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I traditi di Corfù
I traditi di Cefalonia
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ASCA
Presentato 'I traditi di Cefalonia'
Il Lavoro
Corfù e Cefalonia, due volte
traditi
Bari Sera
Corfù, settembre 1943
di Felice Laudadio
Il Giornale di Vicenza
Cefalonia: gravi
responsabilità del Generale Gandin?
di Luca Valente
Italia-Iraq
I traditi di Cefalonia
Il Secolo XIX
Una lettera inedita accusa
il generale Gandin
di Paolo Battifora
Italia-Iraq
I traditi di Corfù
Il Tempo
L' "eroe" di cui non c'era
bisogno
di Marco Patricelli
La Nazione
Corfù e i soldati italiani
potevano essere salvati
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Agenzia ASCA -
2 febbraio 2004
Guerra liberazione: presentato
libro "I traditi di Cefalonia"
(ASCA) - Firenze, 2 feb - ''Le vicende di Corfù e di
Cefalonia sono un argomento vergognosamente trascurato dall'Italia. Ecco perché
il mio libro si chiama 'I traditi di Cefalonia''. Lo ha detto questa sera
Paolo Paoletti, ricercatore, che ha deciso di ricostruire, attraverso un
puntiglioso lavoro negli archivi di mezza Europa, le tragiche vicende di
Cefalonia e della Divisione Acqui. ''Io sono un ricercatore, non uno storico -
ha spiegato ancora Paoletti -; faccio i conti con i documenti e non offro
spiegazioni di grande respiro. Per questo ho posto una domanda agli storici:
perché i tedeschi sterminarono i soldati italiani solo a Cefalonia, e non in
altri posti, dove pure ci furono sacche di resistenza? Nessuno mi ha fornito
ancora una risposta convincente''. Di fatto la ricostruzione operata da Paoletti
nel volume 'I traditi di Cefalonia', edito nella collana storica dei Fratelli
Frilli Editori e presentato questo pomeriggio al Consiglio regionale della
Toscana, ha portato alla scoperta di documenti nuovi e a una parziale
rivisitazione della dinamica dell'accaduto. Paoletti avrebbe scoperto nuovi
documenti inediti che imporrebbero una rilettura generale di tutti i fatti che
precedettero l'inizio delle ostilità. In particolare una lettera consegnata dal
generale Antonio Gandin, comandante della divisione Acqui, al comandante del
presidio tedesco di Cefalonia, in cui l'ufficiale italiano accusava la divisione
di non aver ubbidito al suo ordine di deporre le armi. Nel libro di Paoletti si
ripropone quella lettura, insieme ad altri documenti tedeschi dove si accusano i
soldati italiani di atti di ribellione contro gli ufficiali favorevoli alla
resa, come unica spiegazione al fatto che Hitler ordinò solo a Cefalonia
l'esecuzione di massa dei soldati prigionieri di guerra.
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da
Il
Lavoro del
9 dicembre 2003
I saggi di Paolo Paoletti sull'8 settembre nei
Balcani
Corfù e Cefalonia
due volte traditi
La storia della seconda guerra mondiale tiene banco anche in
libreria. Fratelli Frilli Editori propone al proposito due titoli
dedicati ad altrettanti episodi che seguirono l’8 settembre: “I traditi di
Corfù” e “I traditi di Cefalonia”, entrambi di Paolo Paoletti.
Due casi emblematici del nuovo corso della guerra attraverso i documenti degli
archivi militari: nel 60° dei due eccidi, Paoletti ricostruisce gli eventi nel
teatro di guerra dello Ionio, le isole di Corfù e Cefalonia, appunto.
Nel primo caso il colonnello Lusignani, comandante del 18° reggimento fanteria,
non ebbe tentennamenti, diversamente dal suo superiore, il generale Gandin, a
Cefalonia.
Corfù respinse il primo tentativo di sbarco tedesco ma dovette cedere sotto il
secondo: il 20 settembre gli alleati decisero di intervenire in soccorso. Ma la
decisione fu tardiva. A Cefalonia, tutt’altra situazione e, secondo Paoletti, un
fatto mai successo nella storia militare di tutti gli esrciti: che un generale,
comandante di divisione, dichiarasse al nemico e non ai suoi superiori
l’ammutinamento dei propri soldati. Dell’eccidio di Cefalonia è in libreria
anche “L’Ulivo di Argostòli. Lettere da Cefalonia di un marinaio di collina” (De
Ferrari editore): le tragiche vicende della divisione Acqui nel racconto del
giornalista Carlo Cerrato.
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da Bari Sera del
4 novembre 2003
Corfù, settembre1943
Grazie a documenti inediti, Paolo Paoletti
riprende la dolente storia greca
di Felice Laudadio
Guerra non è bello, contrariamente a quello che hanno pensato
i giovani in tutti i secoli. Nemmeno è facile parlarne quando per farlo bisogna
ricordare soprattutto i morti. Furono tanti, solo sessant’anni fa, in due isole
ioniche così vicine a noi che oggi evocano il calore dell’estate e delle
vacanze, cui riesce arduo sostituire il crepitare delle armi automatiche e il
fuoco dei roghi che bruciarono centinaia di poveri corpi.
Quasi diecimila caduti per un rigurgito di dignità e di orgoglio. Troppi per
dimenticarli.
Corfù, settembre 1943: 120 km più vicina alla Puglia di Cefalonia. A neanche tre
ore di volo dagli aeroporti militari salentini, già in mano agli Alleati. A un
passo dal Re, da Badoglio e dal suo Governo, riparati a Brindisi. Ma anche a uno
sparo dalla terraferma greca (due km), sotto il tiro diretto delle batterie
tedesche.
Celebrare date fatidiche come quelle che ricordano la tarda estate di sessant’anni
fa, rinnova le ferite dell’armistizio dell’8 settembre. Il cinismo delle
autorità militari italiane che provocò il collasso istantaneo delle nostre forze
armate. La cautela dei comandi Alleati, imbastita di diffidenza, che lasciò
quasi un milione di uomini in grigioverde al loro destino. Lo sbandamento, che
costò migliaia di vittime in pochi giorni, tra caduti, feriti, dispersi e quasi
settecentomila deportati.
Si parla finalmente della tremenda strage di Cefalonia, a lungo taciuta per
rispetto della Germania post nazista, accolta nella Nato. Si ripensa oggi, con
uguale smarrimento, al sacrificio di quasi 600 dei cinquemila soldati di
guarnigione nell’isola di Corfù, a una notte di mare dalle coste leccesi.
A ricordare, con sensibilità e metodo, è il ricercatore Paolo Paoletti,
grazie a documenti inediti di fonte soprattutto inglese, alla base del volume
che riprende la dolente odissea dei reparti di stanza nel gioiello dello Ionio.
Per due settimane ressero all’attacco tedesco, sfidato, provocato e in un primo
tempo respinto. Diversamente dal suo comandante divisionale a Cefalonia, Gandin,
il col. Lusignani non ebbe dubbi: “le armi ai tedeschi non si cedono!”.
Mancò l’appoggio della nostra aviazione, che pure avrebbe potuto fare la sua
parte. A Brindisi, il comando tentennò, oscillò, prese tempo, aspettando la
mossa alleata, che arrivò, tardiva, dopo un “niente da fare” iniziale. Quando
l’ufficiale inglese di collegamento raggiunse Corfù per organizzare il soccorso,
i tedeschi stavano ormai lanciando l’attacco decisivo. E Lusignani pagò con la
vita una scelta nel segno dell’onore militare: venne fucilato, con 26 ufficiali.
Qui, reparti minori della Acqui fecero fronte al nuovo nemico e difesero l’isola
con i denti. A Cefalonia la divisione visse l’olocausto di quasi cinquemila
fucilati, con le esecuzioni di massa ordinate da Hitler, furioso per la
resistenza guidata soprattutto dagli ufficiali inferiori, come i capitanti Amos
Pampaloni e Renzo Apollonio. Gandin li accusava di disobbedienza all’ordine di
resa: la sua nota al comando tedesco è ricostruita dallo stesso Paoletti
nell’analogo “I traditi di Cefalonia” (sempre Fratelli Frilli Editori,
352 pag., 19,50 €). È un documento che brucia, arriva dagli archivi Wermacht e
getta un’ombra sulla medaglia d’oro alla memoria del generale, poi giustiziato
dai nazisti.
A Corfù, invece, gli ufficiali germanici si astennero da stragi indiscriminate:
scelsero di ignorare l’ordine di Hitler di uccidere tutti gli italiani. I nostri
caddero in combattimento o vennero beffardamente uccisi da ‘fuoco amico’: dagli
aerei inglesi che attaccarono per errore i campi di prigionia e dai siluri che
affondarono i trasporti verso i lager.
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da
Il
Giornale di Vicenza del
2 novembre 2003
LIBRI. Una ricostruzione dell’eccidio del
settembre ’43 destinata a fare discutere
I traditi di Cefalonia. Gravi
responsabilità del generale Gandin?
Dopo l’8 settembre il comandante della Acqui
avrebbe infranto gli ordini intavolando trattative di resa
di Luca Valente
«Il generale Antonio Gandin, comandante della Divisione Acqui
a Cefalonia, medaglia d’oro al valor militare nel 1948, se fosse sopravvissuto
alla fucilazione sarebbe finito sotto corte marziale. Non aveva esitato,
infatti, a presentare come ammutinati i suoi uomini (che volevano combattere) al
nemico, per cui quest’ultimo si sentì autorizzato a sterminarli dopo la
battaglia». La sorprendente tesi, contraria alla corrente vulgata storiografica,
è contenuta nell’ultimo libro dello storico fiorentino Paolo Paoletti (I
traditi di Cefalonia ,Fratelli Frilli Editori), già conosciuto nel
Vicentino come autore di un controverso saggio sulla strage di Pedescala.
Non troppo sorprendente, a dire la verità, se si vuole dare credito al lavoro
archivistico da lui condotto all’Ufficio storico dello Stato maggiore
dell’Esercito e della Marina, all’archivio militare di Friburgo e tra gli atti
del processo di Norimberga contro il generale Hubert Lanz, comandante del XXII
corpo d’armata germanico. La ricerca di Paoletti ha portato alla luce nuova
documentazione e, soprattutto, riproposto una lettera di Gandin consegnata il 14
settembre al tenente colonnello Hans Barge, comandante del presidio tedesco, in
cui l’alto ufficiale accusava la Acqui di non aver ubbidito al suo ordine di
deporre le armi: «Die Division weigert sich meinen Befehl auszuführen...».
Esponendola con tali parole all’ira di Hitler, che solo per Cefalonia (in nessun
altro luogo ciò avvenne) emanò un "Sonderbefehl", un ordine speciale: non fare
prigionieri.
La lettera, scoperta nel 1974 dal cappellano militare don Luigi Ghilardini e
rimasta ignorata nonostante venisse ripresa nel 1985 dal generale Renzo
Apollonio, principale oppositore alle trattative di resa, getta ombre
inquietanti sulla figura di Gandin, filotedesco e decorato di croce di ferro di
prima classe, peraltro già accusato nel 1945 da alcuni reduci. Nella
ricostruzione di Paoletti l’ufficiale, messo in crisi dall’armistizio, non se la
sentì di attaccare i tedeschi nonostante da Marina Brindisi fosse arrivato l’11
settembre l’ordine di considerarli nemici: invece si ritirò dal nodo strategico
di Kardakata per cederlo all’ex alleato, come segno di buona volontà, quindi
interruppe ogni contatto con la madrepatria e infranse gli ordini intavolando
trattative di resa, nell’illusione di farsi imbarcare dagli stessi tedeschi per
l’Italia addirittura conservando le armi.
I tedeschi, in inferiorità numerica, trattarono per una settimana: una volta
ricevuti i rinforzi passarono all’attacco e vinsero la battaglia grazie ai loro
Stukas, che avevano il totale dominio dell’aria. Quindi arrivò il bestiale
ordine del Führer di eliminare sistematicamente tutti i prigionieri, feriti
compresi, considerati "franchi tiratori". Il 24 settembre il Comando supremo
germanico dichiarò: «La divisione italiana ribelle sull’isola di Cefalonia è
stata distrutta». Il peggiore eccidio militare che la storia ricordi, di cui si
è commemorato da poco il sessantesimo anniversario.
Paoletti, autore notoriamente "not politically correct", lancia ulteriori
strali. I nostri soldati furono traditi anche dagli alleati, che ignorarono il
Documento di Québec del 18 agosto 1943 con cui si impegnavano a evacuare le
truppe italiane dai Balcani. Traditi dal Comando supremo italiano che non ne
pretese l’applicazione e ordinò il loro sacrificio, ben sapendo di non poter
portare alcun aiuto. Traditi dai partigiani greci che li incitarono alla lotta
per poi abbandonarli. Traditi dal Ministero della difesa che di fronte a 6-9
mila caduti dispensò appena 15 medaglie d’oro (di cui, secondo l’autore, una di
troppo). Traditi dai giudici militari americani che a Norimberga condannarono il
generale Lanz a 12 anni di reclusione, dei quali solo 5 scontati. Traditi dalla
Procura di Dortmund che archiviò la vicenda nel 1969. Traditi dagli ex ministri
Taviani e Martino e dal procuratore generale militare di Roma che insabbiarono
il fascicolo su Cefalonia. Traditi dalla Repubblica italiana che solo nel 1980,
con Pertini, rese omaggio a quei caduti che pesano come macigni sulla coscienza
della nostra Nazione.
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da
Italiairaq del
28 settembre 2003
I traditi di Cefalonia
Questo libro dello storico Paolo Paoletti (già autore di "I
traditi di Corfù") offre un prezioso contributo al ristabilimento della verità
in ordine all'eccidio di Cefalonia (8-25 settembre 1943).
"In questi 60 anni - osserva l'Autore - si è scritto che Cefalonia rappresenta
il simbolo del sacrificio dei soldati italiani morti nel segno dell'ubbidienza
agli ordini, ma tra quei martiri c'è una medaglia d'oro che usurpa questi meriti
e che non ha riscattato con la morte davanti al plotone d'esecuzione tutto il
male che aveva, forse inconsciamente, causato alla sua divisione".
Paoletti allude al gen. Antonio Gandin, comandante della divisione "Acqui", che
nel 1948 ricevette la medaglia d'oro al VM. Allora, però, non si conosceva
ancora la lettera da lui consegnata al comandante del presidio tedesco di
Cefalonia, nella quale accusava la divisione di non aver ubbidito al suo ordine
di deporre le armi. "Furono queste false accuse - scrive Paoletti - riferite al
gen. Lanz e al col. Barge, poi messe per iscritto da Gandin - non a caso
nascoste agli italiani per decenni [il documento fu, infatti, scoperto nel 1974
e parzialmente pubblicato dal cappellano militare don Luigi Ghilardini] - a
contribuire alla condanna a morte di alcune migliaia di nostri soldati".
Alla luce di questo sconcertante retroscena, risulta davvero difficile trovare
una diversa spiegazione alla tragica fine della divisione "Acqui". "Le
confidenze fatte ai tedeschi da Gandin - aggiunge l'Autore - e il fatto che
l'eccidio di massa dei prigionieri di guerra si concretizzi solo a Cefalonia,
sono la riprova che quella fu una decisione presa a seguito delle parole del
nostro generale e non della resistenza opposta dalla divisione. […] Purtroppo è
un fatto che Gandin non solo non obbedì ai ripetuti ordini del governo, non
reagendo alle intimidazioni di resa, trattando con i tedeschi, che sapeva di
dover considerare nemici, ma alla fine confessò ai tedeschi quello che avrebbe
dovuto dire solo al CS [Comando Supremo]: che i soldati si ribellavano al suo
ordine".
Gli uomini della divisione "Acqui", tuttavia, non furono traditi soltanto dal
loro comandante. Il libro di Paoletti fa emergere le responsabilità degli
Alleati, "i britannici in particolare, che non rispettarono quelle stesse
clausole armistiziali che ci avevano imposto, come se i vincitori potessero
scegliere se onorarle o meno. […] Gli Alleati si erano impegnati a rimpatriare
le nostre truppe e invece non trasferirono in Italia neppure un soldato. […]
Dunque i soldati della Acqui furono traditi dagli unici che potevano salvare le
nostre guarnigioni. Massacrati a 230 miglia da Brindisi, a 10 ore di navigazione
dalle nostre coste".
L'Autore punta altresì il dito contro il Comando Supremo, colpevole di non aver
preteso dagli Alleati l'applicazione del documento di Quebec, sebbene la
situazione fosse stata subito giudicata "grave". "Debole con i forti, spietato
con gli indifesi. Nella sua logica tutta improntata al sacrificio delle truppe,
quando da Cefalonia giunse la prima richiesta di evacuazione, poi quella di
aiuti militare, il Comando Supremo rispose "immolatevi", che la patria non
dimenticherà il vostro sacrificio. Il grottesco fu che gli aerei e i soccorsi
arrivarono su Cefalonia, quando ormai la guarnigione era già stata annientata".
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da
Il Secolo XIX del
10 ottobre 2003
Un libro di Paolo Paoletti getta una nuova luce
sull’eccidio
tedesco in cui perirono cinquemila soldati italiani
Una lettera inedita accusa
il generale Gandin
Fu il comandante della Acqui a offrire a Hitler
il pretesto per il massacro di Cefalonia
di Paolo Battifora
"A Capo San Teodoro, davanti al mare, tra gli ulivi
mediterranei, si fucila dalle 8.30 a mezzogiorno. A mezzogiorno il tenente che
comanda il plotone appare stanco, persino lui, di tanto sangue. Ordina il
cessate il fuoco... E così a San Teodoro si ricompone il silenzio antico del
mediterraneo; e si ricompone, a poco a poco, il silenzio della morte su
Cefalonia“ (Gerhard Schreiber).
A Cefalonia, isola greca sullo Ionio, si consumò la più efferata strage di
militari della seconda guerra mondiale: per aver resistito con le armi ai
tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, oltre 5mila italiani, tra ufficiali
e semplici soldati, furono fucilati dopo la cattura in spregio ad ogni
convenzione internazionale di guerra.
Spaventoso fu il tributo di vite pagato dalla Divisione Acqui, forte di 12.500
uomini: ad oltre 10mila caduti ammonta infatti il complessivo bilancio -
compresi i morti in battaglia e coloro che, fatti prigionieri, perirono nel
naufragio delle navi tedesche dirette a Patrasso - di un massacro ordinato
direttamente dal Führer.
Se il sacrificio della Divisione Acqui a Cefalonia ha rappresentato uno tra i
primi e più nobili atti di resistenza in nome della patria e dell’onore, la sua
memoria è andata invece soggetta a un lungo periodo di oblio, sia da parte delle
istituzioni che della storiografia. Imbarazzante infatti poteva risultare per i
vertici delle forze armate, responsabili dello sfascio dell’esercito italiano
all’indomani dell’8 settembre, celebrare una pagina gloriosa che avrebbe ancor
più evidenziato la codardia e la meschinità di una classe dirigente per cui
“contava soltanto il vertice istituzionale e non le sorti dei cittadini” (Rochat)
e che di fatto abbandonò al proprio destino, risoltosi per oltre 650mila soldati
nell’internamento nei lager, i propri uomini: la mancata difesa di Roma, la fuga
precipitosa verso Pescara, l’indecoroso parapiglia degli alti generali per
assicurarsi un posto sulla corvetta Baionetta in partenza col re per Brindisi,
sono al riguardo eloquenti.
Anche in ambito storiografico il ricordo della Divisione Acqui ha faticato ad
affermarsi, stante a lungo la concezione, veicolata dalle sinistre, di una
resistenza identificabile esclusivamente con le formazioni partigiane e la
struttura dei Cln: gli eroici “badogliani”, patrioti sì ma non partigiani
politicizzati, non rientravano nello schema.
A partire dalla visita a Cefalonia del presidente Pertini nel 1980 (nel 2001 è
stata la volta di Ciampi), le cose sono cominciate lentamente a cambiare e in
questi ultimi anni abbiamo assistito ad un moltiplicarsi di saggi, articoli e
convegni. Ma sui fatti di Cefalonia, oggetto nel 1957 persino di un processo a
carico di alcuni reduci, continuano a infuriare le polemiche, l’ultima delle
quali nasce dal saggio di Paolo Paoletti, oltremodo compiaciuto nel
definirsi storico “not politically correct”, che in I traditi di Cefalonia
(pag. 351, Euro 19,50, Fratelli Frilli) addita il generale Gandin, comandante
della Divisione Acqui e medaglia d’oro al valor militare, quale principale
responsabile del massacro tedesco.
Traditi non una, bensì nove volte da una pluralità di soggetti comprendenti tra
gli altri gli Alleati, il Comando supremo italiano, i giudici di Norimberga e
una classe politica che negli anni Cinquanta insabbiò i processi a carico dei
criminali nazisti, i soldati di Cefalonia furono passati per le armi, secondo
Paoletti, a causa della scriteriata e criminale condotta di Gandin, responsabile
di aver comunicato per lettera ai tedeschi la ribellione dei suoi soldati (“la
divisione si rifiuta di eseguire il mio ordine”), decisamente contrari alla
resa. In questo modo il generale avrebbe di fatto equiparato i suoi uomini a dei
ribelli, offrendo a Hitler l’opportunità di trattarli come tali: i nostri
soldati, è la lapidaria conclusione di Paoletti, vennero quindi massacrati non
per aver resistito con le armi (“sull’arma si cade ma non si cede”) ai tedeschi
ma per essersi ribellati agli ufficiali italiani.
Basato su fonti in parte inedite (la lettera “incriminata” di Gandin del 14
settembre è riprodotta in appendice), di non agevole lettura per i copiosi
documenti riportati non in nota ma direttamente nel testo, irritante
nell’ossessivo ripetere le tesi di fondo dell’opera (d’accordo che repetita
iuvant, ma a tutto c’è un limite!), I traditi di Cefalonia sconta un eccesso di
vis polemica, unilateralismo e sensazionalismo più tipici del pamphlet che della
rigorosa opera storica. Un tono più misurato e meno “tribunalizio”, un approccio
più problematico e meno categorico avrebbero di sicuro giovato ad un testo la
cui eventuale plausibilità storica rischia di annegare nel gran mare della
polemica e dell’invettiva a senso unico.
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da
Italiairaq del
18 ottobre 2003
I traditi di Corfù
Paolo Paoletti - già docente di Lingua e Letteratura
tedesca ed inglese, oggi ricercatore negli archivi militari - è uno scrittore
"politicamente scorretto". In questo recente saggio (frutto di ricerche
archivistiche presso l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito e
della Marina Militare, l'archivio militare tedesco di Friburgo e il Public
Record Office di Londra), rilegge i fatti del settembre 1943 a Corfù.
Con il proclama dell'armistizio dell'8 settembre 1943, la reazione dei soldati
italiani - in particolare quelli dislocati nei Balcani - fu unanime: chiedere
l'imbarco per il ritorno in patria. Ma dopo due giorni di silenzio, gli ordini
del Comando Supremo furono di considerare i Tedeschi come nemici e di resistere
sul luogo. E il col. Lusignani, comandante del 18° reggimento fanteria di stanza
a Corfù, non ebbe esitazioni, a differenza del suo superiore, il gen. Gandin, a
Cefalonia. Corfù respinse il primo tentativo di sbarco tedesco, ma dovette
cedere sotto il secondo. Il Comando Supremo e l'Aviazione sottovalutarono la
situazione critica in cui versò l'isola per una decina di giorni. Gli
anglo-americani, che non avevano rispettato gli accordi di Quebec del 18 agosto
1943, in base ai quali le Nazioni Unite si impegnavano a sgomberare le truppe
italiane nei Balcani, rimasero sorpresi della resistenza dell'isola e il 20
settembre decisero d'intervenire in soccorso con proprie truppe. Ma la decisione
fu tardiva.
Quali ragioni determinarono la caduta di Corfù? In primo luogo l'Aviazione
italiana non utilizzò l'aeroporto di Corfù, lasciando ai Tedeschi il pieno
controllo del cielo e del mare, perché l'isola rimase senza rinforzi per due
settimane e fu vittima del contraddittorio atteggiamento anglo-americano: fino
al 17 settembre, infatti, gli anglo-americani impedirono l'invio di rinforzi;
poi, quando si resero conto che potevano sfruttare la determinazione del
presidio italiano per mantenere Corfù in mani italiane, si mossero ma i Tedeschi
sbarcarono proprio il giorno in cui un generale inglese avrebbe dovuto arrivare
per coordinare l'arrivo sull'isola del contingente alleato. Il Fuehrer auspicò
che i soldati di Corfù conoscessero il medesimo destino del presidio di
Cefalonia, ma il comandante del XXII Corpo d'Armata, gen. Lanz, e quello della I
divisione alpina, von Stettner, seguirono altre direttive: vennero così fucilati
solo i ventisei ufficiali che si erano opposti con le armi allo sbarco tedesco.
La "storiografia italiana - scrive Paolo Paoletti - ha sempre avuto un
atteggiamento assolutorio verso la mancata difesa delle isole, in particolare
Cefalonia e Corfù, come se fosse stato un destino ineluttabile quello di
soccombere sotto gli attacchi tedeschi. Se invece si rileggono le carte si vede
che la distanza di Corfù dalle coste pugliesi di circa 120 km minore rispetto a
quella di Cefalonia, poteva essere sostanziale ai fini del mantenimento
dell'isola in mani italiane. In effetti i 370 km di distanza dalle piste
pugliesi facevano di Cefalonia un obiettivo irraggiungibile ai nostri
caccia-bombardieri, mentre Corfù rientrava nel raggio d'azione dei nostri aerei
e a maggior ragione delle nostre navi".
"Uno dei motivi - aggiunge l'Autore - che ci hanno spinto a scrivere un libro
sul settembre 1943 a Corfù è stato anche il fatto che i documenti ci hanno
svelato che la resistenza italiana a Corfù divenne effettivamente disperata per
il mancato rispetto degli accordi da parte degli Alleati e per gli errori
strategici e tattici del Comando Supremo e dell'Aviazione italiana. Le novità di
questa ricerca provengono per lo più da documenti inediti: gli allegati del
Diario Storico del Comando Supremo […], le testimonianze dei reduci conservate
all'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito e a quello della Marina,
gli atti del processo di Norimberga contro il gen. Lanz e il rapporto ufficiale
della missione militare "Acheron", che arrivò a Corfù il 21 settembre 1943".
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da
Il Tempo del
10 settembre 2003
Cefalonia, documenti trovati a Friburgo fanno
del generale Gandin il responsabile dell’eccidio
L’«eroe» di cui non c’era bisogno
di Marco Patricelli
Da un lato la retorica che incorona un eroe, dall’altro un
documento che sfronda gli allori di un mito riconducendolo sui binari severi
della storia. Fu vera gloria, quella del generale Antonio Gandin, comandante
della Divisione Acqui trucidata a Cefalonia? Per lo storico fiorentino Paolo
Paoletti la risposta è decisamente negativa, e dettagliatamente argomentata
nel libro «I traditi di Cefalonia - La vicenda della Divisione Acqui
1943-1944» (Fratelli Frilli, 2003). A rovesciare il giudizio su Gandin è un
paziente lavoro di ricerca negli archivi di Friburgo, da dove è emersa una
lettera che se da un lato esalta il gesto dei soldati della Acqui che in nome
del dovere decidono di opporsi armi in pugno ai tedeschi, dall’altra inchioda il
loro comandante. Gandin il 14 settembre 1943 scrive che «die Division weigert
sich meinen Befehl auszuführen», cioè che la Acqui si era ammutinata. La
questione, inaudita, è che il generale non comunica quel che avviene nel suo
reparto di stanza sull’isola greca al Comando supremo italiano, bensì al tenente
colonnello Hans Barge, il nuovo nemico sulla scia dell’armistizio dell’8
settembre. Gandin, nato ad Avezzano il 13 maggio 1891, già capufficio dello
Stato maggiore di Badoglio, cui scriveva i discorsi, era di sentimenti
germanofili, decorato di croce di ferro di prima classe, parlava il tedesco.
L’armistizio l’aveva spiazzato: l’animo lo portava a rimanere al fianco dei
tedeschi (con cui aveva mantenuto rapporti cordiali e frequenti), gli ordini a
combatterli, le circostanze a tentare di trovare una via d’uscita che tutelasse
i suoi uomini («i figli di mamma», li chiamò) e il suo senso dell’onore. Salvare
i corpi dei soldati e la sua anima si rivelò un compromesso impossibile in
quello scenario e in quel frangente storico. Fece la scelta peggiore, nei modi
peggiori, e legò il suo nome al più feroce eccidio militare della seconda guerra
mondiale a opera della Wehrmacht, con lo sterminio sistematico di soldati che si
erano arresi, senza che nessuno abbia pagato per questo (un processo intentato
in Germania nel 1969 si concluse con l’archiviazione, un secondo procedimento è
stato aperto a Dortmund nel 2001). L’analisi di Paoletti, destinata a far
discutere, si articola su una serie di "tradimenti" ai danni dei soldati della
Acqui. In primo luogo la mancata applicazione del Documento di Québec del 18
agosto 1943, con cui gli Alleati si impegnavano a evacuare le truppe italiane
dai Balcani, cosa che non avvenne né a Cefalonia né altrove. Quindi il
comportamento di Gandin, che denuncia ai tedeschi la ribellione dei suoi uomini,
riferita al generale Lanz e al tenente colonnello Barge, quindi messa per
iscritto il 14 settembre. L’inerzia del Comando supremo italiano che non pretese
dagli Alleati l’applicazione del Documento di Québec e poi ingiunse alla
Divisione di immolarsi: «ogni vostro sacrificio sarà ricompensato», comunicò il
generale Ambrosio. Il Ministero della difesa, a fronte di 6-9mila caduti, nel
1948 dispensò appena 15 medaglie d’oro al valor militare: una andò a Gandin,
parificato in tal modo al generale Luigi Lusignani che a Corfù da subito aveva
combattuto i tedeschi così come prevedevano gli ordini dall’Italia. Un altro
"tradimento" della Acqui, a detta di Paoletti, sarebbe stato compiuto dai
giudici militari americani che a Norimberga per quel crimine condannarono il
generale Hubert Lanz a 12 anni di reclusione e gliene fecero scontare cinque. E
poi: la Procura di Dortmund dopo aver ascoltato 231 testi (due soli
italiani)archiviò; gli allora ministri Paolo Emilio Taviani e Gaetano Martino e
il procuratore generale militare di Roma «insabbiarono il fascicolo su
Cefalonia, impedendo il processo contro i criminali di guerra tedeschi» (ma un
primo insabbiamento a salvaguardia della memoria di Gandin c’era già stato il 4
settembre 1945 a opera del Ministero della guerra). Infine, la Repubblica
italiana che solo nel 1980 ha reso omaggio ai caduti di Cefalonia, oggi entrati
nell’immaginario collettivo come simbolo della resistenza dell’esercito. La tesi
di Paoletti è che per quella lettera di Gandin che li accusava di ammutinamento
e arrivata molto in alto, fino a scatenare la rabbiosa reazione di Hitler il
quale ordinò il massacro, i soldati italiani furono considerati «franchi
tiratori» (i tedeschi li chiamarono proprio così) e passati per le armi con una
ferocia d’altri tempi. Ci furono eroi, a Cefalonia, in numero superiore a quanti
sono stati decorati, ma tra questi ce n’è forse uno di troppo.
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da
La
Nazione del
30 luglio 2003
Corfù e i soldati italiani
potevano essere salvati
Corfù e i soldati italiani potevano essere salvati
dall'offensiva di violenza tedesca scatenata dopo l'8
settembre '43. Lo afferma nel suo ultimo libro «I
traditi di Corfù» (Fratelli Frilli Editori, 14 euro) il
fiorentino Paolo Paoletti, già docente di Lingua e
Letteratura tedesca ed inglese, oggi ricercatore
negli archivi militari. Vittima di silenzi l'esercito
italiano come a Cefalonia fu abbandonato: la
ricostruzione è attenta e offre un nuovo squarcio di
verità per il fronte greco-balcanico.
Dopo l'8 settembre 1943 i tedeschi si sentirono
traditi, titubanti i nuovi alleati. Nel mezzo gli italiani
di stanza in luoghi ritenuti stretegici. La prima
reazione dei soldati sorpresi nei Balcani, fu
unanime: chiedere l'imbarco per il ritorno in patria.
Ma dopo due giorni di silenzio - ricostruisce Paoletti
- gli ordini del Comando Supremo furono di
considerare i tedeschi come nemici e di resistere sul
luogo. E il colonello Lusignani, comandante del 18°
reggimento fanteria di stanza a Corfù, non ebbe
tentennamenti, diversamente dal suo superiore, il
generale Gandin, a Cefalonia. Corfù respinse il
primo tentativo di sbarco tedesco ma dovette
cedere sotto il secondo. Il Comando Supremo e
l'Aviazione sottovalutarono la situazione critica in
cui versò l'isola per una decina di giorni. Gli alleati,
che non avevano rispettato gli accordi di Quebec, in
cui le Nazioni Unite si impegnavano a sgomberare
le truppe italiane nei Balcani, rimasero sorpresi
della resistenza dell'isola ed il 20 settembre
decisero d'intervenire in soccorso con proprie
truppe. Ma la decisione fu tardiva.
Il libro è frutto di ricerche archivistiche presso
l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito e
della Marina Militare, l'archivio militare tedesco di
Friburgo e il Public Record Office di Londra. Ed offre
nuovi documenti inediti e particolarmente
interessanti soprattutto la relazione del capo della
missione militare inglese lanciata sull'isola il 21
settembre, ha imposto una rilettura generale dei
fatti. «Corfù cadde per una serie di ragioni — scrive
Paoletti — perché l'Aviazione italiana non utilizzò
l'aeroporto di Corfù, lasciando ai tedeschi il pieno
controllo del cielo e del mare, perché l'isola rimase
senza rinforzi per 15 giorni e fu vittima del
contraddittorio atteggiamento alleato: fino al 17
settembre gli Alleati impedirono l'invio di
rinforzi,poi, quando si resero conto che potevano
sfruttare la determinazione del presidio italiano per
mantenere Corfù in nostre mani, si mossero ma i
tedeschi sbarcarono proprio il giorno in cui un
generale inglese avrebbe dovuto arrivare».
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