno 2002

 

Genova medioevale volle celebrarsi così

Il DNA di Ulisse

Storici a convegno per la traduzione italiana degli Annali di Caffaro,
documentarista e avventuriero

 

di Luigi Garbato

Si terrà oggi nella sede della Camera di Commercio in via Garibaldi 6, alle ore 17,45, una tavola rotonda su Genova capitale dell'Europa mediterranea nella testimonianza di Caffaro (1099-1163). Vi parteciperanno accademici italiani (Franco Cardini, Salvatore Fodale, Giuseppe Sergi) e stranieri (Ruiz Domènec di Barcellona, Peter Schreiner di Colonia ed Henri Bresc di Parigi). 
Ghiotto pretesto di dibattito sarà la recente pubblicazione degli Annali di Caffaro, curata da Gabriella Airaldi, titolare di Storia medievale nel nostro ateneo e dai suoi collaboratori in questa impresa Massimiliano Macconi e Marina Montesano. Tra le tante miniature che costellano il codice parigino con le opere del cronista genovese ce n'è una che sembra ben individuarne la singolarità: sono di fronte due dignitosissimi personaggi, Macrobio, un notaio, proteso verso il suo interlocutore, Caffaro appunto, quasi a non lasciarsi sfuggire neppure una sillaba del suo dire o anche - chissà - a frenare gli slanci di una fervida fantasia che avrebbe potuto tradire il «vero storico» da raccontare per filo e per segno come si addice a chi ha scelto per esporre una vita intensamente vissuta la severa e puntuale forma degli annali. 
Così aveva voluto la leadership della Genova comunale che nel 1152 (quando Caffaro era ormai avanti negli anni) scelse il severo metodo del documento per testimoniare i propri successi di città, «costretta» dalla propria posizione a confrontarsi con culture, religioni e «uomini diversi» che scorrazzavano nel Mediterraneo (non a caso il soprannome Kafir, l'infedele, «appiccicato» al cronista riporta proprio a quel mare che i genovesi, assieme a guerrieri o mercanti, «fedeli» o «infedeli» solcavano in lungo e in largo). 
E per essere uomo del suo tempo e della sua città lascia la Val Polcevera dove era nato nel 1080/81(pur conservando là i terreni di famiglia) e si lancia in una vita ricca di avventure: giovanissimo con Guglielmo Embriaco «Testa di Maglio» in Terrasanta, alacre e sognante, ad un tempo, affascinato dall'attesa del miracolo che laggiù «deve» avvenire e accadrà davvero nel giorno giusto, quello di Pasqua: «All'interno della chiesa, fuori dall'edicola del Sepolcro, dinanzi a molti che lo videro, in una delle lampade cominciò ad ardere il fuoco...» e poi in uno strabiliante susseguirsi, le lampade che erano fuori... si accesero una dopo l'altra «fino a raggiungere il cospicuo numero di 16». 
Caffaro, che fece scrivere queste cose, era presente e vide e ne rese perciò testimonianza e, senza dubbio, afferma che si trattò di «cosa vera». E allo stesso modo si snoda una lunga teoria di eventi sempre esposti «davanti a notaio», senza mai assumere - cioè - i toni drammatici di coevi episodi comunali con il sangue che scorre a fiotti per le strade a causa delle furibonde risse tra opposte fazioni. Caffaro garantisce la veridicità di quanto ha visto (sì, anche del miracolo) nel corso di una vita lunga e densa che lo ha portato a ricoprire cariche nella sua città e ad affrontare autentiche avventure in lontane contrade. 
Ma a compattare una materia dalle tante sfaccettature c'è la «genovesità» del cronista, il quale - come molti - porta le armi dappertutto e non disdegna consistenti prede e bottini d'Oriente; ma la «politica» di Caffaro è quella di ottenere spazi vitali e operativi, di acquisire fondaci e privilegi oltre mare per aprire ampi orizzonti economici (e non solo) alla propria città. Quindi alla base degli Annali si colloca l'esigenza prima di un cittadino di una città che rifiuta ristretti limiti (quasi imposti dalla sua conformazione fisica) per darsi un respiro europeo, assumendo come raggio d'azione il Mediterraneo, sempre prefiggendosi, però, come meta ultima, in una sorta di marchio D.O.C. tutto genovese, il ritorno a casa, enunciato nel «Proemio» con una sigla dalla perentoria, vincolante, simmetria: i Genovesi «partirono nel 1100, tornarono nel 1101». 
E forse senza saperlo il nostro concittadino di tanti secoli fa ha ereditato il Dna dall'Ulisse omerico avventuroso e «domestico», trasmettendolo poi a quello angosciato di Joyce e infine, senza misteriosi passaggi genetici, ma direttamente attraverso la traduzione degli Annali nel 1908 (commissionata e mai pagata dal Comune di Genova) ad un poeta ligure che - guarda caso - abitò proprio in via Caffaro, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. 
Tormentata figura di intellettuale dalla vita bohémien doveva, almeno nelle intenzioni senz'altro ideologiche del committente, riallacciare il fil rouge della «genovesità» degli uomini dell'età comunale a quelli del primo '900, intenti a trovare un loro nuovo identikit politico e sociologico adatto a tempi diversamente drammatici di inizio secolo. Ma Ceccardo, del «modello» antico sentì - almeno ci pare - soprattutto il «mito» del viandante (non a caso questo è il titolo di un suo poemetto), senza, però, quell'»affanno» del ritorno che era cifra e vanto dei personaggi di Caffaro, per ridursi solo a inquieto peregrinare senza meta, marchio indelebile di una drammatica e continua ansia interiore profondamente novecentesca. Non a caso volle che sulla sua tomba a Staglieno ci fossero solo tre parole dalla forte valenza liberatoria «Hic constitit viator» (qui si fermò il viandante).

 

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Da Il Secolo XIX dell'8 maggio 2002

 

Ritornano in libreria gli "Annales", una delle prime
storie cittadine del nostro Medioevo. Nel 1152 segnarono
la nascita della cronistica ufficiale a Genova

Mediterraneo di guerre corsare

A caccia dell’identità genovese nelle pagine di Caffaro,
marinaio crociato e primo cronista

 

di Franco Cardini

Si parla molto, al giorno d’oggi, d’identità. Nel nostro Paese, d’identità italiana: un interesse nuovo, sintomo del fatto che ci si è scrollati di dosso la pluridecennale reticenza italiana a trattare il concetto di patria. Dopo il fascismo, che lo aveva monopolizzato abusandone, esso era diventato imbarazzante: un handicap che si aggiungeva a un dato di fatto obiettivo, cioè che quella italiana era politicamente parlando una nazione "giovane" e che la sua unità si era compiuta secondo un disegno centralistico sabaudo-garibaldino frutto delle passioni ma anche degli interessi politici della metà dell'Ottocento ma ben poco congruo rispetto alla vera storia della "nazione" italiana, una storia policentrica, municipalistica, regionale.
Ma proprio per questo, se da un lato è salutare la riscoperta del tricolore nazionale (da non sventolare solo nelle partite di calcio), dall'altro è utile riflettere sul fatto che è sempre stato difficile trovare un simbolo da piazzarci al centro, e che davvero rappresentasse tutti gli italiani. Lo scudo sabaudo era l’esito surrettizio di una serie di azioni ideologico-diplomatico-militari, non di un’unica e radicata tradizione (tipo quella, per intendersi, che dei gigli reali aveva fatto sul serio un'emblema in cui tutti i francesi si riconoscevano). Dell'insegna della repubblica e della sua sconcertante banalità, per carità di patrie - è il caso di dirlo - è meglio non parlare. Buona ancorché parziale fu per questo la scelta della Marina militare: al centro della sua bandiera, una combinazione degli "stemmi" delle antiche repubbliche marinare. Un bell'effetto dal punto di vista estetico, e una buona indicazione storica: l'Italia sul mare, nelle sue radicate tradizioni, risale a quel tempo e a quelle gloriose città di marinai, di mercanti, di predoni.
Predoni, certo. La storia del Mediterraneo è in buona parte storia di guerre corsare; storia della "partita di giro" e delle guerre reciproche tra greci e punici, romani e punici, saraceni e bizantini, saraceni ed italici, genovesi e pisani, genovesi-pisani e arabo-ispanici o arabo-maghrebini, cavalieri di Rodi-Malta e barbareschi, eccetera eccetera. Si potrebbe andare avanti un bel pezzo di questo passo. Senza peraltro dimenticare che questi continui raid, punteggiati di affascinanti storie di schiavi, di riscattati, di rinnegati, di pellegrini, di pirati, di avventurieri, di fuggitivi e di voltagabbana, si stendevano paradossalmente su un tessuto di rapporti economici, diplomatici e culturali tra città, regni, paesi e religioni differenti: rapporti ch'erano continui e positivi, di stretta e paradossale amicizia.
Una storia strana e contraddittoria, questa del Mediterraneo. Continente liquido, come lo chiamava Fernand Braudel. E anche patria comune di tutti i popoli che vi si affacciano: europei, asiatici, africani, cattolici, ortodossi, musulmani. Accanto ad un’identità italiana ancora in gran parte da costruire oltre che da storicamente recuperare (fatta l’Italia un secolo e mezzo fa, si sono davvero fatti gli italiani?), quel che oggi è dunque importante recuperare è da una parte la nostra tradizione identitaria cittadina, dall’altro la tradizione (e la "vocazione") mediterranea, sotto certi aspetti più autentica e sentita che non quella europea. E non parliamo dell’identità occidentale, a proposito della quale ci sarebbe davvero da chiedersi che cosa mai abbia significato. Anche per questi motivi, che sono di carattere civico e hanno un’importanza da giocare tutta ai nostri giorni, va salutato con piacere il ritorno in libreria del Padre dell'identità storica genovese. Parliamo di lui: di Caffaro di Rustico da Caschifellone (oggi, forse, San Cipriano in Val Polcevera), cittadino e politico della Genova a cavallo tra XI e XII secolo; marinaio, crociato insieme con Guglielmo Embriaco, infine cronista della sua città e in un certo senso autentico fondatore delle memorie genovesi.
Non sappiamo in realtà quando e perché abbia cominciato a scrivere i suoi Annales, una delle prime cronache cittadine del nostro medioevo. Caffaro: o, come diceva Giovanni Ansaldo, "del genovesismo". Nato verso il 1080, Caffaro mancò per un'incollatura la conquista di Gerusalemme del 1099, ma fu con Guglielmo "Testadimaglio" alle presa di Cesarea, nel 1101. Fu quell'episodio esaltante a dar forse al giovane genovese la prima idea di tradurre in uno scritto i suoi ricordi e la memoria delle glorie cittadine. Divenne scrittore e forse perfino un po' grafomane, nel suo bel latino approssimativo e pieno di vita sotto l'impacciata scorza delle inevitabili reminiscenze ecclesiali e notarili. Nel 1152, presentò ai consoli della città la sua opera, che divenne esemplare: da allora, Genova si dotò di una cronistica ufficiale. Dal canto suo, egli continuò a stendere le sue memorie, che giungono al 1163: dovette morire poco dopo, a una bella età per i suoi e anche per i nostri tempi. L'ottantina, quando lasciò questa valle di lacrime, doveva averla compiuta da un pezzo.
Di Caffaro si sono sempre dovuti occupare un po' tutti gli storici di Genova; i suoi Annales e le altre sue opere hanno ricevuto anche varie edizioni. Quella del geniale e sfortunato Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, uscita postuma nei primi anni Venti, a modo suo fece epoca. Era tempo però che questa prima memoria cittadina fosse rimessa in circolazione e potesse rientrare nelle case dei genovesi. Ci ha pensato Gabriella Airaldi, curatrice - insieme con Marina Montesano e Massimiliano Macconi - di un volumetto di formato quasi tascabile, "Gli Annali di Caffaro 1099-1163" (Fratelli Frilli Editori), che raccoglie una nuova agile traduzione della cronaca, curata dalla Montesano, preceduta da tre studi che inquadrano la vicenda dell’avventuriero cronista e della sua opera vista nel contesto del Mediterraneo del tempo e dell'espansione genovese; e non senza un omaggio ispirato a sobria commozione per la difficile avventura terrena del Roccatagliata Ceccardi.
Gli Annali non si riassumono: vanno letti. Ma non è tutto. Di Caffaro sono uscite e stanno uscendo anche altre opere. Scritti "minori"? Rispetto al lavoro più ampio, sì. In senso assoluto, sospendiamo il giudizio prima di darci ad incaute aggettivazioni. Vedremo: sono altre storie, come direbbe Kipling, al quale Caffaro sarebbe senza dubbio piaciuto.

 


 

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